L’uomo era lì sul pianerottolo. Un uomo, si sarebbe detto, che aveva superato la mezza età, anzi, le soglie della vecchiaia. Portava una camicia bianca perfettamente stirata e pantaloni marrone scuro. Dello stesso tessuto della giacca che teneva in mano.
Questa la prima apparizione del «traduttore», l’uomo del quale la diciassettenne Mari si innamorerà, diventando «vittima» – pienamente consenziente, anzi volenterosa – dei suoi dolorosi riti di dominazione sessuale. Il traduttore è un «uomo esile», «alto pressapoco come me, con spalle e torace quasi gracili», annota Mari, un’immagine molto diversa da quella che si riterrebbe adeguata a un «master» della mitografia sadomasochista. Mari vive sola con la madre in un piccolo albergo di un’anonima località balneare. La madre ha l’abitudine di pettinarla tirandole i capelli quasi dolorosamente, in modo che neppure una ciocca possa sfuggire e Mari la lascia fare. Un gesto abituale che rassicura entrambe nei rispettivi ruoli e conferma ritualmente la dipendenza della ragazza. Mari coltiva qualche nebuloso progetto di libertà e di emancipazione, ma non frequenta coetanei e la sua vita sessuale si limita alle «fantasie che mi lambiscono la mente di notte». Conosce il traduttore nell’albergo. Una prostituta lo accusa di essere un degenerato: «Questo genere di cose chiedile a una cagna randagia!» Ne rimane sua malgrado incuriosita. Lo incontra nuovamente – l’uomo vive solo in una casa su un’isola semidisabitata – e ne diventa l’amante. Ma si tratta di un amore particolare. Il traduttore – un uomo colto, ordinatissimo, scrupoloso – è incapace di abbandonarsi, concepisce il piacere esclusivamente come potere assoluto sulla partner.
Non saprei dire se quello che mi fece il traduttore sia normale. Né saprei come stabilirlo. Ma credo fossero cose particolari.
Il loro è un rapporto clandestino, un frammento di tempo cristallizzato e immobile nel quale si ritrovano e si riconoscono. Mari gioca la parte della vittima, il traduttore il ruolo del suo aguzzino, ma non è la rigidità dei ruoli e la ripetitività delle pratiche a condannare il loro rapporto. Il traduttore è un uomo senza futuro, ossessivamente legato ai propri ricordi, Mari vive con lui una parentesi onirica, scoprendo gradualmente il proprio corpo e il proprio desiderio. La rottura tra loro, definitiva e drammatica, è soltanto questione di tempo. Un tema non nuovo – anche se forse raramente raccontato con tale impassibile freddezza – che Ogawa affronta armata di uno stile particolarmente efficace. Il punto di vista è sempre, esclusivamente quello della ragazza. Mari non si fa troppe domande sulla sua esperienza, né, più in generale, sulla sua vita. Vive con un bagaglio di pochi ricordi d’infanzia, annoiata della vita squallida nell’hotel, dall’avidità e dal gusto per la maldicenza della madre e della sua serva, ma con pochi sogni e ancor meno desideri. Nel rapporto con il traduttore scopre finalmente se stessa, ma anche il suo sottile, onnipresente impulso ad autopunirsi per la sua accidia, l’irresolutezza, la mancanza di impulsi. Non si ribella alla sua vita insulsa e si sforza di ignorare il disprezzo che, per questo, prova per se stessa. Il traduttore diviene così la sua personale forma di ascesi, lo strumento inconsapevole che può renderla immemore e finalmente pacificata. Mari sa di non poter definire amore il sentimento che la lega al traduttore, ma una reciproca dipendenza, un antidoto all’ansia. Non può vivere senza di lui, ma il loro rapporto – chiuso, esclusivo, disperato – non la può liberare né rendere adulta. Ogawa utilizzando mezzi apparentemente poveri – un lessico freddo e funzionale, poche immagini, anche se estremamente penetranti, dialoghi spogli, quasi teatrali, nessun monologo interiore, nessuna metafora – riesce a creare una tensione quasi intollerabile, a comunicare un senso di oppressione e di paralisi che, almeno in alcuni passaggi, può indurre il lettore a sospendere temporaneamente la lettura per venire a patti con i propri fantasmi. L’aspetto forse più sorprendente di un testo per molti versi «estremo» è l’assoluta mancanza di giudizi e sentenze. Ogawa non condanna il traduttore, uomo arido e disperato, confinato in un universo ossessivamente ripetitivo. Non prende posizione sui suoi esorcismi di morte, per lui gli unici motivi per sopravvivere. Nemmeno Mari deve subire – implicitamente o esplicitamente – il giudizio dell’autrice. Ogawa ne è la cronista, la voce che la descrive senza emozioni. Al termine del romanzo l’«episodio» con il traduttore resta per Mari un evento con poche conseguenze e senza riflessi sulla sua esistenza futura, un’isolata bolla di follia che il tempo farà impallidire. E proprio qui si annida l’affascinante ribaltamente di prospettiva che Ogawa suggerisce al lettore. Mari, accettando di farsi vittima, ha condannato il suo carnefice. La follia a due che hanno vissuto li ha visti sempre separati, lontani, concentrati su gesti spezzati e puntiformi. Mari si osservava, in quei momenti, affascinata dalle reazioni del proprio corpo, lontana dalla «scena», vuota e assente. La sua volontà di non resistere, di non difendersi, di lasciare semplicemente che ogni cosa avvenga spezza il debole rapporto del traduttore con il mondo reale e lo proietta completamente nel suo incubo.
Può essere interessante notare che un simile approccio alla sessualità – la perversione sessuale come ascesi e condanna – è una costante tematica di Tanizaki Yunichiro (cfr. LN 32 [vecchia serie], Il miele di Afrodite) e appare frequentemente in Mishima Yukio (cfr. LN 28 [v.s.], Una stanza chiusa), come in numerose altre produzioni narrative e cinematografiche (L’impero dei sensi, Tôkyô decadence). Una sfumatura culturale esclusivamente giapponese? Probabilmente non in modo esclusivo. Inutile ricordare in questa sede le sfumature morbose di moltissima martirologia cristiana. È molto probabile si tratti, semplicemente, di un aspetto dei possibili comportamenti sessuali umani apertamente rappresentato grazie a una peculiare visione del mondo. A suo tempo parlai di «ambiguo rapporto tra sesso, dolore, umiliazione, abbandono e sconfitta che anima la cultura giapponese» (LN 32 [v.s.]). Non posso, a questo proposito, che rimandare i lettori ai cinque reportage di Tôkyô Mondo Fetish di Guillo Kaligali, apparsi in LN 28, 29, 30, 31, 32
Ogawa Yoko, Hotel Iris
Marco Tropea 2005, ed. or. 1996, pp. 158, € 13,00
trad. Ornella Civardi
Idem,
Il Saggiatore Tascabili 2009, pp. 158, € 9,00
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