Collaboriamo con Gordiano Lupi e abbiamo simpatia per Stampa Alternativa e per la sua produzione. Totale: questa recensione parte male. È sleale, è tendenziosa in partenza. Poco affidabile, partigiana in modo scandaloso.
Ma l’ho scritta ugualmente e i due che conducono la barchetta di LN l’hanno accettata, sia pure con qualche mal di pancia.
«In fondo è anni che scrive per LN. Non solo, si è anche sobbarcato una rubrica dedicata alla narrativa italiana.» E poi in coro: «Poveretto!».
Non mi reputo poi troppo poveretto. Ricordo di aver letto anche alcuni autori meritevoli o meritevolissimi. Moresco, Mari, Piersanti, Marani, Bugaro solo per citare i primi che mi vengono in mente. Poi ho letto anche le Ciabatti (atroce), le Vinci, gli Ammaniti, i Baricco, la buonanima di Faletti, gli Scarpa, gli Aldonove, le Santacroce, i Marcodrago, i Bosonetti esausti e le Baresani pimpanti, le Tamaro… Un bilancio prevalentemente negativo, certo, ma non del tutto catastrofico. Noi lettori insaziabili siamo fatti così: ci basta un buon libro ogni tre o quattro orrendi per riconciliarci con la vita e la lettura.
Se dovessi individuare una costante fra tutti i libri che non mi sono piaciuti, che non mi hanno interessato, mi hanno decisamente tediato oppure che ho schiettamente detestato, parlerei di testi nati dalla volontà di «apparire» piuttosto che di «essere».
L’apparire in questo contesto riveste numerosi significati. Un apparire che è un «voler essere» e/o un «voler dire».
Premessa: i libri che si sforzano di trasmettere un messaggio mi irritano profondamente. Ricordo, all’età di nove anni, di aver letteralmente gettato dalla finestra un libro amorevolmente ricco di buone intenzioni che raccontantava la difficile infanzia di tanti bambini del mondo. Un gesto del quale non vado fiero, intendiamoci, ma che immagino (o temo) mi esprima pienamente. Si può quindi comprendere la mia viscerale antipatia per i libri di Susanna Tamaro, carichi di feticismo del martirio – proprio e soprattutto altrui – di drammatizzazioni esasperate e, in fondo, un po’ ridicole. Drammatizzazioni grottesche che non è difficile riconoscere anche nell’opera omnia di Simona Vinci o di Isabella Santacroce. Vittimismi onanisti, più o meno modaioli, di personaggi inconsistenti e/o improbabili.
Drammatizzare, in fondo, è un distillato dell’apparire. Simulare o inscenare passioni estreme – anche se tragicamente piccolo borghesi – simpatizzare per la morte e ammettere di subire il fascino della degradazione è un vecchio trucchetto per cuccare. Gonzi o lettori, il risultato non cambia.
L’effetto in lettori come il sottoscritto, comunque, è pari a quello di chi minaccia di diruparsi lanciandosi dal divano del salotto buono o di tagliarsi le vene col bastoncino del mottarello.
Ma anche combinare giochi di parole e di personaggi, declamare rarefatte trombonate, descrivere puntigliosamente raccapriccianti schifezze – chi si dimentica la povera professoressa illusa d’amore sciolta nell’acido da Ammaniti? – è un semplice tributo all’apparire, un replicare abilmente giochi e giochetti, ben sapendo che saranno molti i lettori a caderci.
Gran parte della nuova letteratura italiana di questi anni è nata e vive sotto il segno di questo esasperato apparire, esibirsi, mostrarsi, stupire. Una letteratura asfittica, residuale, bamboleggiante. Nata da autori figli di uno star system minore, mascotte di un ambiente soffocante e soffocato, fatalmente provinciale nella misura in cui è legato ad una lingua minoritaria. Esclusivo non per oggettiva eccellenza ma soltanto per la difficoltà di approdarvi.
Ho accolto con una certa diffidenza il nuovo parto di Gordiano.
Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura. recensito in LN mi era parso un libro necessario, un soffio d’aria fresca in un ambiente definitivamente avviato verso l’asfissia. «Che cosa ci sarà ancora da aggiungere?» mi sono chiesto, temendo la rifrittura in diverso ordine degli stessi temi e degli stessi argomenti.
Questa volta il libro è organizzato in forma di dizionario ragionato, ovvero di rassegna o, se preferite, di sfilata. A ogni nome corrisponde un’invettiva, un avvertimento, un giudizio. Ce n’è davvero per tutti, in ordine alfabetico da Agenti letterari a Wu Ming, passando per l’atroce (lo ridico) Ciabatti Teresa, dedicando qualche pagina a Melissa P. e persino a Walter Veltroni, scrittore non troppo abile ma pieno di buone intenzioni (appunto).
Nemici miei non è un libro equilibrato e sereno. E, paradossalmente, questo costituisce uno dei suoi maggiori pregi. I suoi giudizi, i suoi commenti sono spesso sommari o brutali – «ti fa due palle come cocomeri» è un intercalare classico – talvolta argomentati sulla base di elementi che non hanno nulla a che fare con la sostanza – forma e contenuto – dei testi presentati, ma piuttosto su elementi apparentemente estranei. Elementi come l’invadenza mediatica, le dichiarazioni gratuite, la tendenza insana a creare e/o a collaborare con scuole di scrittura creativa.
Soltanto apparentemente estranei ai testi perché – e sta qui l’intuizione fondamentale di Gordiano Lupi, della quale lo ringrazio di tutto cuore – è divenuto sostanzialmente impossibile separare i testi dagli autori e dalla loro ingombrante presenza. L’industria editoriale contemporanea non vende più libri ma package più o meno eleganti e raffinati, dove il genere (noir, poliziesco, horror, rosa, fantasy, Bildungsroman) è diventato confezione e il testo, talvolta largamente apocrifo, una semplice epitome alla figura dell’autore, alla sua capacità di imporsi ed essere comunque presente. Il ruolo del lettore tende così a trasfigurarsi in quello del semplice fruitore, ammesso a godere delle ineffabili gioie dell’ostentazione di autorialità. Che l’autore in questione scriva banalità oscure, sublimi luoghi comuni o storielline da/per poveri scemi non interessa a nessuno. Egli è Autore ed è la sua esistenza in quanto tale a essere garanzia dei suoi testi.
È possibile recensire questo genere di produzioni letterarie? Spremere qualche riflessione dalle pagine di Isabella Santacroce o di Melissa P.? No! Non è possibile. Non solo, non ha nessuna importanza né alcun costrutto farlo. Un po’ come convocare uno chef per chiedergli un giudizio su una merendina Kinder. Davanti alla povertà di certe ispirazioni e di certi testi per il recensore diverrà inevitabile uscire dal confine del testo per interrogarsi sull’organizzazione dell’offerta editoriale.
In sostanza cominciare a chiedersi chi sono i mandanti e quali i complici.
Quasi quasi e Nemici miei, al di là di giudizi e commenti che si possono o meno condividere – io, esempio, apprezzo Gene Gnocchi anche in quanto autore e ho apprezzato Paolo Nori – sono un buon esempio di come sia diventato lecito (e probabilmente necessario) includere l’analisi dell’organizzazione dell’industra mediatica nella pratica di una critica letteraria efficace. Globalizzazione e monopoli della comunicazione significano anche questo: «È l’economia, stupido!»
I lettori di lunga data di LN non avranno difficoltà a orientarsi nelle pagine di Nemici miei. In fondo la rivista è nata anche per esplorare il legame tra estetica letteraria ed economia industriale. Volendo si potrebbe affermare che questa è propria la sua funzione e ciò che, orgogliosamente, la rende diversa da molte altre.
Anche e soprattutto da quelle citate da Lupi nel suo testo.
Gordiano Lupi, Nemici miei. Consigli utili per difendersi da scrittori, editori e giornalisti inutili
Stampa Alternativa, 2005, pp. 122, € 9,00
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