Nei tempi più bui lo scrittore non è chiamato a trovare risposte, né a parlare di speranza, e forse nemmeno a dare testimonianza militante, perché la scrittura – per mantenere il suo valore trasgressivo – non sopporta vincoli, nemmeno i più nobili. È chiamato a guardare, con lo sguardo di chi ha scelto di osservare la vita e di trovare le parole per raccontarla. Ma vengono tempi tanto disperati da non lasciare nemmeno le parole, e lo scrittore deve accostare la realtà di sbieco, osservarla in silenzio a occhi socchiusi.
Atiqollah Rahimi è nato a Kabul nel 1962 e ha vissuto in esilio a Parigi da quando, nel 1983, ha lasciato il paese insieme ad altri profughi marciando fra le montagne per nove giorni sino a raggiungere il Pakistan. Nel 2002 è tornato a Kabul, liberata dalla coalizione occidentale, proprio per guardare. Con gli occhi di chi ricorda strade, viali, vicoli e quartieri, il Castello, i vigneti di Takestàn e vede soltanto rovine. Le medesime rovine fotografate nei mesi precedenti dagli inviati di mezzo mondo per documentare i progressi compiuti dai «liberatori occidentali» dell’Afghanistan. Rovine infinitamente diverse per chi ha trascorso nel paese i primi vent’anni della propria vita. Impossibile trovare parole, impossibile raccontare ciò che era e non esiste più, ciò che conflitti, invasioni, gli eserciti stranieri e il fanatismo dei «profeti», hanno compiuto. Rahimi, abbandonando le apparecchiature costose che aveva portato da Parigi, ha girato Kabul con in spalla una vecchia e pesantissima macchina fotografica e ascoltato la gente. la sua Immagine del ritorno (Einaudi, 2004) è fatta di molte immagini e di poche frasi, di dialoghi spezzati con gli abitanti, di vecchie leggende rievocate dalla gente di Kabul, incapace di dar altra voce a ciò che aveva passato, alla mancanza di senso del presente, alla difficoltà di pensare a un qualunque futuro.
La città che emerge dalle foto in bianco e nero, volutamente sfocate, ben diverse dalle fotografie nitide e quasi patinate dei nostri settimanali, è antica, lontana nel tempo oltre che nello spazio: botteghe oscure, tetti crollati, interni esposti e vulnerabili di edifici spezzati dai bombardamenti, gente seduta per terra, come il bambino di copertina, a guardia dei pochi beni salvati, persone che discutono, aspettano, lavorano all’aperto, forse perché non hanno più un tetto, uomini in posa accanto a muri smozzicati, un anziano seduto in mezzo a una via, su una vecchia sedia, lo sguardo che trapassa l’obiettivo per fissare il tramonto, alle spalle una strada lunghissima, fiancheggiata dal nulla.
Invece di impoverirsi a vicenda, come talvolta accade, scritto e immagini di Rahimi riverberano un’efficacia inesorabile; il lettore occidentale si avvicina grato, con il rispetto di chi dubita di aver fatto tutto il possibile e, frastornato prima dagli strepiti dei media che proclamavano la necessità dell’intervento armato, poi dal silenzio del dopo «liberazione» e infine dalla tragedia perdurante dell’Iraq, non sa più nemmeno quali domande farsi. A chi riuscirà a evitare la paralisi del pensiero, la tentazione di mettere da parte un libro tanto «scomodo» e la lettura obbligata dalla cattiva coscienza, le immagini e i brevi racconti di Rahimi potranno dire molto, spingerlo a domande e constatazioni «ovvie» ma sacrosante… Alle spalle del vecchio signore che fissa il tramonto scorre la strada di Meyvànd, «la più lunga e antica via della città. Ai due lati, un tempo, c’erano tanti piccoli rioni. E in ogni casa di quei rioni la storia e il mito convivevano insieme». Adesso, la strada è vuota e desolata, quasi priva di confini. Dove sono finiti tutti gli edifici, le case, la storia minuta l’intreccio di passato e presente che li univa «prima»? E quando è esistito quel «prima»? Prima che la Compagnia delle Indie e l’impero inglese decidessero di indebolire e destabilizzare quest’area immensa? Prima dell’esercito sovietico, prima dell’esercito nero venuto a portare la verità:
L’esercito nero aveva trasformato questo stadio nel luogo della rappresentazione della sua efferatezza. Ed è proprio qui che la verità venne decapitata in nome di Dio […] la gente diceva «sono vent’anni che assistiamo a scene simili. Che differenza c’è tra ieri e oggi? Sono cambiati solo il modo e il luogo. Dai vicoli, lo spettacolo è arrivato negli stadi».
Molto prima, in ogni caso, dell’intervento liberatore della coalizione occidentale che, significativamente, nessuno degli interlocutori di Rahimi nomina mai.
Le storie e i miti, invece, continuano a essere raccontati, si arricchiscono di dettagli attuali, imparano a rispecchiare nuove tragedie, come il mito di Simourgh, l’imperatore di tutti gli uccelli, amara parabola della lotta tra potere e presa di coscienza dei cittadini.
.
Atiq Rahimi, L’immagine del ritorno
Einaudi, 2004, pp. 116, € 16,00, trad. Babak Karimi, Susan Bayani
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.