– Lasciami stare, voglio stare sola.
– Io ti amo, ma qualche volta ho bisogno di stare da solo.
– Mi sento solo!
– Ho fatto tutto da sola, sai!
– La pianura si stendeva silenziosa. Erano completamente soli.
In lingua inglese, i termini solitude, loneliness e being alone, legati dal comune denominatore della separazione dai propri simili, implicano sfumature molto differenti, anche se spesso confuse o mal comprese. In Italiano[1] la possibile confusione è anche peggiore perché spesso bisogna ricorrere a giri di parole e perifrasi («Non voglio gente intorno, soprattutto te!»; «sto bene con te e ritrovare me stesso me lo conferma»; «non ho nessuno vicino e ne soffro»; «ce l’ho fatta soltanto con le mie forze»; «intorno a loro non c’era anima viva»…)
Basandoci sui termini inglesi potremmo dire che being alone indica semplicemente un’oggettiva separazione fisica dai nostri conspecifici; solitude è il piacere di stare da soli, loneliness è la sofferenza di essere soli.
Non è necessario essere lontani da tutti per sentirsi soli, possiamo sentirci soli anche alla stazione, in mezzo a un fiume di gente indifferente, o in ufficio, incontrando una decina di colleghi che ci salutano cortesi e distratti; la temporanea separazione dal nostro prossimo è la medesima, sia che noi godiamo della nostra solitude, sia che noi soffriamo di loneliness, cambia semplicemente il nostro stato d’animo: nel primo caso percepiamo noi stessi come un’ottima, bastevole, compagnia, nel secondo ci sentiamo rifiutati dagli altri che ci hanno abbandonati e non si prendono cura di noi… Assaporando la solitude ci sentiamo pieni di forza, soffrendo di loneliness percepiamo un vuoto interiore; come scrisse Paul Tillich, «Loneliness esprime il dolore di essere soli, solitude ne esprime la gloria».
Dibattendoci affannati nella vita quotidiana, quasi mai siamo soli e troppo spesso ci manca perfino il tempo di riflettere sulla percentuale di solitude e di loneliness che proviamo in un determinato momento; soltanto in situazioni estreme, quando la sorte ci dà uno scrollone, siamo costretti a fare questo genere di conti.
Le buone storie, però, sono tali perché esaminano almeno una situazione estrema, una rottura dell’equilibrio preesistente: un pericolo, una prova, un lutto, un’iniziazione… Così non è strano che molti racconti e romanzi trattino di gente sola. Magari di quella particolare forma di separazione dai loro simili vissuta da uomini ormai maturi o già avviati sulla strada della vecchiaia…
Solo fra troppe donne…
Bunny Munro, il protagonista di La morte di Bunny Munro di Nick Cave, è un tombeur de femmes di mezza età, sposato e padre di un ragazzino, un piacione con un pizzico di genio, letteralmente ossessionato dalle donne e alcol dipendente. Venditore porta a porta di cosmetici nella zona di Brighton, Bunny conosce per lavoro, e spesso riesce a incantare, decine e decine di donne, di solito casalinghe, non di rado separate o single; giovani, meno giovani, decisamente mature, tutte meritano una seconda occhiata, per Bunny e tutte valgono un pizzico di sforzo. Priapico, la mente perennemente sintonizzata su pensieri erotici, Bunny trascorre una gran parte del suo tempo in auto, l’occhio che, ai semafori, accarezza glutei e tette delle passanti, la fantasia impegnata a immaginare ciò che non riesce a vedere e a paragonarlo alle sue due grandi passioni: la vagina di Avril Lavigne e il culo di Kylie Minogue. Munro usa senza scrupoli gli impegni di lavoro per giustificare in famiglia le notti trascorse fuori, i ritardi, le assenze. In realtà, mentre il figlio lo adora come un eroe, la moglie sa quanto lui valga, almeno da quando, due giorni dopo la nascita del figlio, il marito ha allungato le mani sulla sua migliore amica, perdendo la sua fiducia e inimicandosi per sempre i suoceri.
Incarnazione del più squallido dongiovannismo di provincia, del maschio usa e getta grezzo e ruspante, Bunny è un personaggio complesso, che e annega la solitudine dentro fiumi di alcol bevuto da solo o in compagnia di amici appena meno allupati e grezzi di lui e nasconde dietro il suo parossistico «darsi da fare» un senso di vuoto mai colmato, né dal rapporto irrisolto e rancoroso con il vecchio padre, né dall’amore, a suo modo fedele e devoto, per la moglie che per prima l’ha tradito assumendo il ruolo a tempo pieno di madre. I nodi vengono al pettine quando la moglie, si suicida con un’uscita di scena spettacolare e lungamente premeditata, un congedo attentamente calcolato per colpirlo che Bunny riconosce perfettamente per ciò che è.
I giorni seguenti, trascorsi da Bunny, venditore provetto, battendo i dintorni di Brighton con il figlio sempre più preoccupato a rimorchio, svelano al lettore ciò che sta dietro la maschera di cartapesta di questo seduttore da strapazzo: un farneticante fiuto per la solitudine femminile, una ricerca spasmodica di se stesso, un tratto autodistruttivo che va nutrito come un moloch, un’incapacità insanabile di tollerare l’intimità, prima di tutto quella con se stesso.
The Death of Bunny Munro è il secondo romanzo scritto da Nick Cave, leader dei Bad Seeds. Il primo, E l’asina vide l’angelo (1989). Tanto il primo romanzo era dark, allucinato, gotico e malato, quanto questo è brillante, pop, pieno di gesti banali – stappare una birra, far caciara con gli amici, scoparsi una tipa appena conosciuta – che, descritti con lucido distacco, sono un faro puntato sulla solitudine del protagonista (e ci inducono a riflettere sulla nostra). Il mondo di Bunny è pieno di auto colorate, motel, pub, giornate soleggiate, casette a schiera con interni prevedibili e troppo simili, ragazze in maglietta e shorts aderentissimi, glutei, tette. E di tutti i miracolosi prodotti per la pelle, le unghie e i capelli che Bunny riesce magistralmente a vendere alle proprie clienti mentre vende se stesso.
Ammirevole nel descrivere gli eccessi erotomani di Bunny e le vite banali di personaggi che somigliano ai nostri vicini e parenti, Cave dipinge con delicatezza e senza mai una sbavatura melensa il senso di straniamento, dapprima smarrito, poi sempre più consapevole, del figlioletto di Bunny, ingenuo ma lesto a imparare, l’unico che, spero, si salverà.
Un romanzo peculiare, che si apprezza appieno soltanto riuscendo a provare compassione per un personaggio esaltato e superficiale, detestabile a vista nella vita reale.
La storia di Nick Cave, benché diversissima nelle atmosfere e nei personaggi, mi ha fatto ricordare Il Margine, un vecchio film [2] – non del tutto riuscito e sicuramente un po’ calligrafico e didascalico – di Walerian Borowczyk: pochi giorni di pausa frenetica vissuti in apnea da un uomo ormai solo, soffocando nell’erotismo l’angoscia e la consapevolezza della fine.
Una ricca separatezza
Fin dal titolo, A single man, Christopher Isherwood (1964) gioca, per presentare il suo protagonista, sul doppio significato del termine single: solo, ma anche celibe. E solo e celibe è appunto George, professore di letteratura inglese all’Università di Los Angeles: solo perché Jim, suo compagno e amante, è morto mesi prima in un incidente automobilistico, solo perché, soprattutto psicologicamente, si trova al confine tra la mezz’età e la vecchiaia, solo perché gay. Ognuna delle sue peculiarità ne rafforza la solitudine rendendolo «diverso»: è un inglese – little enemy, direbbe Sting – portatore, secondo i colleghi e i suoi studenti, di una tradizione culturale più antica e meno pragmatica; è colto e raffinato e quindi intimidisce i vicini – villette a schiera, mariti impiegati in carriera, mogli casalinghe e un buon numero di marmocchi – che forse sospettano la sua omosessualità provandone fastidio, o forse la ignorano e/o non se ne curano, ma in ogni caso lo percepiscono estraneo.
Isherwood osserva George con distaccata partecipazione, descrivendone un’intera giornata, da quando apre gli occhi la mattina riprendendo lentamente coscienza di essere George, ormai un vedovo, a quando piomba nel sonno all’improvviso, dopo un giorno campale, pieno di esperienze, di riflessioni, di emozioni e sentimenti: la solitudine, una condizione ormai accettata ma che ha ancora il potere di mordere nel profondo quando gesti quotidiani come prepararsi la colazione paiono all’improvviso tanto differenti, ora che Jim non c’è più; l’orgoglio della propria diversità culturale, l’ironica consapevolezza di sé che permette George di guardare i propri studenti maschi contemporaneamente con l’affetto un po’ condiscendente dello zio, il desiderio e la passione intellettuale del vero insegnante. La vita affettiva di George, mutilata dalla morte di Jim ma non estinta, viene esplorata attraverso una serie i incontri: con i colleghi, gli studenti che gli sono più vicini, l’amica Charley, una quarantacinquenne sola e piena di problemi affettivi che si sfoga puntualmente con George, continuando a servire a entrambi alcolici che tirano su di morale e tagliano le gambe; con Kenny [3], uno degli studenti più interessanti, con il quale durante la giornata entra in un’intimità solamente spirituale, un miracolo comunicativo che va ben oltre le parole, un momento di lucida comprensione dell’altro che tutti noi, per nostra fortuna, abbiamo vissuto almeno una volta.
Un uomo solo è un romanzo introspettivo delicatissimo, un’intensa riflessione sulla vita e la solitudine che la attraversa, raccontato magistralmente e senza mai scivolare nel melodramma, suscitando più sorrisi che pena, perché George, dal dolore (come dalla quieta felicità di un tempo) e dalla propria diversità ha imparato la pazienza, la compassione e un filo di saggezza e pratica queste piccole virtù senza mai rinunciare a combattere con le armi di ogni buon professore: la capacità di seminare dubbi, di mostrare il rovescio della medaglia, di farsi sempre un’altra domanda[4].
Riletto a distanza di anni (la prima volta fu nel 2001) Un uomo solo mi è sembrato ancora più ricco e stimolante di allora; questa seconda volta ne ho apprezzato in particolare le riflessioni sull’arte di insegnare e la descrizione (Isherwood scriveva negli anni Sessanta!) dell’università come fabbrica di nuovi laureati/futuri cattedratici che perpetueranno il conformismo intellettuale premiando la capacità di allinearsi invece dell’originalità di pensiero.
Illuminante la metafora usata da George per definire il proprio ruolo di portatore di cultura a studenti che, nella maggior parte dei casi, non fertili dubbi ma risposte prosaiche e l’istruzione sufficiente a fare carriera nella medesima università dove hanno studiato:
Dio che ne sarà di loro? Che possibilità hanno? Deve urlargli, qui, ora, che non c’è speranza?
George sa di non poterlo fare. Poiché in un suo modo assurdo, inadeguato, involontario è un rappresentante della speranza. E la speranza è come un uomo che cerchi di vendere per strada un brillante vero per un nichelino. Il brillante è al sicuro da tutti salvo pochi eletti, perché la grande maggioranza che s’affretta non perderà mai tempo a credere che possa essere vero.
Grande Isherwood, uno scrittore che ha attraversato gli ambienti culturali d’avanguardia europei e americani dell’intero Novecento, stringendo amicizia e sodalizi intellettuali con gente della levatura di W. H. Auden, Stephen Spender, E. M. Forster (che gli fece da mentore), Aldous Huxley, Bertrand Russell, Jiddu Krishnamurti, Igor Stravinsky, Ray Bradbury e Don Bachardy [5] che gli fu compagno fino alla fine. Morì a 81 anni, nel 1986.
Solo in troppa compagnia
Londra, anni Cinquanta. Il colto e raffinato Frank, maturo protagonista di Tutto il bene del mondo di Joe Ackerley, ripubblicato quest’anno da Voland dopo molti anni di eclissi, è sull’orlo di una svolta che gli cambierà la vita. sta per avere una svolta. il (non più tanto) giovane velleitario e pieno di buoni propositi ma pigro e incapace di scegliere una direzione per la sua vita. Impastoiato in lacci da cui si è lasciato avviluppare per pigrizia e forza dell’abitudine, (moglie, figlio, figliastra, genitori), John pensa bene di svaligiare un appartamento e finisce in galera. Chi baderà alla famiglia di John? Frank, naturalmente: gente troppo diversa che lui si sforza di farsi piacere e che, ignorante e priva di risorse si aggrappa a lui spillandogli soldi e sfruttando più o meno consapevolmente la sua debolezza per John. L’unica creatura capace di vedere in Frank qualcosa di più di un solutore di problemi e di un modesto ma sicuro conto in banca è Evie, la splendida cagna alsaziana di John, forse l’unico amore paritario e disinteressato del ragazzo.
È facile immaginare che cosa abbia spinto John verso Frank: per quanto talvolta egoista, un po’ nevrotico, a volte incapace di appianare felicemente ogni difficoltà (come tutti noi) è un adulto, che prova a superare i problemi, è autosufficiente, ha un lavoro, dispone di un po’ di denaro ed è disposto a spenderlo anche per John, Ma che cosa ci vede Frank, in quel ragazzo irresponsabile, per quanto bello e accattivante? Frank in fondo non se lo è mai chiesto freddamente, ha semplicemente accettato il bel John come parte integrante della propria vita, vedendo in lui, così giovane, una specie di diamante grezzo, un discepolo, un amico e un amante.
Mentre John sconta la sua pena, il legame tra Frank e Evie si approfondisce, cementato dal comune amore per John dalla loro comune pazienza di aspettarlo. Poi il tramite di John scivola nel superfluo, il cane e l’uomo si sono riconosciuti e scelti. Con Evie la vita di Frank cambierà profondamente, anche dopo che John sarà diventato una semplice assenza.
Costruito intorno a un motivo centrale e a poche digressioni, Tutto il bene del mondo è un racconto sfaccettato e ricco, che ci spinge a riflettere sulla vera natura delle tante specie d’amore di cui noi umani siamo capaci, a chiederci se davvero la solitudine sia peggiore di una compagnia distratta, troppo condivisa e conquistata tradendo se stessi. Ma i rapporti sentimentali, anche quando si svuotano di senso e non bastano più, sono sempre vissuti in due: così, a libro chiuso, resta (ed è un pregio del romanzo) il dubbio che l’ombra di Frank sia stata un peso troppo grande per il più fragile John, e che la condivisibile insofferenza di Frank per l’appiccicosa parentela del ragazzo sia (anche) frutto del suo snobismo intellettuale… che potrebbe essere il nostro [6].
Ackerley fu amico di E. M. Forster, Wystan H. Auden, Christopher Isherwood, Virginia e Leonard Woolf.
Solo per scelta
Norvegia, novembre 1999. Trond, il protagonista di Fuori a rubar cavalli di Per Petterson, è un vedovo sessantasettenne in buona salute che lascia Oslo per stabilirsi in montagna, in una casa spartana che intende risistemare poco alla volta, facendo tutto da sé. Cittadino da decine di anni, non sempre sa fare i lavori manuali necessari, ma conta di «insegnare» a se stesso, ripensando a come li eseguiva (o a come li avrebbe eseguiti) il padre. Parlare poco, lasciare che il corpo impari o ricordi i gesti giusti, vivere in maniera semplice, a contatto con la natura, ridurre all’essenziale le informazioni sul mondo esterno… questi sono i propositi di Trond, che cautamente si fa accettare dalla gente del villaggio, non come il solito arricchito temporaneamente infatuato della campagna ma come uno che intende fermarsi.
Nelle ore di quiete trascorse in casa o a passeggio con la cagna Lyra, Trond – sospinto anche dall’incontro con Lars, il vicino di casa altrettanto chiuso e appartato, nel quale riconosce un bambino conosciuto cinquant’anni prima – rievoca gli avvenimenti dell’estate del 1948 che segnarono per sempre la sua vita. Era l’estate dei quindici anni, trascorsa in un villaggio lontano da Oslo, in una capanna di tronchi simile a quella miracolosamente ritrovata nel presente; una capanna semplice, condivisa con il padre in un’avventura da uomini dalla quale madre e sorella erano escluse, una sorta di iniziazione alla virilità. Di quel tempo l’uomo si è sempre portato in cuore il paesaggio grandioso che circondava la capanna: foresta, pascoli, una fattoria e qualche cottage sparso, il fiume che, poco lontano, piegava verso il confine addentrandosi in Svezia, verso Nord, nella taiga.
Pagina dopo pagina, Trond oscilla tra un presente di rituali quotidiani ripetuti in uno schema sempre uguale – la sveglia all’alba, la colazione frugale e sostanziosa consumata davanti alla finestra, la lunga passeggiata con il cane, il pranzo e i lavori di casa, la cena –, il passato di adulto, costellato di poche relazioni affettive (la prima moglie, una «fidanzata» che ha lasciato pochi ricordi, la seconda moglie morta da poco, come la sorella) e quell’indimenticabile estate. Tre personaggi, in particolare, tornano nei pensieri dell’uomo: il padre compagno, un uomo-ragazzo che, assecondando un amore alla Thoreau per la sobrietà e la natura selvaggia, ama spogliarsi dei panni di cittadino e intellettuale per vivere in semplicità e lavorare con le mani; Jon, il fratello di Lars, coetaneo e compagno di avventure; la madre di Jon, portatrice di una femminilità matura e insieme delicata che solletica la virilità tutta nuova del quindicenne e, con un’evidenza che turba Trond, affascina il padre.
Mentre i ricordi di Trond si intrecciano con il presente, il lettore ricostruisce poco a poco la vita del padre che, per combattere i nazisti, si era creato una seconda vita, ignorata perfino dalla moglie e dai figli, un genitore affettuoso e responsabile eppure capace, dopo quell’intensa estate nella quale mostra al figlio lati sconosciuti di sé, di sparire per sempre senza nemmeno congedarsi personalmente dalla famiglia.
Insieme storia di formazione e bilancio finale di una vita, Fuori a rubar cavalli è un romanzo concentrato e complesso che riesce nel miracolo di mantenere un duplice sguardo da adulto e da preadolescente e, con la voce discreta, mai inutilmente patetica, del protagonista-narratore tratteggia la vita di un uomo tanto segnato da quelle prime esperienze da diventare sfuggente, autoreferenziale, separato emotivamente dalle persone che pure ha amato o, più semplicemente, alle quali ha concesso di amarlo senza mai rischiare, senza mai abbandonarsi.
I personaggi, i vivi e i morti, sono credibili e ben descritti; quelli maschili paiono circondati da un alone di inconsapevole forza distruttiva e di indifferenza alle conseguenze del loro comportamento; quelli femminili vivono nell’ombra: la madre di Trond, che mai ha intuito la doppia vita del marito, reagisce all’abbandono senza opporre resistenza, vivendo per i figli ma ripiegata in se stessa, appesantita da un dolore irresolubile… la sorella della quale, nonostante l’affetto dichiarato, Trond non ci dice assolutamente nulla, l’energica e affascinante madre di Jon anche lei parte attiva della resistenza norvegese ma incapace di difendere Lars dalle pretese di Jon, le due moglie e la fidanzata che Trond racconta con distacco. Fra i due mondi, quello delle donne e quello degli uomini, la comunicazione pare impossibile: al di là del desiderio, della passione, non c’è confidenza, non esiste comunanza d’intenti.
Evitando un assurdo e dolciastro happy end Per Petterson lascia volutamente irrisolta la vicenda (forse, ed è l’unica pecca del romanzo, giungendo al finale in maniera un po’ troppo repentina): nonostante le tante riflessioni e i ripensamenti, Trond non giungerà a porre a Lars l’unica domanda che potrebbe davvero far luce sul passato…
Eppure, il lettore lascia il protagonista diverso da come l’ha incontrato grazie alla visita inattesa e insperata di una delle figlie; amata ma pur sempre estranea, almeno fino a quel momento, la figlia ricorda a Trond il loro passato in comune, il valore dei piccoli gesti discreti compiuti insieme, la necessità, che tutti ci accomuna (ma che in molti stentiamo ad ammettere) di essere, almeno ogni tanto, in compagnia, invece che arroccati nella nostra solitude.
In una recensione ricca di spunti [7],Aude Van Ryn ha sottolineato molto opportunamente le assonanze tra questo breve romanzo e la scrittura accurata e tesa di J.M. Coetzee. Il riferimento mi ha ricordato un grande romanzo dell’autore sudafricano: La vita e il tempo di Michael K.
Forza di una solitudine normale
Michael K. è un adulto silenzioso e povero, lavora come giardiniere avventizio, parla lo stretto indispensabile, non ha amici né fidanzate, vive il rapporto con la madre come dovere non eludibile, attraversa la vita degli altri come un’ombra. Michael ha l’intelligenza nelle mani, non ha rimpianti e non ha speranze perché non dispone di categorie mentali per esprimerli, dalla vita si aspetta soltanto di durare fino a quando riuscirà a risolvere le difficoltà materiali costruendo, modificando, aggiustando…
In un Sudafrica sconvolto da una guerra indefinita e senza schieramenti che pesa come un macigno sulla vita di tutti, la condizione «normale» di mancanza di felicità vissuta da Michael, dalla madre e da tanti come loro, si degrada in un’insopportabile infelicità che lo costringerà a rifugiarsi in montagna, lontano dagli umani e libero dai pensieri e dalle parole per esprimerli. La guerra lo stanerà anche da quel suo povero, rassegnato paradiso.
Costretto a prendere finalmente atto che non avrà mai la quiete della solitudine e che gli «altri» sono suoi simili, gli unici che potrà mai avere, Michael si rivelerà molto più contorto, complesso, pragmatico e adeguato a sopravvivere, di chi, disponendo di più strumenti, categorie mentali e rimpianti è abituato ad affidarsi alla rassicurante e ingannevole continuità del pensiero logico. Lento ma inarrestabile, Michael maturerà trasformandosi da mente «piccola» in una mente concentrata sul mondo.
Grandioso e pacatamente intenso, La vita e il tempo di Michael K. è una storia di solitudine primaria che buca la pagina, una denuncia delle brutalità di ogni regime e una lucidissima riflessione sulla forza e sui limiti della parola.
1 Solo –> Sin: appartato, puro, solitario, scompagnato, spaiato, isolato, separato, mero, unico, ritirato, abbandonato, singolo, emarginato, solingo || Contr: accompagnato, in compagnia, appaiato, composito.
In: <http://grammatica-italiana.dossier.net/dizionario-sinonimi-on-line/1447.htm>
2 Il Margine (Francia, 1976) tratto dal romanzo La Marge (1967) di André Pieyre de Mandiargues.
3 Nell’incontro con Kenny, Isherwood trasfigura il proprio incontro con l’allora giovanissimo Don Bachardy, il pittore che sarebbe stato suo compagno di vita fino alla morte dello scrittore.
4 Dal libro di Ishervood Tom Ford ha tratto A Single Man (USA – 2009), con Colin Fish e Julian Moore, in arrivo sui nostri schermi.
5 La relazione tra Isherwood e Bachardy ha ispirato il film-documentario Chris & Don: A Love Story, dei registi Tina Mascara e Guido Santi.
6 Questo libro ha ispirato un film, We think the world of you di Colin Gregg (1988), interpretato da Alan Bates e Gary Oldman.
7 New York Times Sunday Books Review, 24/06/2007.
Hanno detto della solitudine:
Leonardo da Vinci: E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo.
Carl Gustav Jung: La solitudine è per me una fonte di guarigione che rende la mia vita degna di essere vissuta.
Albert Einstein: Io trascorro la mia vita in quella solitudine per noi tanto penosa nella gioventù, ma così gradita negli anni della maturità.
Cesare Pavese: Si resiste a stare soli finché qualcuno soffre di non averci con sé mentre la vera solitudine è una cella intollerabile.
Karl Kraus: La solitudine sarebbe una condizione ideale se si potessero scegliere le persone da evitare.
Reiner Maria Rilke: Un buon matrimonio è quello in cui ciascuno dei due nomina l’altro custode della sua solitudine.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa: Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone.
Anonimo: Tu non capisci, per me la solitudine è una fonte, ma ci sei tu nella mia solitudine.
La morte di Bunny Munro,
Nick Cave
Feltrinelli, 2009, pp. 261, € 16,50
Trad. S. Rota Sperti
Un uomo solo
Christopher Isherwood
Adelphi, 2009, pp. 148, € 16.00
Trad. D. Villa
Tutto il bene del mondo
J.R. Ackerley
Voland, 2010, pp. 176, € 14,00
Trad. G. Tuccini
Fuori a rubar cavalli
Per Petterson
Guanda, 2010, pp. 244, € 16,00
Trad. C. Falcinella
La vita e il tempo di Michael K
J. M. Coetzee,
Einaudi ET, 2007, pp. 208, € 9,80,
Trad. M. Baiocchi
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