Le piante sono talmente diverse dagli esseri umani che per noi è molto difficile apprezzarne appieno la raffinatezza e la complessità.
(Michael Pollan)
Le armi della nostra specie, e di conseguenza le caratteristiche che noi consideriamo determinanti, sono la consapevolezza, la capacità di cambiare l’ambiente e il linguaggio, cioè il motore e il risultato del nostro cammino evolutivo. Le piante hanno compiuto un viaggio altrettanto complesso e molto più lungo del nostro, ma «hanno viaggiato in un’altra direzione»; esse sono «gli alchimisti della natura», gli autotrofi, i pionieri, le creature di confine che, utilizzando la luce solare, trasformano la materia inorganica in sostanze organiche. I vegetali ci regalano all’umanità cibo, bellezza, l’ebbrezza del vino e delle sostanze psicotrope. Ma perché lo fanno? In parte le producono per difendersi, inducendo, con veleni mortali, sostanze disgustose e allucinogeni, gli animali – quelle creature iperattive e dalla vita tanto breve – a stare alla larga. Ma sintetizzano anche sostanze che hanno l’effetto opposto di attirare i predatori, gratificandone i desideri: gli zuccheri dei frutti, i pigmenti che rendono splendidi i fiori, le sostanze psicotrope. Perché?
Perché le piante vogliono indurre noi animali a fare per loro ciò che da sole, non potendo spostarsi autonomamente, farebbero in un tempo lunghissimo: propagarle, trasportare loro e il loro patrimonio genetico. Una strategia impeccabile, quella delle piante, creature leggiadre, «tanto irresistibili, utili, saporite da convincerci a seminarle, trasportarle, glorificarle a perfino a scrivere libri su di loro. Come questo». così Pollan, docente di giornalismo e vincitore di numerosi premi giornalistici, nonché appassionato giardiniere e orticolture, inizia l’esplorazione della complessa e antica relazione tra il mondo vegetale e la nostra specie.
Un primo lunghissimo passo avanti nella relazione piante-animali fu l’apparizione delle angiosperme, le piante con fiori che, con la promessa del nettare, richiamano gli insetti impollinatori e, con i frutti, spingono gli animali a diffondere i loro semi. Un altro balzo avanti fu la nostra «rivoluzione neolitica» che, dal punto di vista delle piante, fu una sorta di addomesticamento permanente della specie umana, asservita a selezionare, propagare e difendere numerose specie di graminacee. In questa involontaria coevoluzione, noi umani siamo stati il braccio e le piante la mente. Una mente infinitamente diversa, ma altamente sofisticata.
Il saggio di Pollan rovescia in maniera convincente il punto di vista convenzionale: «ecco perché ha senso pensare all’invenzione dell’agricoltura come a un processo nel quale le graminacee usarono gli esseri umani per conquistare le foreste». Mi piace. Chissà se piacerebbe a gente dalla mentalità aperta come il popolo della Lega? Vista la loro area di radicamento, i leghisti potrebbero inneggiare al mais. No, il mais è una graminacea, ma non è autoctono. Beh, cambiamo famiglia: pensiamo alla patata… No, è americana. Al pomod… Non ci siamo ancora. Il melo… Oh, figurarsi, viene dal Kazakhstan. Lasciamo perdere.
Il libro di Pollan racconta il lungo viaggio di quattro specie vegetali di grande successo e dei doni con i quali pagano i nostri servigi: il melo (Malus domestica – dolcezza), il tulipano (Tulipa – bellezza), la marijuana (Cannabis sativa x indica – ebbrezza) e la patata (Solanum tuberosum – scorte alimentari ad alta produttività). Le prescelte hanno una caratteristica comune, una carta vincente dal punto di vista evolutivo: sono dotate di una straordinaria flessibilità genetica, predisposte all’ibridazione, capaci di dare vita a centinaia di sottospecie; su questa flessibilità si basa il loro successo presso di noi, o, per dirla dal loro punto di vista, la capacità di addomesticarci. Ma La botanica del desiderio racconta soprattutto «una storia diversa sull’uomo e sulla natura, una storia che mira a reinserirci nell’immensa rete di reciprocità che è la vita sulla terra».
Nel primo capitolo (melo) giganteggia la figura di Johnny Semedimela Chapman, che propagò e selezionò centinaia di varietà di mele nel nuovo mondo, il pioniere frugale e morigerato dell’immaginario americano che nasconde un animo dionisiaco e una dimestichezza con il lato oscuro della mente e della vita.
Dioniso portò le piante selvatiche nella casa della civiltà, ma contemporaneamente la sua indomita presenza ricordava agli umani la natura selvaggia, su cui tale casa appoggia sempre, a volte in modo precario. Capii subito che ciò valeva anche per Johnny Semedimela. […] Ma Johnny Semedimela non incarnò mai l’aspetto feroce del dramma dionisiaco. Era un essere molto più gentile e meno sensuale di Dioniso.
Chapman fu senza dubbio un dio più innocente e delicato di Dioniso, ma abbastanza trasgressivo e inafferrabile da allarmare il lato fondamentalista della cultura tradizionale e ambientalista americana e da richiedere una «ripulitura», una versione addomesticata della sua leggenda.
Il secondo capitolo è la narrazione dell’ebbrezza che travolse una nazione, di una sublimazione della sensualità nell’algida (ma terribilmente eccitante) esaltazione per la bellezza estranea dei fiori.
La relazione «scandalosa» che legò il tulipano all’Olanda, poggia sull’appropriazione indebita, su un furto di semi perpetrato ai danni del botanico Carolus Clusius, uno dei primi ad averne i semi, gelosissimo dei suoi tesori. Fu la sua possessività ossessiva, probabilmente, a scatenare la concupiscenza dei giardinieri olandesi. Poi, il tulipano acquistò un valore economico e tutto si fece più complicato:
La tulipomania era sgorgata dal desiderio umano di bellezza e dal piacere visivo di un fiore esotico, ma non proseguì così. La bellezza cedete il posto al desiderio di prestigio sociale […] Infine la mera speculazione finanziaria estirpò anche quel desiderio, al punto che nessuno ci fece caso quando i fiori furono rimpiazzati da semplici promesse: le parole di un contratto a termine.
La passione testimoniata da un «giardino» di marijuana è di altra natura, non vi è nulla di algido nelle emozioni legate alla Cannabis (e a molte altre piante produttrici di sostanze psicotrope): esse affondano le radici nel desiderio umano di provare piacere e, soprattutto, di trascendere, di accedere a uno stato di coscienza portatore di rivelazioni, il medesimo stato indotto dalla meditazione, dalla danza, dalla musica, dalla recitazione di mantra, dalla deprivazione sensoriale. Questa ricerca, spesso, non è fine a se stessa, ma legata al bisogno umano del mistico e del sacro e, come tale, non andrebbe semplicemente impedita con leggi e tabù, ma rispettata, liberamente discussa e disciplinata. Prima di tutto, però, occorrerebbe recidere il filo pericolosissimo che la lega alla speculazione, allo spaccio, alla criminalità: in un moderno vivaio di marijuana serre di pochi metri quadrati ospitano un centinaio di piante capaci di produrre in meno di un mese un chilo e mezzo di cime essiccate, per un valore di 13.000 dollari. Pollan, che ne ha visitato una, ricorda che «c’era anche qualcosa di anomalo soprattutto in quella serra totalitaria, con una monocoltura di piante geneticamente identiche che crescevano in file serrate: un feroce controllo apollineo in un giardino idealmente consacrato a Dioniso». Ma chi è a esercitare il controllo? Gli umani che controllano il traffico, naturalmente, e si arricchiscono a spese dei consumatori, ma… Non sono forse queste centinaia di «vidi folletti demoniaci», apparentemente felici di compiacere i giardinieri, a schiavizzarli per farsi curare e propagare, pagandoli in molecole chimiche?
Dopo la dolcezza, la bellezza e l’ebbrezza, la garanzia di avere cibo a sufficienza, con meno fatica e poche risorse e attrezzatura, anche a latitudini dove il grano fatica a crescere e dove la terra è avara.
La patata fu una carta vincente nella lotta alla fame, ma i suoi nemici naturali, prima fra tutte la peronospora, gettarono in ginocchio l’Irlanda, dove la grande carestia delle patate del 1846 provocò la morte per fame di un milione di persone e l’emigrazione negli Stati Uniti di tutti quelli che poterono; la popolazione irlandese si ridusse alla metà e quella degli Stati Uniti fu irreversibilmente modificata. Niente male come impatto planetario per un semplice tubero…
Anche la patata è una pianta versatile e capace di cambiare, presente in un gran numero di varianti, ma, oggi come ieri, è vittima della peronospora e della dorifora. Per di più l’agricoltura intensiva ha impoverito i terreni e l’uso continuo ha reso inefficaci pesticidi e insetticidi di un tempo. Oggi gli agricoltori sono costretti a utilizzare una quantità spaventosa (non uso l’aggettivo a caso) di sostanze altamente pericolose come il Monitor, con gravi rischi per la salute e costi ambientali ed economici estremamente rilevanti: mediamente il raccolto di un acro di patate cosa 1950 dollari all’agricoltore che, se va bene, potrà rivenderlo a 2000.
Oggi, però, le biotecnologie si candidano ad affrancarci da simili disastri. La Monsanto, per esempio, ha brevettato la New Leaf, una patata geneticamente modificata per produrre insetticidi «in ogni cellula delle foglie, dello stelo, dei fiori, delle radici e – è questo l’aspetto inquietante della cosa – in ogni tubero».
A dispetto dei laboratori fantascientifici, le biotecnologie usate dalla Monsanto sono una via di mezzo tra la carpenteria e la stregoneria; la modificazione genetica viene introdotta nel genoma della pianta in due modi: infettandola con un agribatterio che raggiunge il DNA delle cellule vegetali sostituendone una parte con il proprio o «sparando» il DNA del batterio nelle cellule per ottenere il medesimo risultato. La pistola genetica è una calibro 22 che spara veri proiettili d’acciaio ricoperti con una soluzione di DNA del batterio portatore del gene voluto. Se il nuovo DNA arriva nel posto giusto, ma nessuno sa quale sia e dove si trovi, la pianta cresciuta da quella cellula esprimerà il nuovo gene. Insieme giungerà anche un gene marcatore resistente a un certo antibiotico, che consentirà di individuare le cellule modificate, quelle cioè che non moriranno a contatto con l’antibiotico. Il marcaggio consentirà alla Monsanto anche di individuare le proprie piante e le discendenti anche molto tempo dopo che hanno lasciato il laboratorio, impedendo così qualunque evasione del brevetto.
Se la tecnica è ancora un po’ rudimentale, che dire dei risultati? Beh, anche quando il gene è stato accettato le cose possono andare storte, per esempio il gene può infilarsi al posto sbagliato, e allora può accadere di tutto, il termine scientifico è «instabilità genetica» e può consistere nell’espressione o mancata espressione di una proteina propria della pianta, oppure in bizzarre mutazioni. I risultati sperati variano, ovunque e sempre, tra il 10 e il 90 per cento! Insomma la tecnica è allo stadio «speriamo in bene», ma dal punto di vista della Monsanto I risultati sono assolutamente garantiti: alcune delle piante andranno a buon fine, saranno delle vere New Leaf[1]
Coltivare New Leaf ridurrebbe enormemente i trattamenti chimici alle piante di patata con grandi vantaggi economici, di tempo e di salute per gli agricoltori. La tentazione è grande. Il rischio, però lo è altrettanto, se non di più: se la diffusione della monocoltura diventasse globale, prima o poi (Monsanto calcola trent’anni) nascerebbero ceppi di parassiti resistenti e… addio raccolto.
Ma allora dobbiamo mangiarci versioni sempre più sofisticate delle patate ai pesticidi?
Signore e signori, esiste l’agricoltura biologica. Costa di più. Almeno per ora. Ma promette bene. Ricorrere su vasta scala all’agricoltura biologica richiederebbe però un cambio di paradigma, non semplicemente scientifico, ma economico e culturale.
Noi siamo affascinati dalla monocoltura, che garantisce esattamente un certo prodotto, quello che vogliamo o crediamo di volere. Quello che l’industria agroalimentare ci ha indotto a desiderare: patatine fritte senza macchie, pronte sempre e ovunque a palate, sempre e ovunque uguali a se stesse, le più lunghe, burrose, ordinate, affusolate che si possono sognare, insomma la versione platonica della patatina fritta MD, disponibile ovunque, da Gallarate o a Timbuctu, a costo basso e sempre croccante. La monocoltura, i pesticidi e la modificazione genetica sono il nostro destino se vogliamo la patatina fritta platonica. Ma esistono centinaia di migliaia di altre varietà di patata. Gli inca ne selezionarono circa 3000 varietà, un numero che dovrebbe offrire qualche possibilità di soddisfazione anche al più viziato marmocchio di ogni età che sbava davanti a un bel bicchierone di patatine col ketchup e senape e maionese (arggh, mi sto facendo venire la nausea da sola).
In conclusione, perché non dare una possibilità anche alle patate bitorzolute, quelle che tagliate sono un po’ meno affusolate e forse più simpaticamente imperfette? Una volta fritte non stanno ben composte nel bicchierone? Accontentiamoci del cartoccio. Non sono sempre disponibili a Gallarate o a Timbuctu? Diamo una possibilità al purée o cambiamo fonte di amidi. Che cosa ne dite delle crocchette di riso e delle frittelle di polenta? O forse le crocchette sono di patate e le frittelle di riso, non so, io non me la cavo bene tra i fornelli. Però all’assaggio non sono niente male.
No, non «o». Dovete pensare «e»: questo e quello, variare, capito? Faticoso, vero? Soprattutto fino a quando le multinazionali alimentari coltiveranno a monocoltura il nostro cervello.
Ma la possibilità sta lì. Ed è lì che sta la nostra alleanza con la natura, la coevoluzione, per dirla in linguaggio scientifico. Selezionare senza appiattire, mantenere la biodiversità: «Siate dionisiaci, non rinunciate al molteplice».
L’unica cosa che mi chiedo è: «come mai quelle sagge e astute alchimiste delle piante non hanno previsto, in quel loro modo obliquo e inconsapevole, quanto pasticcioni, irresponsabili, inaffidabili siano quei dilettanti degli umani, con tutto il loro agitarsi e mettere le mani ovunque, e arraffare denaro? Ma forse loro, i vegetali, avessero qualche altra freccia al loro arco? In fondo sono in circolazione da centinaia di milioni di anni e noi – gli umani – siamo gli ultimi arrivati.
[1] O varianti simili: pare che la Monsanto sia stata indotta a smettere la produzione di New Leaf dalla mancanza di clienti: la maggiore acquirente, (McDonald’s, sempre lei) – ha smesso di acquistarne a causa della riluttanza dei clienti a mangiarle.
Michael Pollan, La botanica del desiderio. Il mondo visto dalle piante
Il Saggiatore 2005, 2009 (ed. or. 2001), pp. 255, € 12,00, Trad. G. Ghio
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