Uwe ha soltanto due anni quando suo fratello, Karl-Heinz, si arruola nelle Waffen-SS, nella divisione corazzata Totenkopf (testa di morto), corpo di élite dell’armata di invasione dell’URSS. Del fratello, morto diciannovenne, Uwe ha un unico vago ricordo – un giovane biondo che lo solleva e lo fa volare in aria – qualche oggetto, un paio di lettere e un diario di guerra fatto di annotazioni scarne, note di spostamenti, battaglie, avanzate e ritirate. Per Uwe divenuto adulto interrogare i genitori sui motivi della scelta del fratello si rivela un’impresa inutile ancora prima che faticosa. Come molti dei tedeschi sopravvissuti alla fine della breve e sanguinaria avventura del Reich millenario, i genitori non vogliono parlare di atti, gesti, scelte che, alla luce di quanto è avvenuto, appaiono loro ormai indicibili.
La generazione dei padri, dei colpevoli, viveva raccontando o tacendo. Sembravano esserci solo queste due possibilità, parlarne di continuo o per nulla. […] Una volta ho visto mio padre in piedi davanti al camino, le mani dietro la schiena, tese verso il calore. Piangeva. Non l’avevo mai visto piangere. Un ragazzo non piange. Non era solo un pianto per il figlio morto, era qualcosa di inarticolato che si scioglieva in lacrime. Nel suo star lì e piangere era presente qualcosa dell’orrore del ricordo, una disperazione abissale senza autocommiserazione, un dolore indicibile, e a ogni mia domanda si limitava a scuotere la testa.
A Uwe non resta che interrogare le poche fonti disponibili e leggere, interrogandole senza sosta, le lettere e il diario del fratello. A guidarlo è la necessità di capire che cosa avesse spinto Karl-Heinz a quella scelta e, insieme, quanto la sua stessa famiglia fosse complice e colpevole. A muoverlo, infine, il timore che anche il fratello si fosse macchiato di crimini contro l’umanità.
Il timore che ha accompagnato le mie ricerche era che la sua unità, il terzo battaglione delle SS-Panzerpioniere, e dunque anche mio fratello, avesse partecipato all’uccisione di civili, ebrei, ostaggi. Ma per quanto ho potuto scoprire non è stato così. Soltanto la normale quotidianità della guerra […]
Le Waffen-SS portavano la stessa uniforme delle SS che facevano la guardia nei Lager. Timm legge Primo Levi, I sommersi e i salvati, Jean Amery, Christopher R. Browning, Uomini comuni. La sua conclusione è lucidamente disperata:
Quasi tutti hanno guardato altrove e sono rimasti zitti quando i vicini di casa ebrei venivano presi e semplicemente sparivano, e la maggioranza ha continuato a star zitta anche dopo la guerra, quando si è saputo dov’erano scomparsi gli scomparsi.
Legge anche Vittoria perduta del generale feldmaresciallo delle armate del Sud Von Manstein, che accusa Hitler, «il caporale», di aver sbagliato nella conduzione della guerra, di non aver seguito i suoi consigli e la sua competenza militare. L’onesto militare, il capace generale che ha servito la patria senza essere nazista dimentica di aver scritto in un ordine del 20 novembre 1941: «Il sistema giudeo-bolscevico deve essere estirpato una volta per tutte». Gradualmente Timm ripercorre una rete di responsabilità, di reticenze, silenzi, acquiescenze che costituisce non solo il sintomo ma la vera, profonda malattia dell’intero sistema. Le responsabilità personali e quelle politiche sono state parti coagenti di un meccanismo cieco e criminale al quale ben pochi si sono ribellati.
Il coraggio di dire no, senza il sostegno degli altri. Non servo. Il peccato originale nella religione e in ogni sistema totalitario fondato su ordine e disciplina. Dire no, anche contro la pressione della collettività.
Non cessa di interrogare le poche annotazioni del fratello, di cercare nelle sue parole il segno di una coscienza vigile. Trova infine un segno, anche se di difficile interpretazione. Il diario di Karl-Heinz termina bruscamente con una notazione:
Qui chiudo il mio diario perché trovo assurdo fare un resoconto delle cose orribili che a volte succedono.
Il fratello sarebbe morto poche settimane dopo quest’ultima enigmatica notazione, forse segno di una tardiva ribellione all’orrore della guerra o semplicemente sintomo di una stanchezza morale senza possibilità di riscatto. Timm non riesce a sciogliere il dilemma. Ricostruisce la vita del padre, ex freikorps perennemente frustrato nel suo tentativo di approdare dalla piccola borghesia all’aristocrazia. Un uomo onesto, retto, lavoratore ma che non ha mai avuto «abbastanza fantasia per ribellarsi». Fa un viaggio in Russia a cercare il luogo dove il fratello è caduto. Qui, in una cattedrale di Kiev, «gli occhi e le orecchie mi si aprirono».
La stranezza del diario è che non sarebbe dovuto esistere. Era vietato tenere un diario, soprattutto nelle SS. […] Quindi deve averlo scritto di nascosto, cosa che spiega la laconicità, la rapidità, le abbreviazioni, gli errori di ortografia.
L’esistenza stessa del diario è forse la prova che sta cercando. O quanto meno è ciò che permette, a sessant’anni di distanza, una tardiva e malinconica riconciliazione. Con il fratello caduto per una causa inumana e con la famiglia che, come milioni di altre, ha creduto nei sacri valori della Patria e dell’Onore. Come mio fratello è qualcosa di più dell’ennesimo libro di memorie o una ormai consueta triste rassegna di interrogativi senza risposta. Il suo valore universale nasce dalla contrapposizione, instancabilmente sottolineata, tra la resistenza e l’acquiescenza, tra la testimonianza e il silenzio complice. Un insegnamento che resta disgraziatamente attuale.
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Uwe Tim, Come mio fratello
AME 2005 (ed. or. 2003) pp.141, € 15,00, trad. M. Carbonaro
Idem, AME oscar 2007, pp. 139, € 9,00
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