Questo romanzo è rimasto mesi ad aspettarmi sulla scrivania: lo prendevo, leggevo i risvolti di copertina, mi dicevo «devo leggerlo al più presto… un romanzo sulla memoria!» Insieme alla consapevolezza del trascorrere del tempo, la capacità di ricordare è ciò che ci rende umani: noi viviamo nel tempo, la nostra identità è costituita di innumerevoli frammenti di passato; grazie a essi comprendiamo il presente e immaginiamo il futuro. E Schegge, come alcuni dei libri che ho più amato nella mia vita di lettore, prometteva tutto questo. Eppure, ogni volta lo posavo, colta da una sorta di paralisi: «questa sera meglio di no, sono troppo stanca… non mi gusterei tutte le sfumature della storia. Lo comincio domani”. Così sono trascorsi giorni, settimane, mesi… Ho avuto il coraggio di iniziarlo solo a gennaio 2014, anche se è arrivato quasi due anni fa. L’ho aperto continuando a ignorare il motivo di tanta riluttanza, ho cominciato a leggere, sono giunta al termine della prima breve scena, misteriosa ma capace di catturare l’attenzione…
Marc Lucas, avvocato votato ad assistere giovani problematici, giunge ad una piccola casa nel bosco e si presenta a un certo professore; è in condizioni fisiche disastrose, sta letteralmente cadendo a pezzi, e il professore gli risponde che è arrivato troppo tardi. Un lunghissimo flashback ci porta indietro di undici giorni, nel momento in cui Marc riesce a salvare una sua giovane assistita in procinto di suicidarsi. La scena è teatrale, Marc vi appare abile ed efficace, non propriamente simpatico. Poco dopo un neurologo lo avvicina e gli chiede di offrirsi come cavia per un esperimento pionieristico sulla cancellazione selettiva della memoria: se l’esperimento avrà successo Marc dimenticherà che sei settimane prima, perdendo il controllo dell’auto, ha provocato la morte di Sandra, l’amatissima moglie in procinto di partorire. Insieme all’incidente, scorderà la moglie, il figlio mai nato, la famiglia di lei e soprattutto il proprio atroce senso di colpa. Come farebbe la maggior parte di noi, Marc rifiuta; non vuole perdere parte dei ricordi che lo rendono ciò che è. Il neurologo insiste gentilmente: il farmaco è portentoso, altamente selettivo, assolutamente non devastante… Mentre decide, Marc potrebbe fare qualche esame medico presso la sua casa di cura, solo per dargli modo di valutare la compatibilità tra eventuale paziente e terapia, evitando ritardi nel caso decidesse di accettare.
Di qui in poi, la vicenda si snoda lenta e avvolgente, in una prima parte emozionante e ben calibrat. Dopo essere uscito dalla clinica senza aver dato il consenso, Marc comincia a sperimentare lievi, quasi inavvertibili ma inesorabili slittamenti della realtà: luoghi che gli erano famigliari sembrano sottilmente diversi, l’appartamento nel quale si è trasferito da vedovo non è quello che ha lasciato la mattina, perfino il nome sul campanello non è il suo, una voce sconosciuta risponde al telefono del suo ufficio… conosce una strana paziente che si è sottoposta all’esperimento e suo suocero, con il quale è rimasto in buoni rapporti nonostante la morte di Sandra, deve intervenire più volte per salvarlo da guai assurdi nei quali finisce insistendo a raccontare la propria versione del reale. Un paio di scene sono talmente azzeccate e inquietanti da suscitare i brividi. Giunta a p. 171 ho comunicato al mio consorte un primo verdetto: Fitzek è un grande.
Purtroppo ho continuato la lettura, dapprima continuando ad apprezzare i modi e i tempi scelti dall’autore, poi sempre più perplessa sulla piega presa dalal storia, in particolare sulle numerose incursioni nella vicenda del fratello «fuori di testa» di Marc. Aspirante suicida e profondamente disturbato da un talento empatico sovradosato, Benny ha legami con gente tutt’altro che raccomandabile che complicano inutilmente una trama già molto complessa e mette a dura prova la pazienza di chi legge. La seconda metà della storia è farcita di un numero crescente di flashback che si diramano da quello principale (i famosi undici giorni che precedono l’incipit…), di coincidenze che non sono tali ma potrebbero esserlo, di segni provenienti dalla moglie defunta (ma lo sarà davvero?) di brevi apparizioni di personaggi nuovi come l’avvocato della moglie, di entrate e uscite da cliniche reali o forse no, e di male azioni compiute dal villain della storia… una torta fatta con ingredienti sovrabbondanti che – disseminati per trascinare i lettori nel cuore di una «realtà» caotica che sta sgretolandosi – riescono soltanto a distrarne l’attenzione, mandandoli a schiantarsi contro un finale pirotecnico, che forse li coglierà alla sprovvista ma non li sorprenderà nel profondo.
In conclusione, avevo ragione a diffidare: Schegge è un romanzo profondamente contaminato con il genere fantastico, un sottogenere letterario nel quale la misura e la sobrietà sono indispensabili (vedi i romanzi migliori di P.K. Dick); purtroppo qui tutta l’accurata, a tratti magistrale, prima parte della vicenda, l’accumularsi sapiente di crepe nella trama del reale per indurre chi legge a interrogarsi sulla consistenza del mondo, sul valore esperienziale, affettivo, collettivo del nostro vivere, alla fine fanno flop, come un soufflé mal cucinato. E il lettore (almeno questo lettore) comincia a pensare che qualunque altro gruppo di umani, trovandosi a vivere una vicenda drammatica quanto quella della famiglia di Marc, troverebbe di sicuro una strada meno tortuosa, più dignitosa e rispettosa degli altri e – nonostante l’impianto fantastico – più credibile di questa narrazione ambiziosa, troppo lunga e anche un tantino presuntuosa.
Sebastian Fitzek, (Berlino 1971) è autore di numerosi thriller. In Italia i suoi testi sono stati pubblicati prima da Elliot, poi, dal 2012 da Einaudi.
Sebastian Fitzek, Schegge
Elliott Scatti, 2010, pp. 360, € 18,50
Trad. Crivellaro C.
Idem, LIT 2011, pp. 360, € 9,90
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