Nella sua unicità Kurt era un mostro, non c’è dubbio, però un mostro quasi morale, che aveva stabilito tra la propria sensibilità e il mondo una relazione di non corrispondenza, di non riconoscimento, di incommensurabilità.
Kurt non è sempre stato un soldato della Wermacht, può ricordare un tempo sereno nel quale si occupava della florida sartoria di famiglie e amava, riamato, Rachel. La guerra se l’è ingoiato: la vita militare, i mesi precedenti l’invasione della Francia sono stati duri ma tollerabili, Kurt li ha superati affidandosi alle nuove abitudini e all’antica capacità di lavorare con le mani e di gioire del lavoro ben fatto. Ciò che lo ha radicalmente cambiato, trasformandolo in una sorta di zombie, nel prigioniero volontario di un corpo che non risponde più agli stimoli esterni, che non è più, letteralmente in sintonia con il mondo, è stata la rappresaglia crudelissima e definitiva attuata dal suo superiore dopo un’azione dei partigiani francesi: un intero paese è stato devastato, gli abitanti rinchiusi in chiesa e bruciati vivi. E Kurt ha deciso di averne abbastanza. Ricoverato in un ospedale per casi difficili destinati si soldati invasori ma gestito da personale francese, Kurt non riceve più stimoli esterni, si è chiamato fuori e lascia semplicemente che il tempo, i giorni, la vita scorrano su di lui. Al mondo non ha più nulla da chiedere e sicuramente più nulla da dire.La sua patologia richiama l’attenzione del medico Lasalle che lo studia con passione e gli dà il soprannome di «metafora», immagine vivente della «incommensurabilità» che la gelida, efficiente crudeltà della guerra ha creato tra l’animo umano e il reale; La dedizione amorosa dell’infermiera Ermelinde e l’intervento di Lasalle regaleranno a Kurt una tenue speranza ma…
L’esito narrativo del racconto lungo di Salmón (il termine romanzo mi sembra poco adatto nonostante la narrazione si snodi rapidamente lungo cinque anni) non è convincente, nonostante le ottime intenzioni dell’autore e il modo intrigante adottato da Kurt per manifestare il rifiuto e salvare la propria anima. A cominciare dallo stile, appesantito da frasi rigonfie, paragoni e metafore urlati invece che suggeriti, accostamenti per lo meno arditi: «una nebbia spudorata», passando attraverso una narrazione in definitiva astratta che presenta, dichiara, definisce invece di mostrare, evocare, suggerire… per giungere a un finale inutilmente simbolico e cervellotico. La Francia attraversata da Kurt viene descritta ai genitori con frasi da guida turistica, facendo sbadigliare il lettore invece di avvincerlo; il testo oscilla tra l’ansia di puntualizzare i moti dell’animo e quella di mostrare quanto sia adeguata e geniale la metafora incarnata da Kurt che, per il lettore, resta un nome – una metafora letteraria, appunto – e non diviene mai persona. Sinceramente, viene da chiedersi perché l’autore abbia scelto una vicenda storica ormai tanto scavata umanamente e psicologicamente, e tanto frequentata dalla narrativa da risultare ahimè narrativamente «facile» (e dicendo questo non sottovaluto affatto l’importanza di continuare a farsi domande, a cercare risposte, a ricordare): come non apprezzare un tema così denso? Quale lettore potrebbe tirarsi indietro? So bene che le conseguenze terribili provocate dal nazismo e dal fascismo in Europa non devono restare un territorio frequentabile soltanto da chi le ha vissute (altrimenti ne perderemmo lentamente il ricordo emotivo) però… Perché scegliere un tema e un punto di vista tanto impervio e farne un cimento narrativo? Non ci sono oggi, purtroppo, tante altre guerre, più vicine a noi e altrettanto infami da esplorare? Libro solo per lettori con pretese intellettuali ma distratti e bisognosi di ripetizioni e semplificazioni.
Ricardo Menéndez Salmón, L’offesa
Marcos y Marcos, 2007, pp. 152 € 13,50, Trad. C. Tarolo
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