Ho cominciato a leggere questo libro perché mi piaceva la copertina. E mi stuzzicava il titolo. Non solo, le parole «onirico», «favola gotica», «immaginario magico» mi hanno galvanizzato, tanto da indurmi a spendere 13 euro per entrare subito in possesso del libro senza imbarcarmi nella solita trafila: scrivi a CS, chiedi il libro-in-visione e aspetta che ti arrivi per posta. O, magari, parti per Torino e vai prenderlo personalmente.
No, avevo fretta, ero affamata. «Cara Alice Hoffman diventeremo amiche, me lo sento».
Prima di uscire dalla libreria mi è caduto l’occhio sull’ultima frase del retro di copertina: «Una delle nostre scrittrici più strane e interessanti» (il corsivo è mio), e la mia curiosità è diventata incontenibile.
Adesso ho finito di leggerlo.
«Ti è piaciuto?» mi chiedono.
«Beh…» (esitazione) «… insomma».
«Piaciuto o no?» insistono.
«Ecco…» (esitazione più lunga), «…»
Mosso a compassione il mio inquisitore si eclissa e mi lascia in preda delle mie perplessità.
Ma cosa non mi é piaciuto, in fondo, di questo libro?
L’attacco è ottimo, nulla da dire. Una vita ricostruita e rivisitata a partire da un indimenticabile evento che segna l’infanzia della protagonista.
Sembra di essere sul posto, letteralmente. La neve, il pavimento freddo sotto i piedi nudi, il fratello appena più grande che, imbarazzato, tenta di fingere che non sia accaduto nulla e riordina la cucina, la madre divorziata uscita la sera precedente, nonostante le pessime condizioni del tempo, per andare a una festa e là, forse, trovare una seconda possibilità, il rancore rabbioso di una bambina che si sente abbandonata. Nulla che non si sia già letto altrove ma reso senza una parola di troppo, con una determinazione e un nitore gelido che spingono a continuare la lettura.
Mantenere una tensione sufficiente dopo un esordio tragico – «tragico» nel senso classico di evento fatale e senza scampo – non è facile. Per niente facile. Tanto più dopo aver dichiarato fin dall’inizio che la protagonista (la bambina egoista e carica di rancore) dopo l’episodio vissuto nell’infanzia è diventata «La regina di ghiaccio», ovvero una creatura che si vieta di provare desideri, sentimenti ed emozioni.
Si compromette un po’ troppo, Hoffman, ed è costretta a rilanciare.
Divenuta adulta, bibliotecaria promiscua ma sola, la regina di ghiaccio si trasferisce in Florida dal fratello. Qui viene colpita da un fulmine che la rende oltre che ancora meno socievole, daltonica. Condannata a vivere in mondo in B/N prende a frequentare un gruppo di fulminati (in senso letterale) che si sforzano di tornare a una vita normale. Conosce un giovane sfiduciato e depresso e viene a sapere dell’esistenza di Lazarus Jones, un fulminato «morto» per quaranta minuti ma tornato in vita (il nome proprio avrebbe dovuto mettervi sull’avviso) e reclusosi nella sua fattoria.
Non procedo oltre nel riassunto, anche perché ho la sensazione che se continuassi finirei mio malgrado per inclinare verso un registro involontariamente comico-grottesco, tante sono le disgrazie e le sciagure che si abbattono sul piccolo gruppo di personaggi che popolano il romanzo.
Il problema è che se non si riesce a riassumere una storia senza provocare sogghigni, cachinni e risatine deve per forza esserci qualche difetto, nel libro.
Cercherò di essere cartesiana: La regina di ghiaccio si basa su un assunto iniziale («State attenti a ciò che desiderate») alcuni spunti più o meno felici o indovinati e, a intervalli più o meno regolari, ospita sinistri presagi, insondabili misteri, incontri rivelatori e ambigui simbolismi. Sembra, in sostanza, basato su un progetto attentamente sviluppato.
La parola «progetto» me ne evoca un’altra: «scrittura creativa».
Da «scrittura creativa» passo a «editing» e da qui a «mainstream».
Associazioni mentali che è arduo spiegare a chi non vive 24 ore su 24 nel mio cervello ma che hanno una loro coerenza. E che mi danno un un solo risultato.
Bufala.
Hoffman corteggia il fantastico, vi si arrotola e drappeggia, lo cavalca, lo abita per un po’ ma poi sceglie di non derogare alla regola d’oro dello scrittore professionista: «niente fantastico, se non vuoi essere confuso con uno scrittore di genere».
Ma nonostante l’impegno profuso e l’indubitabile maestria stilistica Alice Hoffman non riesce a rimanere felicemente in equilibrio tra l’onirico e il reale e la lunga catena di strane disgrazie e sgradevoli rivelazioni che riserva ai suoi personaggi non hanno nulla della leggerezza sognante e crudele di Angela Carter – il primo nome che mi viene in mente – ma sono semplici protesi drammatizzanti a una storia in debito di ossigeno da pagina 10 in poi.
Sono disciplinatamente giunta alla parola fine, ma di umore sempre più nero. Oltretutto la tendenza di Hoffman a sparare un sentenza («dire») tutte le volte che non ha tempo o voglia per «mostrare» – come insegnano Carver & O’Connor –, il ricorso alla suggestione della fiaba infantile (che si finisce per saltare frettolosamente) sembrano fatti apposta per irritare chi comincia a dubitare che tutte ma proprio tutte le disgrazie possibili si accaniscano su un piccolo gruppo di individui scelti a caso sulla carta degli Stati Uniti.
Tredici euro.
Nemmeno troppi, a pensarci bene.
Probabilmente posso recuperarne almeno cinque o sei rivendendo il libro al titolare di una bancarella – orbo e con solo tre dita a una mano – che è sempre pronto ad accogliere e perdonare le mie levate d’ingegno.
Orbo e con sole tre dita a una mano.
Effettivamente a volte la sfiga si accanisce, a pensarci bene.
Alice Hoffman
La regina di ghiaccio
Fazi, 2005
€ 13,00
trad. S. Nono
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