Quando quel giorno comincia, per il il tredicenne Henry – che abita con la madre Adele in una cittadina del New Hampshire – non è affatto uno dei soliti giorni. Itanto sta iniziando il week-end del Labor day e l’estate è decisa a congedarsi con un’ultima manciata di belle giornate, e poi Henry e Adele andranno a far spese da Pricemart. Un vero avvenimento, questa uscita, perché, per cause che risulteranno chiare in seguito, Adele ha rotto con il mondo: vive da reclusa con il surgelatore pieno di provviste e gli scaffali gremiti di minestre in scatola e delega Henry a operare sul conto in banca, mentre lei aspetta in auto. Madre e figlio hanno un rapporto stretto ma non soffocante, un rapporto tra adulti. C’è anche un padre/marito sullo sfondo, ma dopo il divorzio da Adele ha una nuova moglie e dei figli; lui ha preferito una vita normale, nella quale Henry entra il sabato sera alla voce «cena al ristorante». In quel famoso giorno, che sta per diventare speciale, Henry e Adele vengono avvicinati da Frank, un uomo sul finire della trentina dai modi gentili e dall’aspetto affidabile; presto risulterà che Frank ha molti e svariati talenti e un solo neo che, onestamente, rivela quasi subito: è appena evaso dall’ospedale. La storia di Frank è piuttosto inquietante: condannato a una lunga detenzione per uxoricidio, di lì a sei mesi sarebbe uscito sulla parola. Perché mai, quindi, ha pregiudicato tutto con quell’assurda evasione? Se lo chiedono tutti ma, già a poche ore dall’incontro, Frank risponderebbe senza esitare: per incontrare Adele e suo figlio, e offrirsi come marito e padre. Difatti, in quel week-end insensato, matto come gli ultimi aneliti dell’estate, i tre giocano alla famigliola felice, progettano di trasferirsi in Canada e di godersi insieme una seconda possibilità. A parte la polizia, che cerca Frank per tutto lo stato, gli unici ostacoli sono la diffidenza di Henry, il suo sgomento nel vedere quanto rapidamente i due adulti diventino una coppia, la sua paura di essere escluso. E la paura dà pessimi consigli…
Romanzo di formazione e storia d’amore, Un giorno come tanti asseconda con discrezione il nostro desiderio di credere che – almeno una volta nella vita, almeno per qualcuno di noi – sia possibile un amore a prima vista, tanto potente, paziente e duraturo da resistere alla sfortuna e cambiare il corso della vita. Onestamente, io diffido dei libri che parlano d’Amore. Mentirei se dicessi che non credo nella forza dei sentimenti, ma questo è tutto ciò che mi sento di dire, come lettore e come autore. Però, devo ammettere che l’autrice ci sa fare: la sua storia fa acqua in diversi punti, basta tentare di riassumerla per rendersene conto eppure Maynard possiede una certa finezza narrativa e buon tocco nel descrivere la quotidianità.
Il romanzo è medio e forse non lo avrei iniziato, se non avessi scoperto che nel 1973 Daphne Joyce Maynard (1953-) divenne un «caso» mediatico. Da allora ha cominciato a scrivere, maturando un suo stile e proprie tematiche, ma la sovraesposizione di un tempo le ha fatto più male che bene, facendo scivolare in secondo piano i suoi pregi.
Tutto cominciò quando lei, matricola a Yale, pubblicò sul New York Times il saggio An 18-Year-Old Looks Back on Life. Fra le tante lettere di apprezzamento gliene giunse una di Salinger, il «padre» del Giovane Holden. Lo scrittore, che allora viveva già da recluso e aveva 53 anni, gliene spedì molte altre, poi cominciò a telefonarle, la invitò a visitare la propria casa isolata nel New Hampshire, infine le propose di lasciare l’università per andare ad abitare con lui. Come chiunque fornito di un briciolo di buon senso (ma non Salinger) avrebbe profetizzato, la relazione non poteva durare: Joyce era una ragazzina lusingata dalle attenzioni della stampa e ne rifiutava le proposte solo a causa della disapprovazione di Salinger. Alla fine lo scrittore si stancò della bambola nuova, che ai suoi occhi si era rivelata pigra, sdolcinata e incapace di letture impegnative, che somatizzava il malessere in grandi mal di testa e non riusciva ad avere rapporti sessuali. Così, dopo nove mesi faticosi, la sbatté cortesemente fuori di casa. Dopo anoressia, insicurezze e anni di analisi, Maynard si rimise in sesto, visse la propria vita e cominciò a scrivere, raggiungendo un buon successo di pubblico. Ha riaperto il capitolo Salinger solo nel 1998, alla morte dello scrittore, per raccontare la propria verità (e mettere all’asta le lettere di lui), nella biografia At Home In The World. L’iniziativa le ha attirato nuovamente la luce dei riflettori e feroci accuse di aver violato l’intimità di un autore che moltissimi lettori ritengono fondamentale anche anche per ragioni diverse dagli indubbi meriti artistici.
Passando da un sito all’altro in ricerca di notizie su Maynard, ho letto sue interviste e dichiarazioni che mi hanno suggerito riflessioni interessanti sulla scrittura, che ben si adattano a opere simili a Un giorno come tanti:
Ci fu un momento in cui mio marito Steve e io avevamo $ 10,000 di debiti per spese mediche non coperte da assicurazione… mia figlia si era rotta un braccio, avevamo due bambini piccoli e io non sapevo proprio che fare… e in quel momento pensai: io ho un mestiere, un mestiere che posso praticare proprio come se fossi un falegname1.
In effetti, perché ritenere che scrivere debba aver come fine soltanto la produzione di un’opera d’arte (qualunque cosa significhi)? Un giorno come tanti sta a metà tra l’opera unica che va esattamente là dove deve andare, e il buon prodotto dosato con attenzione per ottenere l’effetto voluto. Contiunando a utilizzare la metafora del buon falegname, il romanzo di Maynard è una buona mensola robusta, ci terrà compagnia a lungo e reggerà benissimo i nostri libri… non è fatta in serie, a suo modo è un pezzo unico, privo di genio ma adeguatissimo e gradevole. Forse un «artista» (ma io diffido di questi paroloni) ne avrebbe fatto qualcosa di più: un oggetto sul quale riporre non soltanto cose, ma anche emozioni, piacere per gli occhi e, nel suo piccolo, una qualche visione del mondo. Gli «artisti», però, non regalano soltanto emozioni positive, insinuano dubbi, inquietudini (è il loro compito, quello di spiazzarci). Invece, Un giorno come tanti, proprio come la mensola del falegname, ci regala soltanto l’illusione che, almeno qualche volta, la vita vada proprio là dove vorremmo che andasse. Non è poco.
Il regista Jason Reitman (Tank you for smoking, Juno, Tra le nuvole) sta adattando Un giorno come tanti per il cinema; da un altro libro di Maynard, To die for, è tratto l’omonimo film di Gus Van Sant con Nicole Kidman e Matt Dillon (Da morire, 1995).
1. – Larissa Macfarquhar The Cult of Joyce Maynard in «The New York Times Magazine»,Sept. 6, 1998 (Trad. mia)
Joyce Maynard, Un giorno come tanti
Piemme 2010, pp. 252, € 16,50
trad. Merani F.
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