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    Magazzino · In primo piano

    Vivere in anni interessanti: il nazismo visto da vicino

    • di Silvia Treves
    • Maggio 29, 2013 a 6:03 pm

     

    Martin_Heidegger

    Martin Heidegger

    Che l’uomo è stato e sarà una porcheria lo so già, nel 510 e anche nel 2000, ma che il xx secolo sia uno spreco di malvagità insolente non c’è chi lo possa negare.

    Enrique Santos Discépolo, poeta e autore di tanghi argentino

    Tra i meriti maggiori della narrativa c’è il tentativo di restituire a chi non li ha vissuti e di illuminarli a chi, facendone parte, era troppo vicino, momenti storici che i cinesi definirebbero «tempi interessanti», augurando di viverli soltanto ai peggiori nemici. L’ascesa al potere di Hitler e del nazismo è forse il nodo storico maggiori e più «difficile» del Novecento, e ogni contributo a comprenderlo maggiormente, nel suo significato storico e umano, di quotidianità, va accolto con gratitudine. I due autori di questo numero utilizzano modi di scrittura diversissimi; Feinmann cimentandosi con un romanzo epistolare molto particolare e Krajevski dando vita a un nuovo detective figlio dell’epoca e senza illusioni.

    Ognuno è gli Altri e nessuno è se stesso. Il Si è il nessuno a cui ogni Esserci si è abbandonato nell’indifferenza del suo essere-assieme.

    Martin Heidegger, Essere e tempo

    Nato a Buenos Aires nel 1943, docente di filosofia, autore di numerosi saggi e romanzi, tra cui L’esercito di cenere, Feinmann con il romanzo L’ombra di Heidegger, lunga lettera di un uomo alla soglia del suicidio, affronta con notevole coraggio uno dei pensatori più innovativi, affascinanti e «imbarazzanti» del Novecento. Quel Martin Heidegger, che diede la sua adesione – difficile definire se temporanea oppure «organica» – al nazionalsocialismo; che, finita la guerra continuò fino alla morte nel proprio impegno filosofico senza di fatto mai chiarire, spiegare, affrontare l’argomento; il pensatore che, con tutte le sue luci e le pesanti ombre, testimonia la difficile, pericolosa relazione tra intellettuali e politica.

    In una lunga lettera scritta da Dieter Müller, allievo e fine interprete del pensiero del Maestro, al figlio, per spiegare il proprio cammino umano e intellettuale e la propria decisione di espiare, Feinmann illumina la figura del filosofo, il 1934, l’anno grandioso del rettorato a Friburgo, la presa che con la sua intelligenza e la sua modernità esercita sugli studenti e sui giovani filosofi di quegli anni, i legami con le S.A. l’interesse suscitato dal suo pensiero nei giovani aderenti al movimento e l’interpretazione che ne diedero.

    Dieter Müller, giovane assistente del Maestro è uno dei tanti giovani che corrono ad ascoltare le lezioni di Heidegger come oggi molti correrebbero al concerto di una star. Tutto ciò che Müller desidera, è continuare a lavorare con il filosofo a scaldarsi al suo pensiero:

    Di nuovo sentivo che l’intelligenza umana non ha limiti. Che in alcuni, come in Heidegger, si slancia verso l’Assoluto e non si ferma finché non l’ha afferrato.

    Per Müller, come per molti altri come lui, il pensiero di Heidegger e il nazionalsocialismo convergono nella promessa di riscatto e rinnovamento che la Repubblica di Weimar non aveva saputo mantenere; la domanda ontologica di Heidegger sull’Essere, in quanto Esser-ci [Dasein] nel mondo e nel Tempo, ed essere-per-la-morte, destino umano liberamente compreso e accettato non è disattesa e negata dalle manifestazioni del nazismo:

    Noi nazionalsocialisti eravamo superiori non perché ariani puri, non perché il nostro sangue non si era mescolato con quello di ebrei o gitani, ma perché eravamo il popolo metafisico, perché eravamo il centro dell’Occidente, perché avevamo alle spalle il fardello della salvezza di quello spirito soffocato nella morsa del mercantilismo americano e della massificazione bolscevica […] Un discepolo di Heidegger non può essere razzista. Il suo tema è l’Essere, non la razza o la biologia. Può darsi che pensassimo che noi filosofi tedeschi – discepoli di Heidegger – fossimo i più adatti a interrogarci sull’Essere. Ma il Dasein non aveva razza […] Non aveva neppure sesso.

    Da questa ebbrezza intellettuale, Müller è bruscamente risvegliato dal corso che in quei mesi prenderà la Storia: l’amico Minder, figura emblematica dei tanti giovani intellettuali sempre più compromessi con il nazismo del quale inizialmente vedevano una forza rinnovatrice, si trasforma da compagno di discussioni filosofiche in rozzo interprete della «filosofia» delle S.A. La resa dei conti della notte dei lunghi coltelli coglie di sorpresa Müller e forse anche Heidegger

    Prof. Müller, Biemel stava con Röhm. Questo lo rendeva nostro nemico. E i nostri nemici sono quello che noi diciamo che siano. Se vinciamo, lo sono definitivamente. E poiché lo sono, li uccidiamo. La guerra è questo […] Il prof. Heidegger continuerà a insegnare. Il nazionalsocialismo non è quel che lui crede che sia. Ma questo non importa a nessuno e non interessa a nessuno. Il Maestro, caro Müller, è tanto geniale in filosofia quanto limitato in politica.

    Spiega Werner Rolfe, ufficiale SS e demone tentatore di Müller.

    Della memorabile frase di Heidegger: «Tutto ciò che è grande… È nella tempesta» in pochi mesi resta soltanto il «brogliaccio di Rosenberg», somma meschina di prescrizioni del poco che il docente di filosofia fedele al Terzo Reich deve spiegare ai propri studenti.

    Verità non era più disvelamento. Era obbedienza. Era obbedire alle decisioni del potere perché in quelle decisioni si esprimeva la verità, la cui obbedienza, inoltre, il potere esigeva e controllava… Nulla è più semplice del semplice atto di obbedire.

    La lettera ripercorre, con quello di Müller anche il cammino di Heidegger, che prende le distanze dal nuovo corso nazista dimettendosi dal rettorato ma continua a insegnare, a nutrire speranze nel nazismo:

    Siamo ancora in tempo […] Non si scoraggi. Il nazionalsocialismo è l’unico movimento capace di riconciliare l’uomo con la tecnica. Se questo riesce, ci saremo salvati.

    Heidegger che continua a pagare fino al 1945, le quote al partito e persino a indossare le insegne del Reich in pubblico:

    Karl Lowith, suo discepolo ebreo, andò, nel 1936, a riceverlo a Roma e si trovò davanti il Maestro che senza alcun disagio indossava il distintivo del Partito. Dovevamo farlo.

    heideggerEspatriato in Argentina, Müller non ha ancora chiuso la propria esperienza con il nazismo. Né con le ambigue «utopie» politiche: lo attendono le tante contraddizioni della nuova patria e il peronismo, del quale Feinmann mette in luce con acume le differenze e le somiglianze con il nazionalsocialismo nella nascita, nella sostanza l’uso spregiudicato degli intellettuali nella propaganda.

    Sarà il figlio, cresciuto, a difendere la sostanza umana e intellettuale del padre e a chieder conto a Heidegger del suo silenzio.

    Libro molto ambizioso e di grande interesse, L’ombra di Heidegger è il classico romanzo «difficile». Scomodo nel tema perché, nonostante la netta presa di posizione dell’autore, che non lascia spazio al dubbio, riesce a trasmettere la grandezza e il fascino di Heidegger, la sua modernità, la novità e la forza del suo pensiero; spesso chi legge vuole sentirsi riconfermare nelle proprie certezze, non proiettare in una sia pure feconda ambiguità. E scomodo nella struttura: due lunghi monologhi, prima quello del padre, poi quello del figlio, nei quali tutto accade dietro le quinte, e tutto ciò che accade, in fondo, è già noto.

    Ciò che realmente viene mostrato, e che vale la pena di seguire, è il travaglio interiore di Müller, la sua tragedia umana, che è quella di tanti intellettuali, sedotti, usati e, più o meno tardivamente delusi, dai tanti regimi totalitari del Novecento, da politici e da «uomini d’azione» che sul ruolo loro e dei pensatori non hanno mai avuto alcun dubbio:

    Lei è un uomo di idee. Le idee richiedono azione. E l’azione richiede uomini come me. Io e lei eravamo parte della stessa causa.

    Dice Werner Rolfe a Müller che ha ritrovato in Argentina. Una chiamata in correo forse non totalmente giusta, ma certamente non immotivata.

    Personalmente di L’ombra di Heidegger ho apprezzato maggiormente la prima parte, piena di ombre e felicemente ambigua e meno la seconda, appesantita dalle dissertazioni allusive su Sartre e da uno spiegamento eccessivo di conoscenze, quasi Feinmann intendesse dimostrare di avere le carte in regola per accostare Heidegger. Ho trovato stimolanti le pagine sull’Argentina e forse un po’ prolisse e tranquillizzanti le pagine sul «processo» intentato dal figlio di Müller al filosofo, piene di considerazioni ampiamente condivisibili ma unilaterali, Certo non poteva essere diversamente, Heidegger stesso ha deciso di sottrarsi a qualunque confronto.

    Un testo difficile da catalogare, al confine tra il saggio e il romanzo, che, nonostante qualche limite trasmette la passione per l’opera di un filosofo che fece dichiarare a Leo Strauss:

    Qui sta il grande problema: l’unico grande pensatore del nostro tempo è Heidegger. [la traduzione dall’inglese è mia].

    E un libro capace di appassionare la mente non è proprio poco.

    Interessante postfazione di Antonio Gnoli e Franco Volpi

    breslavia

    Nella Breslavia della primavera 1933, percorsa dalle prime ondate di razzismo e testimone dell’arroganza delle SA, è vice-capo della polizia criminale Eberhard Mock, ultraquarantenne mediocremente coniugato, appassionato di sciarade, patito degli scacchi tanto da giocare ogni venerdì notte erotiche partite con due delle più valenti e affascinanti ragazze del locale di Madame le Goeff. La notte di venerdì 12 maggio, però, il gioco del commissario Mock viene brutalmente interrotto: sul treno Berlino-Breslavia è stata violentata e orribilmente uccisa Marieta, figlia del barone von der Malten, potente affiliato alla loggia massonica di Breslavia e fautore della rapida carriera di Mock. L’omicida, che ha ucciso anche la governante di Marieta e un ferroviere, ha chiaramente inscenato un’esecuzione rituale.

    Funzionario abile e grande osservatore, Mock studia con passione colleghi, superiori, sottoposti e chiunque abbia occasione di conoscere durante le indagini. Non è razzista, giudica la gente per quanto vale e non si fa illusioni: ognuno ha qualche punto debole sul quale fare pressione, qualche segreto inconfessabile da mantenere, ognuno può essere sottoposto alla morsa di Mock. Del nuovo corso in Germania, il commissario non pensa bene ma non si scopre. Ma non apprezza affatto il fanatismo e l’insolenza delle SS, l’acquiescenza timorosa o, peggio, il sostegno dei piccolo borghesi alla dittatura e l’inerzia sprezzante degli junker.

    Il 31 gennaio (1933) Hermann Göring era diventato ministro degli Interni e responsabile di tutta la polizia prussiana, Un mese dopo un’altra camicia bruna, il Gauleiter della Slesia Helmuth Brückner, aveva fatto ingresso nell’imponente edificio del Governatorato di Breslavia […] Mentre nemmeno due mesi più tardi si era insediato al vertice della polizia Edmund Heines, circonfuso di una fama sinistra.

    Così, in breve, nella sede della kriminalpoliziei si installa la neonata Gestapo e i poliziotti migliori, intuendo nuove possibilità di fare carriera, vi si trasferiscono in massa. Colleghi ebrei fino a poco prima stimati vengono fatti oggetto di atteggiamenti razzisti e un infiltrato intoccabile della Gestapo viene inserito d’ufficio nella sezione criminale. E nelle strade dove, all’improvviso sono «apparse bande di ragazzotti inebriati dalla certezza della propria impunità, nonché dalla pessima birra Haase» sono cominciati gli arresti e le persecuzioni dei nemici del nazismo.

    Pressato dal padre di Marieta, Mock si trova davvero nei guai: se l’assassino dovesse risultare affiliato a qualche setta, come suggerisce la scena del crimine, i nazisti ne approfitteranno per trasformare l’omicida in una massone e liquidare i liberi muratori di Breslavia, come vogliono fare da tempo. Se l’omicida si rivelerà un pazzo, i nazisti vorranno farne un «antitedesco» di qualche genere e useranno Mock come docile strumento di propaganda. Preso in mezzo tra la pericolosa Gestapo e alleati ormai molto scomodi, Mock è fortemente tentato di inventarsi un colpevole ad hoc.

    Ma, apparentemente risolto con soddisfazione di tutti, l’omicidio torna d’attualità due anni dopo, quando von der Malten intima a Mock di trovare il «vero» assassino e gli impone come aiutante un detective berlinese abile, colto e sensibile ma totalmente inaffidabile a causa di un’infanzia tormentata e di una latente depressione che lo fa cadere sempre più spesso nell’alcolismo. Esiliato a Breslavia dai superiori e pronto a cogliere l’ultima possibilità di svolgere un lavoro che lo appassiona, il trentenne Herbert Hanwaldt si rivelerà un osso più duro di Mock per nazisti, massoni e fanatici vari, ma andrà incontro a un’agnizione che lo segnerà per sempre.

    Stimolante per l’ambientazione e per la figura ambigua del kriminalrat Mock, fondamentalmente né buono né onesto ma convinto che le cose vadano fatte nel modo giusto e capace di stupire persino se stesso con slanci di solidarietà verso Hanwaldt e per un nascosto desiderio di paternità, Morte a Breslavia non riesce a decidersi tra due generi letterari contigui; al noir che, attraverso l’inchiesta condotta dall’investigatore consumando le suole delle scarpe e rischiando la pelle, esplora un mondo e un tempo e, sporcandosi le mani con le passioni e le debolezze, porta alla luce il peggio e il meglio che convivono in ogni essere umano, si mescola il giallo-rebus, simile a un gioco d’abilità tra lettore e autore la cui soluzione, ben costruita sin dalle prime mosse, giunge inattesa ma non sorprendente.

    GestapoBWIneguale, ambizioso e a tratti cervellotico, il romanzo si snoda in numerosi rivoli – la dissolutezza venata di omosessualità di ricchi e potenti, il fanatismo e il sadismo uniti al conformismo da piccoloborghesi dei nazisti, le sgomitate dei funzionari disposti a far tacere la coscienza di fronte alle prospettive di carriera, l’esoterismo come filone sotterraneo del nazismo, la minaccia oscura che viene da molto, molto lontano… – tutti congruenti con lo Zeitgeist (toh, un’occasione appropriata per usare il termine…) ma francamente troppi, fino a rendere la scoperta del colpevole una semplice formalità.

    Notevole, fra i temi sfiorati, quello linguistico, passione evidente dell’autore, docente di filosofia antica a Breslavia: nel romanzo compaiono (e non tutti fanno bella figura) tre studiosi di lingue antiche, lo stesso Hanwaldt è stato uno studente molto interessato, e l’assassinio della baronessina è stato previsto, insieme a numerose altre morti violente, da un ebreo epilettico che profetava in antico ebraico. La ricostruzione delle profezie è veramente suggestiva, anche se, ai fini dell’indagine, onestamente superflua.

    A libro chiuso resta l’impressione di un romanzo generoso e di buona suggestione che, però, non abbia centrato il bersaglio. Morte a Breslavia deve alla Storia più di quanto le restituisca aiutando il lettore a comprendere e immedesimarsi. Ma forse è chiedere troppo, forse Krajewski è già soddisfatto di aver creato Mock, un personaggio riuscito, protagonista di altri tre romanzi, abbastanza interessante da meritare una seconda possibilità.

    José Pablo Feinmann, L’ombra di Heidegger

    Neri Pozza, 2007, ed. Or. 2005,
    pp. 181, € 15,00, Trad. L. Sessa

    Marek Krajewski,  Morte a Breslavia

    Einaudi Stile Libero, 2007,
    pp. 288,€ 15,50, Trad. V. Parisi Sessa

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