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    Magazzino

    Just a Gigolò

    • di Silvia Treves
    • Gennaio 15, 2015 a 10:04 am

    gigolo

    Il romanzo di Andrea D’Urso è una scommessa antica, che tanti scrittori hanno fatto con se stessi: raccontare in prima persona, dall’interno, un protagonista né “grande” né particolarmente emblematico senza tradirlo.
    Tradotte in immagini cinematografiche, questo genere di scommesse somigliano un po’ a una ripresa in soggettiva (P.O.V.) nel quale il “regista”, si muove riprendendo persone ed elementi del paesaggio senza filtrarle o commentarli. Letterariamente queste scommesse sono perdute in partenza, perché chi legge o guarda si aspetta che il punto di vista (del personaggio, della telecamera) cambi, che tenda a uno scopo, che voglia raccontare una vicenda – se non dall’inizio alla fine almeno da un punto ad un altro diverso dal precedente.
    Nel romanzo di D’Urso, l’occhio della telecamera è Pino, un ex calciatore abbastanza bravo ma non tanto da sfondare. Con alle spalle dei genitori mal combinati e litigiosi – un padre dittatore e violento e una madre incapace sia di ridimensionare il marito sia di liberarsene – Pino ha avuto come unico punto di riferimento una sorella di poco maggiore, cresciuta con molti problemi psicologici. Non particolarmente colto ma osservatore, Pino persegue ostinatamente una vita in superficie e l’autosufficienza affettiva, non è interessato ad approfondire i rapporti con nessuno e con nulla.
    L’aspirazione, la strategia di sopravvivenza di Pino è l’anonimato. E anche la sua professione di gigolò di alto bordo, basato su un accorto utilizzo di un corpo gradevole, di modi urbani e di una “bella presenza” coltivata con impegno e ogni volta adeguata alla
    situazione e alla cliente è anonima: Pino è l’amante a pagamento, il complice di una sera, una notte, al massimo di appuntamenti periodici che ad un certo punto si esauriscono. Da vero professionista, Pino è capace di impersonare l’amante focoso, il  compagno di baldoria, l’innamorato, è disposto a soddisfare le richieste, spesso bizzarre, delle clienti; se mai la sorte dovesse farli incontrare fuori della camera da letto, Pino si comporterebbe come se non le avesse mai conosciute. Ma mentre lavora le osserva, le studia, le valuta senza malanimo e senza disprezzo, apprezzandone le qualità e a tollerandone i difetti con ironia; e le ricorda rievocandole per i lettori, riservando dettagli divertenti e tocchi di malinconia.
    Come non vuole una compagna, Pino non vuole un luogo da chiamare casa al di là del proprio comodo appartamento, anzi, ama perdersi nelle città dove lo porta il suo lavoro, visitarle da estraneo destinato a non ritornarci, e gli scorci che intravvede, sono a volte le cose più riuscite del romanzo.

    andea d'urso

    Andrea D’Urso

    La storia di Pino si dipana tra istantanee di donne non più giovani ma abbastanza ricche da permettersi le sue tariffe, scorci di città e flashback sul suo passato di ragazzo imprigionato in una famiglia opprimente.
    Dal punto di vista della scrittura Il problema che D’Urso ha dovuto affrontare è decisamente interessante: narrati da noi stessi tutti noi sembriamo significativi. Ma, per scelta dell’autore, il protagonista non desidera risultare tale: Pino nuota in superficie, non desidera approfondire conoscenze, costruire rapporti umani che vadano al di là del momento e del lavoro; quando esce dalla stanza e dalla vita di una cliente Pino si chiude la porta alle spalle. Come raccontare, quindi la storia di un personaggio che rifiuta di essere coinvolto? Come farlo “parlare”? Uno stile troppo piatto impedirebbe a Pino di sondare se stesso, e gli toglierebbe capacità di scelta e consapevolezza; uno stile troppo riflessivo e complesso lo renderebbe poco credibile: non si vive in superficie interrogandosi sui Massimi Sistemi. D’Urso ha scelto di articolare il testo in brevi capitoli, spesso dedicati a una cliente o a una città, e di usare un presente attuale dal quale guardare sia l’infanzia lontana, sia gli anni già trascorsi facendo il gigolò. Ma spesso è proprio Pino a ricordarci che, nonostante qualche benedetto cedimento, vuole starsene fuori:

    … Vado a decenni. Ogni decennio mi rendo conto delle stronzate che pensavo in quello precedente.
    Tale fenomeno, tuttavia, sarà difficile che si ripeta tra una decina d’anni (sempre che sia ancora vivo) e non tanto perché non pensi delle stronzate, quanto perché oggi non penso più.

    Oppure, in maniera più lieve:

    … È quella fascia di Adriatico in cui l’Adriatico, prima di essere un mare o un’area geografica, è uno stato mentale […] Anche questo è un benessere laterale, che scorre fluido a lato di un’Italia viscosa. Sopravvive un alone di vacanza anche al sopraggiungere della tramontana. Il resto lo fanno gli chalet, l’odore di fritto e i cani che corrono lungo la spiaggia.

    Concepito così, il romanzo è volutamente inconcluso e non concede al protagonista e a chi legge una svolta e un’evoluzione che Pino in definitiva non vuole e non cerca. A libro chiuso resta soprattutto l’impressione di un monologo ascoltato in treno da un compagno di viaggio, o al bar da un vicino capace di raccontarsi e mai noioso, al quale si perdona volentieri qualche rara esagerazione. Ogni lettore può decidere se l’autore abbia vinto o perduto onorevolmente la scommessa.
    Due parole sul titolo: Just a gigolò non rende merito al romanzo, spacciando per un prodotto di consumo un’opera in realtà più ambiziosa e meritevole di rispetto.
    L’autore lavora e vive a Roma, dov’è nato. Just a gigolò è stato finalista al Calvino 2013.

     

    Andrea D’Urso, Just a Gigolò

    E/O 2014, pp. 166, € 16,00

     

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