Il fantasy è un genere che in questo momento «tira», tanto è vero che persino Einaudi – sia pure nella sua filiazione romana di «Stile libero» – ha pubblicato un romanzo fantasy di un’autrice diciassettenne, sulle orme del successo mondadoriano del ciclo del «Mondo emerso» di Licia Troisi.
Non è stato esattamente un successo, ma questo è un altro paio di maniche.
Comunque, una volta dato per scontato che entro pochi anni l’esplosione fantasy sarà soltanto un ricordo, restano comunque aperte alcune domande che il lettore attento sente nascere ogni volta che gli accade, come è successo a me, di seguire – pur senza intervenire direttamente – una discussione sul fantasy in una dei tanti blog e forum virtuali presenti in internet.
«Ma che cos’è il fantasy?» è soltanto la prima domanda, tanto ampia e generica da scoraggiare una risposta diretta. La seconda, appena più mirata, può essere: «Perché ora, il fantasy?». La terza, più sfumata: «ma quali sono i rapporti tra ciò che definiamo fantasy e la narrativa in senso più ampio?».
Attraverso un abbozzo di risposta a queste tre domande dovrei arrivare a parlare del libro che ho letto.
Coraggio, ci vorrà un po’ ma dovrei farcela.
Il fantasy per i molti che lo leggono e i moltissimi che non lo leggono – o lo leggono poco e male come il sottoscritto, ahimè – è, sostanzialmente, tutto ciò che in A.D. 2008 assomiglia in un modo o nell’altro al Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien o al ciclo di Harry Potter di J.K. Rowlings.
È una definizione riduttiva? Certo, come no. Ma la riduttiva temo di non essere io. All’ombra di questi due «titani» e sotto l’etichetta «fantasy» prospera in realtà di tutto, dal fantasy millenarista di Sergej Luk’janenko al fantasy urbano di China Mieville agli American Gods e dintorni di Neil Gaiman alle Terre Selvagge di Kaoru Kurimoto fino al ciclo di Terramare di U.K. Le Guin, alla comic-fantasy di Terry Pratchett con il suo mondo-disco, al fantasy beffardo e crudele di Jack Vance o a quello genialmente ribaltato in commedia dell’arte di Fritz Leiber.
Questo è fantasy ma anche – veltronianamente – quello seriale e di poche pretese come il ciclo delle Terre Emerse di Licia Troisi (ex-adolescente prodigio) o quello di Eragon di Christopher Paolini, altro baby fenomeno.
Convinzione diffusa o diffusissima è che il fantasy sia di ambientazione paramedievale (un Medioevo hollywoodiano, nell’interpretazione più comune) e/o che i poteri magici facciano parte della vita quotidiana di ognuno. Rarefatti – talvolta inesistenti – i rapporti con il divino se non nel senso di semidei malvagi e dotati di allucinanti poteri, larvali le strutture sociali, inesistenti o rudimentali politica, economia e tecnologia. Altrettanto vaghe o stereotipe le psicologie personali e sociali. Se padre del fantasy è l’Epica, d’altro canto, non c’è logicamente da attendersi nessun approfondimento. Le psicologie contorte e meditative sono figlie del benessere (occidentale) nato nell’Età degli Imperi e non riguardano chi si sforza di mettere insieme il pranzo con la cena e sopravvivere a malattie, calamità naturali, carestie, saccheggi, guerre e massacri.
E sempre dall’Epica paiono derivare certe caratteristiche «fisse» del genere – così come lo sto, tendenziosamente e parzialmente, rappresentando – quali l’eroismo come predestinazione, la Missione come necessità, la minaccia del Male come retaggio fatale e la separazione di ruolo tra i sessi, nella quale la comparsa di qualche forzuta eroina funge da eccezione che conferma la regola.
Si può ritenere che, nella maggior parte dei casi, chi si rivolge al fantasy si attenda di potervi ritrovare – completamente o parzialmente – questo insieme di caratteristiche. Stesso discorso, naturalmente, per chi si accinge a scriverne.
«Perché ora, il fantasy?»
Stiamo parlando, è bene ricordarlo, del fantasy così come l’ho appena finito di tratteggiare non della realtà di un «genere» che nelle sue infinite e personalissime interpretazioni merita un’analisi molto più estesa e raffinata della mia. Parliamo del fantasy fatto di maghi, Oscuri Signori, eroi. Di Sword & Sorcery, secondo la classica definizione.
Siccome i discorsi sul grado di impegno e sull’oggettivo messaggio politico di un testo narrativo mi provocano orticaria o letargia eviterò di imbarcarmi in un discorso stucchevole sul «messaggio» del fantasy. Tanto per non smentirmi, comunque, mi limiterò a far notare che tra la pseudodiaristica brufolosa e autoreferenziale che forma il nocciolo dell’orda della letteratura giovanile attuale e un romanzotto – anche se rudimentale – pieno di agguati e di magia non ho il minimo dubbio. Nemmeno di political correctness.
A suscitare qualche osservazione un po’ più intelligente dovrebbe essere semmai la constatazione della filosofia sottesa a certa fantasy. Mi rende perplessa in sostanza, la predeterminazione come destino di vita. La predeterminazione è in genere la balla che si inventa per giustificare a posteriori la porcherie combinate a priori pur di giungere a un traguardo di qualche genere. O, simmetricamente, per illudersi quando le cose vanno maluccio: «il mio destino è ben altro!».
In perfetta sintonia con la sensazione che sono in molti a provare oggi di essere incastrati in una situazione socioesistenziale senza via d’uscita.
In quanto alla minaccia del male, al terrore dell’invasione, o all’orrore per l’estraneo sono tutti pane quotidiano del mondo occidentale post-9/11. Che di tutto ciò si faccia narrativa vendibile non è per nulla strano né merita alzate di sopracciglia o sospiri di commiserazione.
A uccidere virtualmente la letteratura cavalleresca e i cloni del ciclo arturiano che pullulavano nella prima metà dello scorso millennio peggio di Troisi e Paolini messi insieme e con i quali i nostri antenati si sono gingillati per qualche secolo, c’è voluto Cervantes e il suo Don Quixote. Ma erano altri tempi, quando c’era qualcuno che prendeva tanto sul serio la letteratura da scrivere 1200 e più pagine per sancire la fine di un genere. Oggi è sufficiente un calo del sell-out per far chiudere i rubinetti.
Il rapporto del fantasy con il resto della letteratura?
Risposta: ma i generi letterari hanno natura reale o no?
Non si risponde a una domanda con un’altra domanda, ma le domande mal poste lo meritano.
Un passo a lato.
Ho letto La camicia di ghiaccio di William T. Vollmann.
400 pagine, ottima carta, copertina che riproduce l’emisfero boreale di Mercatore e il cui originale è custodito alle Biblioteche Vaticane.
Curatela dell’opera – apparato di note, glossario, cronologia – superiore alla media.
La camicia di ghiaccio è il primo volume del Ciclo dei Sette sogni e «inaugura l’epopea che riscrive la storia americana dalle origini ai giorni nostri». William T. Vollmann è un grande scrittore e un viaggiatore instancabile. In Italia sono stati tradotte da Fanucci, Alet e Mondadori altre sette sue opere.
E questo La camicia di ghiaccio ha i contorni la sostanza di un romanzo fantasy.
Assorbito lo choc?
Si può essere grandi scrittori – e Vollmann lo è – e scrivere fantasy.
Il primo libro dei sette del ciclo scritto da Vollmann è dedicato alla «preistoria» del continente americano e ai contatti tra i nativi e i norreni. Alle traversate di questi ultimi tra ghiacci, tempeste, scogli e isole sconosciute, guidati o ostacolati da oscuri antichi dei, seguendo ambizioni personali, follie, avidità, sogni o terrori. Animati da false certezze, dalla consapevolezza di destini ingannevoli o semplicemente sospinti da temeraria superbia. Ci sono maghe fatali, regni perduti e dimenticati, guerre e tradimenti, lotte fratricide, il ricordo sbiadito di eden perduti, un rapporto di comunanza e identità con gli animali della foresta, giuramenti calpestati, vendette, faide secolari, creature magiche e antiche razze nate prima che il primo uomo venisse a calpestare la terra.
Ma ci sono anche – e qui è una delle grandezze di questo romanzo – le vite quotidiane dei nativi e dei groenlandesi di origine europea del XXI secolo d.C. Fanno capolino nelle brevi finestre che Vollmann dedica all’incontro con essi il degrado, l’abbandono, la malinconia dei luoghi dove sopravvivono, redenti da molte delle immani fatiche della vita a quelle latitudini ma divenuti schiavi di un’organizzazione sociale ed economica che non appartiene loro e nella quale non riescono a riconoscersi. Il mondo dell’estremo Nord è testimone muto tanto delle sanguinose follie degli antenati che dell’alienazione dei discendenti, sorridente nelle brevi estati, silenzioso assassino negli eterni e bui inverni.
Ma perché romanzo «fantasy»?
Avevo definito «tendenziosa e parziale» la mia presentazione del genere. Tendenziosa e parziale perché avevo nascosto una sua caratteristica fondante, sempre meno presente nel fantasy attuale ma che è possibile trovare e riconoscere nelle opere migliori.
Parlo del Senso del Tempo, la percezione dell’inconcepibile profondità del tempo passato e dell’ostile, silenziosa alterità del mondo nel quale viviamo, illudendoci di possederlo e dominarlo. Uno dei cardini del genere è proprio qui. Se il fantasy non sa regalare al lettore la sensazione di smarrimento che nasce dal racconto del susseguirsi di generazioni, dal rapporto complesso e mai facile con la natura è semplice falsa fiaba, puro intrattenimento inevitabilmente banale e replicabile all’infinito secondo facili schemi.
Non basta, verrebbe da dire, l’apparenza di un mondo remoto e perduto, è necessaria la sostanza di esso, la fame, la fatica, la possibilità di rivivere la paura dell’ignoto e la coscienza di un mondo che resta nonostante tutto troppo grande e misterioso per le nostre misere forze.
Può così accadere che La camicia di ghiaccio, che non si presenta come romanzo fantasy ma come libera interpretazione delle saghe norrene, dove tra i protagonisti ci sono personaggi moderni e tormentati come Eirik il Rosso, sua figlia Freydis – venale, calcolatrice, avida ma anche tanto intrepida da sfidare gli dei – Leif il fortunato, Re Olaf di Norvegia e la maga Thorgunna, risulti in realtà uno dei migliori esempi in circolazione di quanto il fantasy possa dare al lettore.
Non so quanto sia riuscito nel mio intento.
Ho risposto molto parzialmente alle tre domande che ho posto all’inizio dell’articolo e ho parlato del testo di Vollmann scegliendo un punto di vista inconsueto ma anche, probabilmente, tale da non rendergli pienamente giustizia.
Resta il fatto che il personaggio di Freydis rimarrà a lungo nella mia memoria come vi resterà la nozione che Tolkien non sia riuscito ad aggiungere nulla alla potenza narrativa del mondo letterario scandinavo e islandese e che anzi, semmai, gli abbia almeno in parte sottratto quell’indefinibile aura di lontananza e di perdita che invece Vollmann – facendo uso di uno stile che non cerca di replicare in lingua moderna le forme antiche – riesce a restituire al lettore. Un esito sinceramente inatteso ma formidabile.
William T. Vollman
La camicia di ghiaccio
Alet 2007, pp. 475, € 21,00
trad. N. Mataldi
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