Il libro del quale parlerò è stato uno degli ultimi ad essermi arrivati in libreria e ricordo di averlo portato a casa quasi di corsa, in uno degli ultimi giri nella mia ex-libreria. Lo portai a casa per un’inutile curiosità, una curiosità scaduta, come avevo fatto per tante altre volte, tanto per rendermi conto con un maggior grado di competenza dello stato che già allora ritenevo semicomatoso del commercio librario nazionale. Il libro è Pazzi scatenati, usi e abusi dell’editoria italiana, editore Effequ, autore Federico Di Vita. nato la bellezza di 27 anni dopo di me e che, avanzo il dubbio, ha capito quanto basta sull’editoria italiana e sulle sue condizioni. Il libro è uscito nel 2011, ovvero questa è la data stampata nel colophon ma a me è arrivato a febbraio 2012, quindi direi che è perlomeno uscito negli ultimi giorni del 2011 ed è entrato in distribuzione con l’inizio dell’anno nuovo. È un libro piuttosto svirgolato, nel quale si alternano riflessioni, commenti, osservazioni, dati economici e gestionali a brani di tipo narrativo, lunghe interviste – qualcuna anonima -, esperienze personali, frammenti biografici, maledizioni, scongiuri e verosimilissimi racconti di sciagure a venire. Leggerlo d’un fiato non m’è riuscito, un po’ troppo romanocentrico, qualche volta troppo sbilanciato sul presentarsi come amicone denoantri, altre volte dannatamente personale, ma comunque in definitiva leggibile e consigliabile, a tratti freddo e preciso come un bisturi, in altri semplicemente e spaventosamente spietato nell’affermare che il commercio librario in Italia, così com’è diventato, è destinato a una lungo, faticoso e disperante tramonto, cui seguirà una notte che nessuno riuscirà anche solo vagamente a intuire. Ma cerchiamo un attimo di capire che cosa è successo in questi ultimi anni.
Ultraschematicamente possiamo dire che gli editori “puri” sono sostanzialmente scomparsi (basterà ricordare Giulio Einaudi, Valentino Bompiani o Angelo Rizzoli?), sostituiti da gruppi proprietari con un management che con i libri e la cultura non ha in genere alcuna affinità. Se il modo di interagire degli editori puri con le librerie era basato sul rispetto reciproco, «io lavoro bene e penso che anche tu lo faccia», il management d’impresa in Italia – come ovunque nel mondo – ha puntato sul possesso della filiera produttiva per ridurre i costi: dalla tipografie, alla distribuzione, alla promozione, alle librerie. Le librerie, già. Le librerie indipendenti, di prossimità ma non solo, sono state le prime a pagare il conto dell’accellerazione imposta dai grandi gruppi. Cinque gruppi, Mondadori, RCS, GEMS, DeAgostini e Giunti formano l’80% del venduto nazionale di libri. Mondadori e Giunti in particolare dispongono non solo di una propria distribuzione ma anche di una propria diffusa e capillare catena di librerie (Mondadori in franchising e Giunti al Punto), dove i termini di acquisto dei volumi sono incomparabilmente migliori di quelli previsti per i librai privati. Di catene di librerie, comunque, ne esistono diverse altre. La Feltrinelli, innanzitutto, poi la Coop, FNAC (che ultimamente non sta troppo bene, vero), Ubik (legate al gruppo GEMS), le Edison e le Mel Bookstore. Tutte queste librerie possono utilizzare sempre la legge Levi praticando costantemente un 15% di sconto, dal momento che lo sconto ricevuto per l’acquisto è uguale o superiore al 40% mentre lo sconto concesso alle librerie indipendenti è del 27% o poco più [1]. La legge Levi è stata introdotta per “difendere i piccoli punti vendita”, si è detto e scritto. Ma si trattava di una legge utile (disperatamente utile, aggiungo) ai grandi editori – e ai loro punti vendita – per difendersi dal mostro Amazon e dai suoi sconti che sbancavano completamente il mercato. Amazon Italia può lavorare in perdita per anni, i nostri amici grandi editori no. Ma il vero problema che il libro solleva è che i medi editori, ovvero i veri editori, quelli che vivono esclusivamente delle proprie vendite, hanno difficoltà sempre maggiori a entrare e e rimanere sul mercato. Costretti a concedere sconti troppo elevati per poter godere di un’esposizione periferica e defilata nelle librerie di catena, costretti ad accettare rese anche prima dell’effettivo accredito delle vendite, tagliati fuori dalle vetrine delle maggiori librerie, dal momento che i grandi editori pagano l’esposizione in vetrina. Il risultato inevitabile è che i medi editori sono costretti a tagliare i propri investimenti e a rimandare sine die i testi meno immediatamente vendibili, anche per non ritrovarseli nelle rese anche prima che il pubblico si sia reso conto della loro esistenza. Editori costretti a smettere di essere tali, in sostanza. Quanto ai piccoli editori, infine, il prezzo della distribuzione è diventato proibitivo e le grandi librerie sono escluse in partenza. L’unica loro possibilità è quindi la vendita diretta on line, con tutti i problemi di visibilità che ne derivano. In un settore così evidentemente colpito finiscono d’altro canto per rovesciarsi da qualche anno a questa parte tutti coloro che, dotati di lauree in materie umanistiche, non possono più entrare nel mondo scolastico, con tutte le deformazioni e gli orrori di stages gratuiti interminabili e uno sfruttamento selvaggio della manodopera qualificata da editori a loro volta alla canna del gas.
«Ma esiste sempre la possibilità di diventare scrittori», qualcuno proporrà, un’eventualità ovviamente divenuta improbabile dal momento che l’editoria media, quella davvero vivace e attiva, deve tagliare per prime le uscite degli esordienti…
Rimane sempre la possibilità di autopubblicarsi, di fare self-publishing, magari passando da Amazon. Ma su questo preferisco non esprimermi. Per il momento mi basta sapere di avere avuto (inutilmente) ragione e vi consiglio di cercare e leggere il libro di Federico Di Vita. Ne vale la pena [2].
Seconda parte del commento al libro di Federico De Vita, Pazzi scatenati. Un po’ più vicino, credo, ai problemi quotidiani di tanti lettori e di non pochi blogger-scrittori.
Qualche citazione, che renderà il libro più vicino a chi legge, e qualche riflessione, tanto per guadagnarmi un po’ di antipatie.
Una delle cose che dicevo nella prima parte di questo intervento riguardava le crescenti difficoltà della piccola e media editoria. Difficoltà a comparire e rimanere sul mercato, difficoltà a produrre libri, a trovare e pagare collaboratori e autori. E qui la prima citazione, dalla prima edizione del libro:
[…] ebbene in nessun caso, in nessun caso mai tranne che nell’editoria mi è capitato di non essere pagato. Niente ore notturne comprese nel prezzo, mai ho visto ritenere ordinario il lavoro nei week-end, mai ovvio il fatto che gli spostamenti fossero a mie spese, niente di tutto questo mai tranne che con le case editrici. Davvero, vale la pena?
Quando era ancora libraio sentivo spesso lamentele del genere: «Ha sgobbato per tradurre / scrivere / preparare un libro e non ha ancora visto un quattrino. Nè, probabilmente, lo vedrà mai.» All’epoca deprecavo ma, da un certo punto di vista, non mi stupivo. Chi lavora “nei libri” sa che viviamo in un paese ignorante come un turacciolo e che i soldi che girano sono molto, molto pochi. Certo, qualche volta veniva fuori che l’editore con i soldi di autori, redattori e traduttori si era fatto la villa in qualche resort ma erano casi rarissimi. Più probabile che emergesse che l’editore per fare fronte ai debiti nei confronti dei distributori si era venduto “la casa, il cascinale, la mucca, la scatola degli scacchi, i dischi di Little Tony…” come cantava una vecchia canzone di Dario Fo. E la domanda rimane lì: «Ma davvero, ne vale la pena?».
I distributori. Poco noti, poco appariscenti ma estremamente potenti da un punto di vista economico e funzionale:
[…] quando un editore mette in distribuzione dei libri riceve dal distributore in pagamento l’intero valore di quei titoli. […] Naturalmente non tutte quelle copie saranno vendute – anzi! – e quando sei mesi dopo l’editore se ne vedrà arrivare in resa settecentotrentadue dovrebbe a sua volta rimborsare il distributore per queste copie, ma a questo punto anziché ripagarlo può dargli in distribuzione altri libri […] [e] non si limiterà a coprire con i nuovi libri il debito dei vecchi ma gliene darà di più, con l’illusione di ripianare il debito e mettersi in tasca due lire. Naturalmente così facendo l’editore non fa che aumentare la propria esposizione nei confronti del distributore, che sei mesi dopo gli renderà più libri della volta precedente. Ad libitum. […] Ad libitum fino al fallimento (dell’editore).
Questo è il meccanismo di distribuzione di gran parte degli editori medi e di cultura italiani. Qualcuno si stupisce se editori come Bollati Boringhieri o Garzanti o Vallardi o Guanda o l’editrice Nord abbiano finito per diventare proprietà del gruppo GeMS, proprietà al 73,77% di Messaggerie Libri, principale distributore italiano? Se vi chiedevate perché mai la Nord non pubblica più sf, avete qui la risposta: perché la sf è un genere largamente secondario per il pubblico italiano e non esiste interesse a far crescere un pubblico se è possibile cavarsela con qualche titolo importato di forte impatto. Qui, se volete, potete dare un’occhiata alle novità dell’attuale editrice Nord. Fantasy+Teo/horror+Dark ultrasentimentale+ purafuffa.
Il secondo distributore italiano era la PDE. Ora divenuta di proprietà di Feltrinelli. Che è anche proprietario di una grande catena di librerie. Che poi sarebbe il luogo dove è stato inventato un meccanismo di distribuzione speciale per i piccoli e piccolissimi editori:
Prendono lo stesso questi libri in deposito [3] ma in realtà non li tolgono nemmeno dagli scatoloni […] poi riconsegnano gli stessi colli senza che i libri siano passati dagli scaffali. […] Dopo trenta giorni quel titolo finisce direttamente in resa. Pagando dopo cinque mesi [4] il distributore fa in tempo ad accreditargli la resa senza emettere fattura. […] Così facendo Feltrinelli fa la bella figura di comprare dei libri della piccola editoria pur sapendo che non li venderà: li metterà in resa e non li pagherà. [5] (Pasquale Colaps, ex-direttore PDE di Roma)
Questo il panorama, a una risoluzione appena maggiore. Se molti lettori hanno la sensazione che la gamma dei libri disponibili in commercio stia chiaramente peggiorando – per varietà, per temi, per tempo di disponibilità, per qualità della composizione, per qualità intrinseche e formali – è difficile dargli torto. I grandi editori, quelli dei quali sono piene a scoppiare le librerie rimaste, puntano su incassi facili e veloci e non hanno nessun interesse a coltivare un pubblico sveglio, vivace, esigente… un pubblico laico, nel senso che diffida delle folate misticheggianti. Date un’occhiata ad alcuni titolo della homepage di Newton Compton e capirete che cosa intendo.
E gli autori?
Ci sono anch’io in questa risma di disperati.
Poco fiduciosi nei pochi editori decenti tentiamo strade nostre. Modi per arrivare a essere letti e magari mettere insieme una miserevole mancia senza dover pagare nulla a nessuno. Si fa bene?
In linea di massima sì. Internet esiste anche per dare una (piccolissima) possibilità a autori dimenticati o trascurati. Tanto è vero che se n’è accorto anche il grande Amazon.com che offre a tutti la possibilità di apparire su un sito affollato, vivace, anche a chi di informatica ne capisce meno di nulla [6]. L’unica condizione richiesta da Amazon agli autori che pubblicano e.book è l’uso del proprio e-reader, il kindle, e del proprio standard il .mobi. Sembra una sciocchezza, in fondo se mi pubblicano potranno pure scegliere lo strumento che pare a loro, no?
No, personalmente non lo credo.
Non credo nella fondamentale bontà di Amazon.com – come non credo in quella di Mondadori, peraltro – e non penso che l’uso del kindle sia una semplice scelta personale.
Lo so, si rischia di scivolare nella sf distopica e in fondo temo di essere il soggetto giusto per farlo. Senza contare che non ho nessuna simpatia per chi non distribuisce i miei pochi libri dichiarandoli tutti esauriti mentre le altre librerie on line li commercializzano senza problemi… Fatto sta che non approvo che in prospettiva esista uno strumento di comunicazione soggetto a proprietà che rischia di diventare prevalente. Non desidero che Amazon.com arrivi a poter decidere che cosa si può leggere e che cosa non si deve leggere.
In fondo è pura dottrina liberale, niente sparate da comunista perduto nella jungla.
Ma di questi tempi persino un punto di vista liberale rischia di passare per terrorista…
Federico Di Vita, Pazzi scatenati. Usi e abusi dell’editoria italiana
Effequ 2011, pp.188, € 14,00 (prima edizione)
Tic Edizioni 2012, pp. 312, € 14,00 (seconda edizione)
[1] ovviamente il grado di libertà nella scelta e nella composizione del magazzino del quale godono i responsabili di tali librerie è praticamente pari a zero.
[2] qui, comunque, un altro interessante link a un altro autore che sembra avere qualcosa da dire.
[3] la cessione in conto deposito significa la possibilità di pagare esclusivamente le copie vendute entro un tempo dato. In genere è la forma di cessione del piccolo editore verso la libreria.
[4] una libreria indipendente paga in genere a 60 gg.f.m.d.f (fine mese data fattura). Le Feltrinelli pagano a 150 gg. per ovvi motivi di peso del fatturato.
[5] Non so se qualcuno ricorda una certa pubblicità sul “vedere il proprio libro in commercio da Feltrinelli”. Ovvero “Quando Pinocchio incontra il gatto e la volpe.”
[6] I passaggi sono essenziali nella politica di Amazon. Più o meno come in un vecchio calembour: «Entrino siori e siore, più gente c’è, più bestie si vedono»
P.S.: del libro è uscita un’edizione aggiornata che potete trovare qui.
Recensione già pubblicata sul blog Fronte & Retro. Ringraziamo l’autore per il gentile “prestito”.
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