Cresciuto nel periodo fra gli anni ’30 e ’40, così critico per l’Europa, Dagerman si riconobbe sempre negli ideali anarchici; scrisse intensamente e morì suicida a trentun’anni.
Freddo, sensibilissimo ai dettagli semplici che riassumono il sapore di una vita, indaga il precario equilibrio delle relazioni umane, le loro mille sfumature, gli equivoci, la nostra condanna a vivere ruoli resi rigidi dal peso del passato, dalle convenzioni, dalla superficialità. Armato di una prosa acuminata, nitida e dura come il ghiaccio, Dagerman evoca gli impulsi che ci possiedono e che guidano le nostre azioni, il dolore e la rabbia che abbiamo ricacciato in fondo alla mente e che – ignorati dalla coscienza – non ci abbandonano mai. E noi proseguiamo la lettura, irretiti dal gioco di specchi, riconoscendoci nei suoi personaggi, ben oltre le somiglianze. Eppure Dagerman non è mai nostro complice, non rende più felici, non tranquillizza, ci costringe a guardare il mondo in maniera obliqua, attraverso occhi bambini, con lo sguardo improvvisamente consapevole di una moglie rassegnata, di un amante sospettoso, di due turiste ingenuamente presuntuose.
I racconti più belli? Giochi della notte, delirio consapevole e cercato di un bambino, che tenta invano di ribaltare la propria impotenza rifugiandosi in minuziose fantasie; Lo sconosciuto, vertiginosa discesa nel pozzo, irto di lame, dell’abitudine; Carne salata e cetrioli, parabola pacatamente angosciosa della perdita dell’innocenza e della scoperta di una nuova dimensione dell’anima, non quella esaltante e seducente del peccato, ma quella – ben più triste – dello squallore, della meschina infelicità dei nostri simili.
Stig Dagerman, I giochi della notte, Iperborea 1996 (ed. orig. 1947) pp.157, € 12,00, trad. dallo svedese di C. Giorgietti Cima
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