Arthur Machen è lo pseudonimo di Arthur Llewellyn Jones, nato in Galles nel 1863, figlio di un pastore anglicano. Dopo aver esordito (1881?) Come poeta, Machen si trasferisce giovanissimo a Londra, dove fa l’insegnante, poi l’attore shakespeariano, infine il traduttore. I suoi primi lavori, tra cui The Anatomy of Tobacco (1884), romanzo realistico scritto in un fantastico inglese seicentesco riscuotono scarsissimo successo. Tornato in Galles, pubblica (1894) alcuni racconti tra i quali la lunga novella The Great God Pan (1894), The Inmost Light e The White People che esplorano i temi del paganesimo e della sessualità, sollevando scalpore a Londra. Nel 1895 esce The Three Impostors, or the Transmutations, insolito romanzo a incastro stampato a puntate. The Hill of Dreams (1907), una storia di possessione apparentata a Jekyll e Hyde, descrive una Londra buia e allucinatoria mentre una serie di brevi pièces (raccolte in Ornaments in Jade) dimostra l’interesse di Machen per il decadentismo francese. Divenuto giornalista, diviene famoso presso il grande pubblico nel 1914 con un racconto patriottico (era appena iniziata la Prima guerra mondiale) commissionatogli dall’«Evening Post»: The Bowmen (Gli arcieri) nel quale i fantasmi degli antichi arcieri inglesi di Grécy e Azincourt guidati da San Giorgio soccorrono l’esercito britannico nella battaglia di Mons (scambiato per una storia «vera», il racconto diverrà un mito della Grande guerra). Poco successo otterranno le opere successive, tra le quali il romanzo breve The Terror (1916) che narra di una sanguinosa ribellione di animali divenuti assassini che influenzerà Daphne Du Maurier (The Birds) e Alfred Hitchcock (The Birds). Machen scrive sino all’ultimo e muore povero nel 1947, tanto che i suoi amici (e tra loro: T. S. Elliot, Edith Evans, Edith Sitwell, John Betjeman, John Masefield, Walter De La Mare, Arthur Quiller-Couch e George Bernard Shaw) devono organizzare una colletta per garantirgli una morte dignitosa. Poeta, traduttore, giornalista, saggista, serio critico letterario, mistico, occultista (apparteneva come Yeats e Aleister Crowley all’ordine ermetico della Golden Dawn), Machen fu un maestro di stile della lingua inglese. È tuttora un autore poco noto al grande pubblico, ma apprezzato (e talvolta intensamente amato) da una cerchia di intellettuali tra i quali anche autori famosi come J. L. Borges, A. Conan Doyle, J. M. Barrie (autore di Peter Pan), H. P. Lovecraft (che ne fu profondamente influenzato) e da lettori appassionati diversissimi tra loro come il Dr Rowan Williams, Arcivescovo del Galles e Mike Jaegger dei Rolling Stones. Autore colto e immaginifico, profondamente schierato contro il materialismo e la prosaicità che considerava come un frutto negativo della sua epoca, dominata dalle oppressioni degli affari e della scienza, capace di servirsi di un inglese impeccabile ed evocativo, fu forse il primo autore a evocare quell’Orrore Cosmico del quale Lovecraft fece il fulcro della sua scrittura, il primo a narrare il ritorno fra gli umani di antiche divinità pagane cupe, notturne, lontanissime dagli dèi apollinei che suggestionarono altri autori anglosassoni. A differenza di Lovecraft – che è sostanzialmente un «laico» le cui divinità permeano il nostro mondo senza appartenervi e restano remote e inconoscibili – Machen è profondamente mistico, i suoi antichi dèi sono pre-umani come lo è la Natura e altrettanto amorali, ma uniti a noi da una medesima vitalità, da pulsioni, desideri e crudeltà che possiamo, se non comprendere, almeno sfiorare.
Scritto nel 1990, a soli 27 anni, I tre impostori occupa un posto particolare anche nella peculiare produzione di Machen. È un’opera multiforme, ambigua, a suo modo ferocemente umoristica, difficile da definire; Lin Carter, in una sua partecipata prefazione la definì «una novella, un’opera di horror gotico, una satira picaresca comica della vita di Londra. In esso c’è avventura, commedia, romance, horror, satira, sogno, incubo, idillio». Prese singolarmente le storie de I tre impostori potrebbero costituire un manuale abbastanza completo dei vari sottogeneri di fantastico. Parente gotica del Decamerone e delle Canterbury Tales la novella è dotata di una doppia cornice, che si chiude su se stessa in maniera sorprendente e angosciante. La prima cornice è costituita dal dialogo di tre individui – due uomini e una ragazza – che hanno appena terminato una misteriosa missione, la seconda dalle chiacchierate amichevoli di due giovani intellettuali londinesi: Dyson lo scrittore – esaltato appassionato di misteri e fautore dello Stile nella scrittura come nella vita – e Phillips, studioso di etnologia, positivista e cieco sostenitore della scienza. Le storie, intricate e orrorifiche, sono raccontate loro da strani personaggi nei quali il lettore ravvisa senza difficoltà i «tre impostori» della cornice più ampia. Le storie sono state pubblicate spesso separatamente, le più note sono Il sigillo nero, nella quale un antropologo scopre una tribù di ominidi antichissimi che vivono nelle montagne del Galles (Come vi immaginate i «bambini sostituiti», i «figli delle fate»? Bizzarramente belli? Allora resterete sorpresi…) e La polvere bianca, un racconto famosissimo che riguarda la terribile involuzione fisica, indotta da una droga e dal vizio, di un giovane borghese di campagna. Tutte le storie sono ambientate nel mondo reale ma o se lo lasciano indietro (Il sigillo nero) o virano all’incubo come La storia della valle oscura, o verso lo humour nero (La vergine di Norimberga). Il finale è decisamente disturbante e non solo per i tempi di Machen. A cominciare dalle due storie più note e riuscite che si basano sull’uso rovesciato delle teorie evoluzioniste della scienza ottocentesca (Machen non fu il solo: Leigh Brachett scrisse un racconto molto suggestivo sulla degenerazione degli ultimi aristocratici marziani), I tre impostori è molto più di una collezione di storie weird, ha ragione Lin Carter. È un’elegante presa in giro della vita urbana, dei vezzi intellettuali, dei limiti del positivismo e della scienza ma anche della credulità dei vari occultisti, insomma degli ambienti nei quali Machen si muoveva e che conosceva a fondo. È un divertente riciclaggio di vicende personali dell’autore (il povero giovane di campagna, figlio di ecclesiastico, che cerca fortuna nella grande Londra è proprio lui), una parabola sui danni del materialismo ma anche una messa in guardia contro il desiderio sregolato di andare Oltre, di trascendere, rifiutando la morale comune in nome del proprio edonismo. Ma soprattutto è un affascinante esempio di metaletteratura, non soltanto per le molteplici cornici e voci narranti ma perché, a ben guardare, i tre impostori si esibiscono nelle loro bizzarre narrazioni senza un vero, esplicito motivo di convenienza: nonostante tutte le loro imposture non hanno altro motivo al mondo per narrare le loro storie incredibili se non l’amore per il bel raccontare. E sono narratori grandiosi, la cui consumata abilità è in grado di incantare non soltanto gli ingenui Dyson e Phillips, armati soltanto del loro «stile» o del loro scetticismo scientifico ma anche noi scafati lettori del XXI secolo. Tanto che, chiuso il libro, viene il dubbio che le cornici siano tre, e che l’ultima sia costituita da noi lettori che, pur sapendo benissimo di aver in mano un libro e di cominciare una nuova storia narrata da un «impostore», dopo cinque righe già non ricordiamo più niente se non che stiamo ascoltando una storia. Vi raccomando l’interessante introduzione di David Trotter, ma fatevi un favore: leggetela dopo, come ho fatto io: la gusterete, ne apprezzerete l’arguzia e non coprirete Trotter di male parole per avervi raccontato le preziose storie di Machen per filo e per segno, compreso il finale.
Arthur Machen, I tre impostori
Fanucci, 2004, pp. 192, € 7,50, Trad. Roberta Rambelli
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