Peter Roos
Amare Hitler
Baldini Castoldi Dalai
«Piccola città / bastardo posto / appena nato ti compresi», cantava Francesco Guccini in Radici, rendendo in poche frasi la fatica di vivere in provincia. Fatica che ultimamente si è moltiplicata in maniera insostenibile se pensiamo al sindaco Gentilini di Treviso che propone di «chiudere gli immigrati nei vagoni piombati e rispedirli a casa loro», con il sostegno dichiarato di una buona quota della popolazione che ci si può augurare non sappia che i vagoni piombati sono stati utilizzati l’ultima volta in Europa per il disbrigo della Soluzione Finale, ovvero l’eliminazione degli Untermenschen.
Certo, la provincia è anche la sensazione di non essere soli (mai soli, secondo una lettura meno buonista), strade e luoghi a misura d’uomo, giardini puliti (infatti è bene eliminare le panchine per evitare che gli immigrati – i clandestini, i delinquenti – possano utilizzarle per riposare), moralità, ordine, rispetto.
Ma la provincia è anche il luogo delle paure più inconfessate, la culla dei pregiudizi che diventano giudizio e condanna, di un comune sentire che può mutare e degradarsi rapidamente in intolleranza per il diverso, lo strano, l’incomprensibile, l’estraneo.
È la stessa organizzazione sociale delle piccole città a renderle più permeabili al livore, all’insofferenza. Il gruppo di onesti cittadini che diventano quasi inconsapevolmente branco, scatenato contro un nemico fantasmatico, più immaginario che reale.
Farne politica e programma è soltanto il passo successivo. È sufficiente che qualcuno dia voce alla paura e al desiderio di rivalsa, che qualcuno si proponga come voce degli onesti cittadini turbati per sanzionare definitivamente l’ingresso della paura e dell’irrazionalità nell’universo politico.
Non facile liberarsi, poi, del loro linguaggio, dell’approssimazione pericolosa con la quale affrontano ogni problema, forti delle loro più o meno ipocrite convinzioni: «noi siamo onesti, siamo padri di famiglia, siamo lavoratori, siamo come te».
Questa dimensione dell’autodifesa basata su un’etica spicciola ed elementare è probabilmente il principale pericolo per le democrazie moderne, in Germania, come in Francia come in Italia. Non mancano gli esempi storici e di cronaca politica a confermarlo. L’immagine del vagone piombato di Gentilini è, insomma, molto più di un’immagine scelta per colpire gli interlocutori. Si tratta di un lapsus, o meglio di una traccia, di un simbolo, di un elemento del paesaggio intellettuale di tanta parte dell’Italia.
Amare Hitler (Hitler lieben) di Peter Roos, Baldini & Castoldi, è in primo luogo un libro su certa provincia, sui suoi ipocriti silenzi, sulla sua morale ristretta e meschina, sulla sua capacità inesauribile di produrre e riprodurre i propri miti e la propria visione del mondo: angusta, patriarcale e autoassolutoria.
Peter Roos è nato nel 1950 in una piccola città della Germania, cinque anni dopo la fine della guerra. Scopo del suo libro – autobiografia personale e sociale, pamphlet e confessione – è di afferrare le radici umane più profonde del nazismo, non in quanto dottrina politica ma in quanto sentimento del reale, prassi quotidiana, visione del mondo o Weltanschauung – per usare un termine caro ai teorici del nazionalsocialismo.
Racconto la storia dell’uomo qualunque tedesco.
Di come sia scivolato nel nazionalsocialismo, di come vi abbia partecipato, di come sia sopravvissuto al crollo del Reich Millenario, di come il popolo tedesco denazificato gli abbia permesso di sfuggire al nazismo, di come sia approdato alla nuova epoca.
E di come quest’epoca sia proseguita – fino a oggi.
A Roos non interessano le vite dei grandi gerarchi del regime, né il fascino sinistro del Führer. Interessano le vite minori, le storie di acquiescenza e di ribellione solitaria, motivate da storie personali, da propensioni, gusti, concezioni del mondo e del reale.
Sceglie tre vite. La vita di Hermann Gradl, infimo paesaggista, illustratore dei sogni agresti e fondamentalisti del nazismo vincente. La vita di Ilse Sonja Totzke, lesbica e amante di una donna ebrea, che finì per condividerne la sorte semplicemente perché riteneva che «gli ebrei sono persone come tutte le altre» e lo dichiarò davanti alla GeStaPo. Infine la vita (immaginaria) di Eva Braun, moglie di Hitler nel bunker nella Berlino del 1945, che Roos immagina sopravvissuta nella Germania del dopoguerra.
Hermann Gradl, insigne personaggio della cittadina di Marktheimenfeld am Main è il vanto del piccolo centro che gli ha dato i natali e lo ha visto diventare, negli anni del nazismo, direttore dell’Accademia d’Arte di Norimberga.
Il sessantesimo compleanno di Hermann Gradl viene celebrato alla stregua di una cerimonia pubblica dello Stato nazionalsocialista […] Già in occasione della grande esposizione di Norimberga in omaggio al pittore, Hitler aveva messo a disposizione i suoi Gradl […] I titoli di «Senatore del Reich» e di «presidente di Accademia» sollecitati dai norimberghesi vengono concessi senza problemi […] Era il pittore di corte di Hitler […] faceva parte anche lui dei «dodici artisti imprenscindibili» e dei venti «artisti eccelsi del nazionalsocialismo».
Nel 1946 il tribunale per la denazificazione lo designa come «simpatizzante» nazista, ovvero il grado più basso di responsabilità politica.
Se uno legge il fascicolo «Gradl» del tribunale di denazificazione di Norimberga […] giunge alla conclusione che l’accusato, l’artista, professore e direttore di accademia Hermann Gradl sia stato ingiustamente citato in tribunale. Un innocente che, contro la sua volontà, si è trovato in una non precisata situazione disdicevole in un’epoca apparentemente irta di difficoltà, che peraltro non è mai esistita […] Il nazionalsocialismo viene collettivamente rimosso e nascosto sottoterra. Rimasto quasi indenne e reso invisibile, resta attivo e continua a far sentire i suoi effetti […] E cinquant’anni dopo si vedono di nuovo gli zampilli del fascismo.
Ma che tipo di pittore era, Hermann Gradl?
Nei dizionari classici di arte figurativa […] Hermann Gradl viene presentato come artista dedito alla pittura architettonica e di genere, paesaggista e acquafortista. [Hitler e Gradl] erano entrambi pittori dilettanti frustrati e non erano riusciti a superare l’esame di ammissione in un’Accademia di belle arti. Le loro opere di grafica e pittura libera, infine, lasciano emergere la stessa tecnica, gli stessi motivi e la stessa visione del mondo.
Una visione del mondo elementare che esprime nostalgia per un passato arcadico e inesistente. Le opere di Gradl hanno titoli come L’aratore o Sentiero di montagna. Nascono ispirate dalla volontà di adeguarsi al gusto semplice del grande pubblico. Da furbo artigiano ben deciso ad accontentare il cliente sempliciotto.
Roos conduce una vera inchiesta, su Gradl. Riapre personalmente il suo caso e attacca la sua denazificazione. Raccoglie dati, prove, elementi. Li pubblica (dove può) ma nella piccola città le reazioni sono violente, al limite dell’isterismo di massa.
Le reazioni hanno rasentato livelli patologici. Il concittadino, il vicino di casa è divenuto il denigratore […] Chiamano uomini che mi minacciano di morte, che affermano di volermi liquidare, far fuori, togliere di mezzo. Parlano di liste. […] In città, dove tutti si conoscono, la gente cambia platealmente marciapiede quando mi incrocia. […] Il caso Gradl fa venire fuori tutto il marciume nazista nascosto nelle pieghe della società cittadina. […] Hitler è vivo.
Roos si rivolge alla stampa nazionale. Il suo caso interessa, muove le coscienze, provoca interventi e commenti.
Walter Bohelich, giornalista di Francoforte, commenta:
Se Marktheidenfeld non continuasse ostinatamente a celebrare Hermann Gradl e a essere fiera di lui, si potrebbe dimenticare questa vicenda; ma i suoi abitanti non possono pretendere le due cose insieme: il piacevole oblio e la gloria del passato. Poiché costituiscono una società chiusa, temono le dispute e si rifugiano nella calunnia. […] Finché però preferiscono sacrificare l’incolpevole Peter Roos piuttosto che riconoscere le colpe di Hermann Gradl – perché di colpe si è trattato – non si sposteranno di un centimetro da dove sono ora, ovvero dalla provincia più profonda.
La provincia, ancora la provincia. Paradiso del conformismo e dell’ipocrisia. Ordinata, regolare, per bene. Dove il parere di pochi personaggi influenti diventa automaticamente il parere di tutti.
Alla vicenda di Ilse Sonja Totzke, ricostruita attraverso un dossier della GeStaPo, Roos dedica meno spazio, ma non minore intensità. Ilse non si è occupata di politica, non ha mai preso pubblicamente posizione contro il nazismo. Conduce una vita «equivoca» e i suoi vicini sono pronti a denunciarla per acquistare qualche piccola benemerenza. Viene arrestata più volte. La polizia la minaccia con false accuse, denunce inventate. Ogni volta i verbali riferiscono della sue critiche alla politica razziale del nazismo. Ilse è spinta dall’emozione, dal sentimento. Per lei la sua compagna ebrea, e per estensione ovvia tutti gli ebrei, è una persona come tante. Il 5 settembre 1941 dichiara alla GeStaPo: «Non ritengo giusti i provvedimenti antiebraici. Non posso dichiararmi d’accordo con queste misure».
Minacciata di internamento in un campo di concentramento fugge con la sua compagna in Svizzera. I doganieri svizzeri la riconsegnano ai tedeschi. Nel 1943 viene rinchiusa a Ravensbrück dove muore.
Ultima parte, la meno serrata ma più irriverente, è la lunga confessione di Eva Braun all’autore. Un’Eva Braun che non riesce a riconoscersi nell’immagine che di lei è circolata, che ride dei miti del nazismo, lei che li ha visti da vicino come pochi altri. Racconta, è talvolta frivola, spesso crudele, mai pentita. Il bunker, Hitler sono parte della sua vita. Al mito nibelungico della fine del nazismo risponde raccontando delle flatulenze del Führer, delle sue manie, della sua miseria sessuale.
Parola per parola toglie ogni fascino al crepuscolo degli dèi nazionalsocialista. Ne fa una storia sordida, una tragicomica fissazione. Una storia di provincia.
È un libro prolisso, Amare Hitler, e tutt’altro che privo di difetti. Sbilanciato, nervoso, personale fino a creare qualche imbarazzo al lettore. Ma è anche un libro lucido, nato da una passione che unisce politica e umanità in un nodo impossibile da sciogliere. Gli ho dedicato tutto questo spazio, e non me ne scuso con i lettori, perché si tratta di un libro significativo, che esprime il disagio (qualche volta il puro e semplice orrore) nel riconoscere il fascismo in quelli che appaiono innocui comportamenti quotidiani, cattive abitudini, facili processi e facili assoluzioni. Costituisce un pezzetto di risposta alla domanda, ripetuta mille volte, sulla complicità, sul silenzio, sull’acquiescenza al regime nazista. Una risposta terribile, troppo vicina a noi e ai vagoni piombati del sindaco Gentilini e dei suoi (involontari?) complici.