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    Interzona

    Soldati in guerra: il volto della battaglia

    • di Obelix
    • Gennaio 27, 2014 a 11:32 am

    keegan libro

    John Keegan è il più noto storico militare britannico, di cui segnalo La grande storia della guerra (edita da Mondadori, ora anche negli Oscar). In questo periodo ha anche scritto per «La Stampa» alcuni articoli di analisi della guerra in Afghanistan. La sua specialità è lo studio delle reazioni e delle condizioni di vita dei soldati esposti a eventi bellici. il Saggiatore pubblica un saggio vecchio di 25 anni, in cui lo storico si propone di farci «vedere» alcune battaglie caratteristiche del passato attraverso gli occhi di chi dovette combatterle, utilizzando le testimonianze dei sopravvissuti e sfruttando la sua grande conoscenza delle tattiche e delle tecnologie militari. Da buon britannico, keegan johnKeegan sceglie tre battaglie che hanno visto la vittoria degli eserciti inglesi nel nord Europa: Azincourt (1415), Waterloo (1815) e la Somme (1916). Dedicando un capitolo a ogni battaglia, Keegan, dopo una breve descrizione della dinamica dello scontro, conduce un’analisi capillare delle sensazioni e delle difficoltà affrontate dai soldati: gli odori, i rumori, l’igiene, l’alimentazione, i tipi di combattimento e di ferite, il comportamento nei confronti di commilitoni e nemici, la paura della morte, i meccanismi psicologici che impedivano di fuggire di fronte al pericolo e che altresì spingevano a uccidere. Eventi cruenti ed orripilanti sono analizzati con distacco scientifico, portando a volte il lettore profano alla scoperta di particolari tanto inediti quanto raccapriccianti (ad esempio, la possibilità per gli uomini in linea di essere feriti dalle schegge d’osso dei compagni colpiti da proiettili). Se questa «antropologia della battaglia» è descritta con ritmo abbastanza incalzante, gli altri due capitoli, in apertura e chiusura del libro, sono provvisti di un certo potenziale soporifero. Del resto Keegan è fatto così: bravo nell’analizzare eventi specifici, noioso nello scrivere considerazioni di carattere generale. La qualità della stampa è decisamente scadente, e non giustifica il prezzo del libro. Su «Tuttolibri» Gianni Riotta sostenne che si trattava di «un libro da leggere per chi ambisce, seriamente, a capire la guerra in Afghanistan»; mi sembra eccessivo. Non vedo come si possano trarre informazioni utili per comprendere l’attuale «guerra asimmetrica» da un libro che risale alla caduta di Saigon.

    seduzioni della guerra

    Se Keegan pone l’accento maggiormente sulle difficoltà materiali del soldato, la storica Joanna Bourke è interessata ai suoi problemi psicologici, con particolare attenzione alle due guerre mondiali e alla guerra del Vietnam. Anche in questo caso sono analizzate le esperienze dei soli eserciti anglofoni (britannico, statunitense, australiano). Partendo dalle memorie e dalle lettere dei reduci, la Bourke analizza le varie facce dell’esperienza dell’uccidere un altro essere umano, e il quadro che ne emerge è sconvolgente. Nel libro sono riportate innumerevoli testimonianze di soldati che ammettono di aver provato sensazioni piacevoli in combattimento. «Un giorno centrai in pieno un accampamento nemico, vidi corpi e parti di corpi saltare in aria e udii le urla disperate dei feriti e dei fuggiaschi. Dovetti confessare a me stesso che fu uno dei momenti più felici della mia vita». Queste parole di un ufficiale di mortaio della prima guerra mondiale non sono un caso di follia isolata: secondo l’autrice la maggior parte di coloro che lasciarono memoria scritta delle loro esperienze belliche nelle tre guerre provarono piacere a uccidere. Mi pare una considerazione esagerata, o quanto meno non sufficientemente provata. Un saggio di questo tipo è afflitto dall’incapacità di produrre statistiche: nelle guerre prese in esame solo circa un soldato su dieci partecipò direttamente ai combattimenti; di questo 10 per cento, non tutti uccisero, e solo una parte di quelli che uccisero lasciò testimonianze scritte di tale esperienza. Benché quindi non si possa generalizzare su comportamenti ed emozioni di un soldato in guerra, le testimonianze riportate dall’autrice sono impressionanti, anche assumendo che riguardino una minoranza di persone. In che modo persone normali poterono sviluppare improvvisamente il piacere di uccidere? Sicuramente il venire catapultati da un ecosistema civile in una dimensione violenta, pervasa dalla presenza costante della morte, poté costituire motivo di indebolimento dei freni morali e religiosi; il desiderio di non sfigurare davanti ai commilitoni e superiori e di nascondere la paura contribuirono alla metamorfosi. L’addestramento militare, finalizzato a formare killer efficienti facilitò la disumanizzazione (ricordate il primo tempo del film Full metal jacket?), ma non fu determinante, se la Bourke ci mostra numerosi casi di medici e cappellani militari, nonché donne in divisa, che, calati in un contesto bellico, furono presi dalla pulsione di uccidere, nonostante che nessuno di essi avesse ricevuto uno specifico addestramento al combattimento. Dal saggio della Bourke si ricava, se ce n’era bisogno, un’ulteriore conferma che la guerra è una situazione così eccezionale da indurre l’uomo a sospendere il giudizio sull’eticità dei propri atti, e a trovare accettabili comportamenti che mai avrebbe adottato nella vita civile. Solo così si può spiegare l’altissima incidenza di stupri e massacri di civili perpetrati in Vietnam, in cui l’episodio di My Lai (in cui morirono centinaia di vietnamiti inermi) rappresentò la punta di un vasto iceberg. Solo il bassissimo valore attribuito in guerra alla vita umana spiega perché militari alleati delle due guerre mondiali poterono uccidere nemici datisi prigionieri, per evitare il «fastidio» di doverli condurre nelle retrovie. E qui non si tratta di effetti collaterali di bombe poco «intelligenti», bensì di uomini che scientemente uccidono altri esseri umani guardandoli in faccia, senza essere spinti dalla necessità di difendersi.
    joanna bourkeAnche questo libro, come quello di Keegan, è a volte ripetitivo, talvolta noioso, talaltra banale. Forse per capire l’effetto alienante della guerra è meglio leggersi romanzi come All’ovest niente di nuovo o Tempo di vivere, tempo di morire di Remarque, o vedere film come Platoon, Vittime di guerra, Orizzonti di gloria, Vite spezzate. Non a caso il saggio della Bourke fa spesso riferimento a questo genere di documenti. Può la lettura di libri come questo facilitare la comprensione delle guerre attuali? Mi sembra molto improbabile, soprattutto per le guerre che coinvolgono i paesi occidentali. L’alto livello tecnologico degli armamenti, la crescente professionalizzazione del soldato, la necessità di contrarre al minimo la durata di un conflitto e la tendenza a «turnare» il più possibile i militari sulla linea di combattimento, nonché la minore bellicosità dell’opinione pubblica, rendono sempre più remoto lo scenario delle guerre del secolo passato, in cui «cittadini in uniforme» giungevano al fronte dopo un addestramento sommario, erano lasciati a marcire per mesi nelle trincee o nelle giungle, ed erano spesso costretti ad affrontare il nemico in condizioni psicologiche non molto dissimili da quelle dei soldati di Azincourt o Waterloo. Oggi le uccisioni faccia a faccia sono più frequenti nei sobborghi delle metropoli che in un fronte militare. Nel villaggio/mercato globale anche i confini tra militari e civili, tra guerra e pace, diventano sempre più inconsistenti. Leggere delle guerre del passato può aiutarci a capire la storia delle passate generazioni, ma non certo come combattere o evitare le guerre presenti.

    John Keegan, Il volto della battaglia

    Il Saggiatore tascabili, 2010, pp. 400, € 12,00, trad. Saba Sardi F.
     
    Joanna Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia

    Carocci, 2003, pp. 369, € 13,20, trad. Coldagelli M.C.

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