Una famiglia di donne: la madre, la figlia, nata da un primo matrimonio, un bambino, nato dal secondo, una cugina e un’amica della madre. Ritmi e tempi di una vita familiare fatta di piccoli, tranquillizzanti riti, una felicità consueta, minima, edificata sulle colazioni in comune e sulla cucina delle due donne più grandi: la Madre e la sua amica Junko.
Protagonista – il romanzo è scritto in prima persona – è Sakumi, la figlia nata dal primo matrimonio. Ed è lei a raccontare la crisi e la fatale disgregazione di questo inconsueto nucleo familiare. La sorella della protagonista – Mayu – è morta di recente in circostanze mai sufficientemente chiarite, e l’ombra della sua rapida parabola vitale accompagna la famiglia. A Sakumi capita di sognarla, talvolta di incontrarla, vederla di sfuggita, confonderla con altre persone appena intraviste. Il suo ricordo è fulgido in alcune circostanze, offuscato e vago in altre. Yoshio, il fratello minore di Sakumi schiacciato dalle proprie ESP sviluppatesi al momento di affacciarsi dell’adolescenza, smette di andare a scuola e si rinchiude in un universo di sonno e silenzio, nel quale è difficile raggiungerlo. Sakumi ritrova amiche perdute di vista da tempo; fa nuove, singolari conoscenze; vive una storia d’amore imprevista con Ryuichiro – il fidanzato della sorella Mayu – e, con il procedere delle vicende familiari, acquisisce gradatamente la consapevolezza del tempo trascorso. Infine Junko, l’amica della madre se ne va e l’esperienza bizzarra della famiglia di donne termina. Il romanzo è tutto qui, e raccontarlo o riassumerlo non è impresa facile. Vive dei colori e delle visioni di Sakumi, degli odori di cucina, delle chiacchiere scambiate a bassa voce di notte, del sentimento di complicità che talvolta unisce magicamente le donne e che le rende orgogliose della propria ironia come della propria lungimiranza e sensibilità.
Un romanzo esclusivamente femminile, dunque? Un testo per signorine o per anime belle? Sono in molti ad affettare ironia quando si parla di Yoshimoto Banana, come se il suo talento – talvolta magico – di raccontare emozioni minute ed eventi anche banali dell’esistenza, esercitato su materiali così consueti divenisse anch’esso banale. Yoshimoto sa narrare con sensibilità rallentata, quasi sospesa, le svolte della vita, i momenti di consolazione e di smarrimento e – sorprendentemente – sa trovare le parole per raccontare la gioia. Si muove sulla faccia in ombra della vita, quella quasi esclusivamente occupata da donne, donne che si alzano prima di tutti per stirare o per preparare la colazione, donne che più o meno consapevolmente tessono la trama che permette agli altri membri della famiglia di sentirsi liberi e realizzati. Non si tratta dell’elogio della donna del focolare, sia chiaro: nel primo romanzo tradotto in italiano, Kitchen, era un uomo, un travestito, a vestire i panni della madre e a garantire continuità e serenità a chi viveva con lui.

Banana Yoshimoto
Ma non è un romanzo perfetto, Amrita, Yoshimoto in un paio di occasioni cade in ingenuità mal comprensibili per un’autrice che ha già diversi romanzi al suo attivo, spezzetta eccessivamente le frasi con il risultato di dare rilievo a banali frasi a effetto, abbandona diversi spunti senza svilupparli e colleziona ritratti femminili a forti tinte, non tutti sufficientemente rilevati. Rischia talvolta lo zuccheroso o il bozzetto, salvo poi narrare con un nitore quasi visionario le emozioni provocate da un ricordo improvviso o da una conversazione.
Sono convinto che se mai esistono narratori d’istinto Yoshimoto Banana è sicuramente uno di loro. Condivide con i grandi autori giapponesi la dote di sviluppare una narrazione carica di immagini, che nel suo caso arriva quasi ad essere fisica, materiale.
Amrita è un romanzo ricco e sorprendente, dispersivo e forse prolisso, ma dotato di un ritmo intensamente emotivo che ha ben poco a che vedere con le confessioni adolescenziali o i palpiti scontati di giovani cuori femminili. Il pensiero della morte e del mutamento lo accompagnano costantemente: la morte come separazione e termine del mutamento, ma anche il mutamento come morte del proprio sé precedente.
Concludo sottolineando un aspetto dei romanzi di Yoshimoto che testimonia la profonda differenza tra la mentalità giapponese e la nostra: in Amrita, come in altre opere, la morte non è necessariamente un passaggio ad un altro piano di esistenza e non è separazione definitiva. I morti non abbandonano mai del tutto i vivi, frequentano ancora la famiglia, la casa, non turbati da eventuali peccati consumati in vita ma rasserenati dalla propria condizione di esseri immateriali. Ed è questa visione così coerentemente «pagana» della vita e della morte a fornire ulteriore fascino ad Amrita.
Yoshimoto Banana, Amrita, Feltrinelli Universale Economica 201916, tit. orig. Amrita (1994), trad. di Giorgio Amitrano, pp. 320 € 10,00
Idem e-pub € 6,99
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.