E morì a occhi aperti di Derek Raymond (ed. or. 1983) è il primo romanzo della serie della Factory, pubblicata in Italia da Meridiano Zero, che proprio con questo romanzo (2003) ne ha inaugurato la riedizione integrale.
Derek Raymond era lo pseudonimo di Robert William Arthur Cook (Londra 1931-94). Insofferente dell’educazione borghese impartitagli dalla famiglia, Raymond viaggiò moltissimo svolgendo i lavori più vari: prestanome per i traffici della malavita inglese, riciclatore di auto, insegnante di inglese, tassista, trafficante di materiale pornografico, vignaiolo in Francia. Dopo il successo dei suoi noir tornò in patria dopo cinque matrimoni e una vita di eccessi, distrutto dall’alcol. Cominciò a scrivere negli anni Sessanta, ispirandosi all’esistenzialismo di Sartre ma solo negli anni Ottanta, dopo la parentesi contadina in Francia, riprese a scrivere, rivolgendosi al noir.
1) Nel noir non c’è nessuna evasione dalla realtà. Chi lo scrive non può neanche evadere da se stesso. 2) Lo scrittore diventa parte dei personaggi, e viceversa. 3) A qualsiasi rischio psichico, lo scrittore deve dimenticarsi di scrivere. 4) Alla fine lo scrittore deve avere provato lo stesso terrore e colpa dei personaggi.
A queste sue regole Raymond si attenne interamente; la serie della Factory, che comprende anche Aprile è il più crudele dei mesi e Come vivono i morti, culminò con Il mio nome era Dora Suarez, giudicato da molti editori impubblicabile per le immagini crude, i temi scabrosi, lo stile aspro.
Il protagonista della serie è sempre lo stesso, un Sergente Senzanome indipendente e testardo che vuole lavorare con i propri metodi e manda spesso a quel paese i superiori. Così è destinato, e lo sa, a non fare mai carriera e a occuparsi degli omicidi peggiori, quelli da cui i colleghi si tengono lontano perché non pagano in termini di notorietà e perché per risolverli ci vogliono stomaci più forti dei loro. O anime più «pure». Il Sergente è disposto a sporcarsi le mani, per senso del dovere ma anche per una sorta di sintonia verso le vittime, che impara a conoscere attraverso diari (Dora Suarez) o registrazioni (Charles Staniland in E morì a occhi aperti). Anche con i criminali il Sergente entra in una qualche strana risonanza: le circostanze dei loro crimini e la violenza reale e simbolica alla quale si abbandonano sono segnali, tracce del loro mondo interiore che il Sergente si sforza di seguire, ricostruendo la loro logica tortuosa e riuscendo poco a poco a comprenderli, senza assolverli ma anche senza chiamarsi fuori.
Staniland, la vittima di E morì a occhi aperti, è morto proprio male: picchiato a morte, il corpo e la testa fracassati, e abbandonato in angolo di periferia. Non ha nemmeno lottato. Ricostruendo il passato del morto, che risuona di esperienze dell’autore – come Raymond, Staniland è sfuggito a una educazione borghese e a una famiglia gretta e meschina, come lui ha svolto decine di lavori senza riuscire a conservarne nessuno (anche il tassista) come lui ha avuto una parentesi serena come vignaiolo in Francia e come lui ha trovato nella scrittura (di sceneggiature, non di noir) una risorsa per sopravvivere e una ragione per vivere. Poco a poco il Sergente viene a sapere di Staniland anche ciò che la vittima raccontava soltanto a se stesso, ne ri-conosce le pulsioni autodistruttive, il desiderio di guardare il fondo delle cose e di morire «a occhi aperti» senza farsi illusioni su nessuno, nemmeno su se stesso. L’autodistruzione, per Staniland aveva le sembianze stranamente fascinose di una donna dura e priva di compassione, dunque il Sergente dovrà conoscere a fondo anche lei… Gli assassini di Staniland saranno individuati e, come sempre nei romanzi di Raymond, la fine dell’indagine non pacificherà nessuno: nel mondo del Sergente esistono non-colpevoli ma non innocenti.
Raymond è ossessionato dalla morte e dalla crudeltà inflitte ma anche cercate. Nei momenti migliori la sua scrittura raggiunge un’intensità visionaria che lascia il segno. È il caso del delirante Il mio nome era Dora Suarez un romanzo grandiosamente sgradevole, un gioco di specchi nel quale il Sergente e l’assassino (criminale per caso ma distruttore per vocazione, delle proprie vittime come di se stesso) sembrano uno il riflesso distorto dell’altro e ingaggiano una lotta senza quartiere per potersi incontrare, per confrontarsi e per eliminare l’altro, che è davvero «l’altro», la faccia opposta di noi. E morì a occhi aperti, invece, è un romanzo non del tutto riuscito, il primo della Factory, nel quale il personaggio del Sergente non è ancora compiuto e l’autore stesso deve ancora imparare a conoscerlo. È un romanzo sghembo, intriso di moralismo, un vizio scritto nel genoma della narrativa «gialla» e che il noir e l’hard boiled, esperimenti in corpore vili, manifestano più di tutti gli altri sottogeneri. In E morì a occhi aperti, paradossalmente, la polizia – istituzione che in realtà Raymond mette sotto accusa – grazie alla dedizione del Sergente diventa «Istituzione», piena di crepe ma unico baluardo contro il caos dell’animo umano, e tutti i personaggi incontrati dal detective, a parte il morto, sono feccia: la famiglia è meschina e squallida, i giovani che compaiono drogati e/o spaccia, spillasoldi, nullafacenti, i poliziotti corrotti, esibizionisti, carrieristi, gli uomini bastardi e/o pusillanimi, contemporaneamente carnefici e vittime delle donne e loro, le donne, puttane o isteriche, in ogni caso eviratrici.
Ma, ripeto, E morì a occhi aperti è il primo romanzo, nel quale Raymond sta ancora scoprendo i tratti essenziali del suo Sergente e deve imparare a conferirgli spessore e misura; mentre qui a tratti lo dipinge querulo, o violento o troppo parziale verso il morto, in Il mio nome era Dora Suarez saprà renderlo amaro e scettico, semplicemente deciso, capace di sincera compassione non soltanto per le vittime ma per un’intera umanità dolente. Ciò premesso, non so quale consiglio di lettura dare: visto il valore dell’epilogo della Factory vi proporrei di leggere anche l’esordio; d’altra parte, i difetti di E morì a occhi aperti potrebbero indurvi a non rischiare oltre. Se poi siete di quelli (pochi?) che hanno letto e apprezzato Il mio nome era Dora Suarez (che, vi avverto, è una lettura per chi non teme la nausea), questo primo romanzo inevitabilmente vi deluderà. A voi la scelta, probabilmente Raymond vale sempre la pena.
Il secondo romanzo è Satana di Mario Mendoza (Einaudi Stile libero, 2003, ed. Or. 2002), prima opera tradotta in Italia di un autore colombiano quarantenne.
A una prima lettura, Satana potrebbe essere la trasparente metafora di un inferno sterminato e squallido: Bogotà, a 2700 metri sulla Cordigliera colombiana, cinque milioni di persone che cercano quotidianamente di sopravvivere tra povertà, corruzione, guerriglia e narcotraffico. E in questo inferno umano si muovono i personaggi principali di Mendoza – María, una bella ragazza che dopo anni di vita povera ma onesta decide di diventare un po’ meno onesta ma anche un po’ meno povera truffando i «clienti» senza prostituirsi; padre Ernesto, esponente della teologia della liberazione, destinato a incontrare il male assoluto, ma anche le piccole tentazioni del desiderio per una donna, la giovane domestica; suo nipote Andrés, pittore sensitivo, che percepisce la morte e la sofferenza sotto la carne intatta di chi posa per lui – e tutta la gente che essi incontrano. Per far comprendere al lettore che razza di postaccio sia Bogotà, Mendoza non risparmia nulla ai suoi personaggi: María sarà violentata e privata della verginità, Andrés farà consapevolmente l’amore senza precauzioni con una ex amante ammalata di AIDS, padre Ernesto dovrà affrontare il male, tra l’altro, nelle spoglie di una giovinetta posseduta che si esibisce in tutta la gamma delle attività delle indemoniate cinematografiche (confronto inevitabile con L’esorcista!) e, tra la vocazione e l’amore, sceglierà l’amore. Tutti quanti, sciagurati loro, attraverseranno poi casualmente la strada di un serial killer pazzo e grafomane che odia la madre e ha pessimi rapporti con i vicini di casa. La tragedia attende dietro l’angolo…
L’insistere di Mendoza su un Male con sfumature assolute (Bogotà come mondo a entropia esponenziale, la possessione, il punto di vista paranoico e privo di umanità del serial killer, le pulsioni autodistruttive di alcuni personaggi) proietta il romanzo in una dimensione cupa, quasi millenarista. Se tutti gli ingredienti fossero attentamente dosati potrebbe venirne fuori un grande romanzo. Purtroppo non è così e se per Raymond si può parlare di romanzo non compiuto, di mancato raggiungimento di un equilibrio, qui sinceramente sceglierei la parola fallimento.
Certa critica potrebbe definire Satana un classico esempio di scrittura meticcia, piena di richiami ai linguaggi del cinema di genere, (nel caso de L’esorcista parlare di «richiamo» è forse riduttivo), del fumetto, dell’arte, e di riferimenti all’Apocalisse. Personalmente, però, io citerei per primi gli influssi della letteratura e del cinema popolare, del feuilleton, del fotoromanzo, della telenovela, che, tanto per fare un paio di nomi, Mario Vargas Llosa e Almodóvar hanno utilizzato con esiti differenti ma estremamente efficaci (e spassosi). E con questi ingredienti l’esito dipende dal dosaggio e dalla capacità dell’autore di fonderli in un insieme coerente, evitando che uno prevalga sugli altri. Mendoza, semplicemente, non ci riesce, tutto suona o già sentito o troppo melodrammatico, l’identificazione con i personaggi e i loro problemi non scatta e il lettore è condannato ad assistere, imbarazzato e deluso, a uno spettacolo mal combinato.
Essere delusi da Satana è, temo, quasi inevitabile: le prime pagine e l’ambientazione inquietante (e soprattutto la quarta di copertina, ma di questo Mendoza è innocente) promettono molto. Ancor di più promettono le (non troppo numerose) pagine web italiane su Mendoza scovate dai motori di ricerca, nelle quali l’autore è acclamato come nuova rivelazione e/o uno dei massimi esponenti della letteratura colombiana. Quasi introvabili, invece, i siti inglesi e spagnoli dedicati ad autore e romanzo. Su questa carenza posso azzardare soltanto due ipotesi: 1) che gli osanna italiani siano dovuti, almeno in parte, a scrupoli di coscienza dei recensori che li inducono ad acclamare ogni opera che faccia riferimenti a temi sociali e a miserie e sofferenze del terzo e quarto mondo, indipendentemente dalla riuscita letteraria; 2) che l’annosa povertà di contenuti dell’attuale narrativa italiana renda i recensori tanto desiderosi di addentare finalmente qualcosa di meno formale, intimista, frivolo e rinunciabile da restare abbagliati e non vederne difetti e carenze.
nel sito <http://www.ilportoritrovato.net/html/bibliomendoza.html> potrete leggere un’intervista a Mendoza di Michele De Mieri («L’Unità», 13 luglio 2003), meritevole di lettura per le riflessioni dell’autore sulla situazione sociopolitica mondiale in generale e colombiana in particolare.
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Derek Raymond, E morì a occhi aperti
Meridiano Zero 2003, 2013, ed. or. 1983, pp. 254, € 15,00, trad. Filippo Patarino
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Mario Mendoza, Satana
Einaudi Stile Libero 2003, pp 228, € 9.00, Trad. Paola Tommasinelli
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