C’è stato un tempo in cui il vampiro era una figura di terrore assoluto – un predatore di uomini, una dannata sanguisuga, un parassita del genere umano, l’incarnazione stessa del male. Il male peggiore, incapace di riprodursi ma contagioso, corrotto e corruttore, trasgressore del confine invalicabile fra vita e morte. Nato da oscuri rituali neolitici e dalla paura istintiva che il corpo morto dei nostri simili suscita nella parte più animale della nostra mente, per millenni il vampiro ha vagato per Oriente e Occidente, nutrendosi di morte e terrore, scontrandosi con eroi imperfetti o perfettibili in epiche battaglie.
Dai demoni divoratori di cadaveri assiro-babilonesi ai ghoul delle Mille e una notte ai vampiri saltatori del folklore cinese e della narrativa wuxia, passando per l’acheri che uccide i guerrieri pellirosse e il dama daghenda africano, il vampiro arriva nella letteratura europea attraverso l’area greco-balcanica, nell’epoca dei grand tour e degli eroismi byroniani. Si esibisce per alcuni anni in baracconi di terz’ordine, su penny dreadful e in teatracci granguignoleschi francesi, prima di esplodere nell’immaginario collettivo attraverso i buoni auspici di Bram Stoker, irlandese col vizio di salvare le persone in procinto di affogare nel Tamigi, solido e terreno gentiluomo tuttavia vicino alla Golden Dawn, contemporaneo di Conan Doyle, ispirato all’azione dal desiderio di scrivere un grande romanzo sulla sifilide. E ancora, dall’uscita del primo Dracula, e per quasi un solido secolo, il vampiro rimane una creatura della paura.
Poi, malauguratamente, anche il vampiro si è lasciato andare. Si è imborghesito, si è ammantato di toni new age fuori luogo, è diventato da personaggio a metafora – metafora dell’altro, del diverso, dell’emarginato. Ha perso mordente. Il vampiro come vittima, come rockstar, non più come minaccia (anche) sessuale ma come promessa di sessualità trasgressiva e vagamente sadomasochistica. La vampirizzazione non più come corruzione e morte ma come seduzione e desiderabile rinascita, risveglio dei sensi. Il magistrale ghigno ungherese di Bela Lugosi fra ruderi polverosi rimpiazzato da Catherine Deneuve e Susan Sarandon che si azzannano reciprocamente in un letto bianco, grandissimo, il sogno proibito di tutti i televenditori di materassi (e non solo loro). E poi Anne Rice, col suo esecrabile vampiro Lestat – il vampiro come checca acida. E le varie ammazzavampiri televisive e narrative, strapazzate da carnali turbamenti per il succhiasangue di turno – che non è malvagio, no, poverino, è vittima di un destino peggiore della morte, condannato alla vita eterna da una sorte matrigna. Il vampiro come mollaccione, in altre parole. Però sexy.
A me i vecchi vampiri cattivi-cattivi mancano. Ho accolto con piacere film come il peraltro debole Vampires di Carpenter, o il granguignolesco, eccessivo Dal tramonto all’alba, o l’horror-pulp di Dan Brereton dei Notturni, augurandomi potessero aver segnato un ritorno dei vampiri al posto che compete loro nel grande disegno delle cose – dalla parte appuntita del paletto. I buoni presagi non mancano. E talvolta i desideri vengono esauditi. C’è stato un tempo in cui per Robert McCammon si scomodava Stephen King in persona, con le sue solite frasette di circostanza spiaccicate sulle copertine. «Il nuovo nome dell’horror, il nuovo maestro della suspance…» roba del genere. King ha, probabilmente, una scatola da scarpe piena di frasi lusinghiere e lodi tanto sperticate quanto generiche, scritte ciascuna su una strisciolina di carta; immagino le abbia martellate sulla tastiera della sua macchina per scrivere preferita, per ore e ore, ossessivo e demente, come Jack Nicholson in Shining, però strafatto di cocaina e con i Ramones a palla sullo stereo. Così oggi, quando un editore amico gli chiede un commento per un nuovo libro in uscita, King pesca un paio di striscioline a caso, le caccia in una busta e le spedisce. O magari ha addestrato un pappagallo o un macaco, a farlo. In realtà, Robert McCammon è scomparso dai nostri radar molto prima di poter lasciare un’impressione definitiva e apprezzabile in chiunque fuorché Stephen King. Pochi hanno letto Baal, che di McCammon dovrebbe essere il manifesto, quasi nessuno ne ha mai letti i racconti, belli, intelligenti, taglienti al punto giusto, nessuno si è preso la briga di tradurre nella nostra lingua i suoi didatticissimi articoli scritti per la Horror Writers’ Guild of America, e pochi, pochissimi, ricordavano questo They Thirst, romanzone «da spiaggia» anni Ottanta, che ora Gargoyle ci presenta in una veste fin troppo sontuosa. La copertina è abbastanza indistinta, ma il volume è bello, rilegato rigido, stampato su carta buona. E la storia proviene da quel tempo perduto in cui le strade erano illuminate da neon sfrigolanti, e i vampiri erano ancora come piacciono a me – cattivi-cattivi. Hanno sete è un horror hollywoodiano su due livelli – prima perché ci descrive l’attacco a Hollywood (e a Los Angeles in genere) progettato da un vampiro tanto sofisticato quanto scevro a ogni redenzione, fanatico estimatore di Napoleone, ricettacolo di aiuti diabolici e «lider maximo» di una crescente armata di non-morti; poi, perché tutto, in Hanno sete sembra preparato per essere trasferito al più presto su schermo – se non quello argentato del cinema, certo quello cristallino del televisore – c’è in Hanno sete tutto quello che ci aspetteremmo in una solida mini-serie, come quelle che produce spesso SciFi Channel.
L’azione è cinematografica al punto giusto, con pochi dialoghi ben costruiti, e si sposta da una inquadratura alla successiva, seguendo il lento progresso dell’invasione vampirica e le esperienze di una manciata di eroi improbabili tutti pronti per l’ufficio casting – un comico da cabaret diventato troppo in fretta una superstar (all’epoca dell’uscita del romanzo sarebbe venuto bene interpretato da Richard Dreyfuss – oggi potrebbe farcela Ben Stiller), un sacerdote di frontiera (Ron Perlman?), un ragazzino allo sbando (fate voi…), un poliziotto di origine ungherese che ha già incontrato il male in passato (ci vedrei benissimo Dennis Franz, il Detective Sipovitch di NYPD Blue)… Mentre una malevola tempesta di sabbia (erede del misterioso e mortifero santana di Sono una leggenda, di Matheson) copre la città tagliandola fuori dal resto del mondo, e la Guardia Nazionale si avvia inconsapevole al macello, l’armata brancaleone dei protagonisti muove verso la scena dello scontro finale fra il Bene e il Male – perché è poi questo il succo di ogni buona storia di vampiri, l’eterna lotta fra il Bene e il Male. Non ci addentreremo qui nei serpeggiamenti della trama, o sul botto finale. Hanno sete, best-seller estivo mancato, è comunque un romanzo con un’anima, e con una manciata di buone (ottime!) idee, che se non è in grado di regalarci dialoghi o caratterizzazioni memorabili, allinea non meno di tre colpi molto vicini al centro del bersaglio (incluso il finale fracassone da film di Bruckheimer), e ridefinisce intelligentemente un paio di elementi cruciali del mito vampirico – abbastanza da farne un titolo essenziale nella biblioteca di un amante (o nemico giurato) dei vampiri. Compratelo. Leggetelo. O meglio ancora – tenetevelo in serbo per la spiaggia, l’estate prossima. Non ve ne pentirete.
C’è stato un tempo in cui l’inglese Kim Newman, autore eclettico e critico di eccellente levatura, nascondeva sotto lo pseudonimo di Jack Yeovil [1] le proprie uscite vampiriche – Orgia dei parassiti di sangue, Demon Download, Route 666, il ciclo della vampira etica Genevieve Dieudonné. Roba di classe. Poi scrisse Anno Dracula, e i vampiri tornarono dalla parte appuntita del paletto. Di levatura diversa, ma altrettanto soddisfacente per il vampirologo in cerca di brividi a elevato numero di ottani, è Il barone sanguinario, edito dall’astuto Fanucci, secondo capitolo nella serie che Newman ha dedicato alla descrizione di una storia parallela nella quale, a metà del romanzo di Stoker, Dracula riesce a sfuggire ai propri avversari e mette in atto il proprio piano di vampirizzare la regina Vittoria. La Londra vittoriana e vampirica, e il duello fra l’agente segreto Beauregard e il Conte è al centro di Anno Dracula, primo volume della serie, autentico tour-de-force che Fanucci ci ha rivenduto in tutte le salse. Il barone sanguinario ha per sottotitolo Anno Dracula 1918, e sposta perciò l’azione avanti di ventinove anni, e dai vicoli londinesi sopra i campi delle Fiandre. Il monolitico Beauregard, la vampira Genevieve e il sergente Dravot tornano per coloro che si fossero affezionati nel primo romanzo, ma rimangono a margine della storia. Il Conte vampiro, esule dall’Inghilterra dalla quale è stato scacciato in conseguenza dei fatti narrati nel primo volume, è ora al servizio del Kaiser in qualità di comandante in capo delle forze dell’Impero germanico. È la Prima Guerra Mondiale, e il Barone del titolo è Manfred von Richtofen, alias il Barone Rosso – chi meglio di un non morto per pilotare un biplano sopra le trincee? Ma ci sono segreti che Dio non vuole che gli uomini conoscono, e Vicktor Frankenstein (Barone sanguinario anch’egli) non tarderà a scoprirlo. Ne consegue un turbine di duelli aerei, cacce a dirigibili nella notte, schianti e fughe miracolose, nella più classica tradizione dell’avventura aerea. È a questo punto che per il lettore italiano il meccanismo rischia di incepparsi. Chi è ’sto Biggles? Perché certi capitoli hanno titoli incomprensibili? Perché Newman si accanisce contro quel tedesco dal nome strano? Per noi la Grande Guerra è stata «qualcosa di completamente diverso».
Difficile quindi cogliere il gioco di Newman che, come nel romanzo precedente, allinea un cast stellare di personaggi reali e immaginari, e intanto spinge avanti l’evoluzione di un mondo trasformato dalla presenza e dall’accettazione del vampiro come realtà quotidiana. Noi, la mitologia dei piloti della Grande Guerra non l’abbiamo mai avuta; nel nostro paese, a differenza di quanto è accaduto in Gran Bretagna, tre generazioni non hanno trascorso i pomeriggi estivi leggendo i romanzi di avventure aeree di Biggles, oggi oggetto di un collezionismo milionario oltremanica. Il giovane Bigglesworth, sorta di Indiana Jones dell’aria, fu protagonista di una trentina di titoli, ponendosi ai comandi di praticamente ogni velivolo disponibile in catalogo fra il 1916 e il 1950, e affrontando assi tedeschi, pirati dell’aria, rivoltosi assortiti e insormontabili difficoltà per la gioia di grandi e piccini. Non ci risulta sia mai stato tradotto in Italia. E parlando di traduzioni: quella de Il barone sanguinario – che segue lo standard di normalizzazione verso il basso Fanucci – non aiuta il lettore e brucia non pochi doppisensi e sottili giochi dell’autore (ad esempio i titoli dei capitoli). Restano comunque imperdibili alcuni tocchi di classe – il ritorno di Edgar Allan Poe, vampiro e giornalista americano «alla Hemingway»; il lovecraftiano Erbert West medico in prima linea; la Nana di Zola che si prostituisce per un paio di sorsi di sangue; la Pattuglia dell’Alba (era un vecchio film con Errol Flynn e David Niven); e naturalmente il monumentale tributo finale a Bela Lugosi. Più strettamente avventuroso rispetto al più investigativo Anno Dracula, Il barone sanguinario lavora su cliché che non ci appartengono, ma è comunque consigliato. Compratelo, leggetelo. Vale la pena. Se non altro perché la sua uscita ci fa ben sperare per una prossima traduzione dei due volumi rimanenti, fortemente legati alla cinematografia del vampiro: Judgement in Tears – Anno Dracula 1958 (anche noto come Dracula Cha cha cha), degna prosecuzione della serie, ambientato nella Roma della Dolce vita, con comparsate di Anita Ekberg, Peter Sellers e tutti i James Bond cinematografici, con massicce citazioni di Argento e Bava, ma anche di Fellini; e il «doppio misto» di Coppola’s Dracula – Andy Warhol’s Dracula, nel quale il postmodernismo divora se stesso e il gioco di specchi fra realtà e finzione raggiunge vette inesprimibili, e che per ora segna l’ultima uscita nel canone vampirico di Newman.
[1]. Stephen King […] aveva ravvisato in quello pseudonimo la fusione di «yeoman» e «vile» – vale a dire gentiluomo della borghesia e infimo («vile» in inglese) perpetratore di letteratura popolare. Non senza un certo divertimento, Newman aveva poi rivelato di aver scelto come pseudonimo Yeovil, tranquillo paesetto del Wiltshire da cui proviene la sua famiglia.
Robert R. Mccammon, Hanno sete
Gargoyle edizioni 2005 (ed. or. 1981), pp. 621, € 17,50
trad. P. De Crescenzo
Kim Newman, Il barone sanguinario
Fanucci 2005 (ed. or. 1995), pp. 453, € 7,90
trad. B. Cicchetti
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