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    Magazzino

    Coltivare la solitudine

    • di Silvia Treves
    • Gennaio 11, 2012 a 9:18 pm

    di Silvia Treves

    Norvegia, novembre 1999. 

    Trond, il protagonista di Fuori a rubar cavalli di Per Petterson, è un vedovo sessantasettenne in buona salute che lascia Oslo per stabilirsi in montagna, in una casa spartana che intende risistemare poco alla volta, facendo tutto da sé. Cittadino da decine di anni, non sempre sa fare i lavori manuali necessari, ma conta di «insegnare» a se stesso, ripensando a come li eseguiva (o a come li avrebbe eseguiti) il padre. Parlare poco, lasciare che il corpo impari o ricordi i gesti giusti, vivere in maniera semplice, a contatto con la natura, ridurre all’essenziale le informazioni sul mondo esterno… questi sono i propositi di Trond, che cautamente si fa accettare dalla gente del villaggio, non come il solito arricchito temporaneamente infatuato della campagna ma come uno che intende fermarsi.


    Nelle ore di quiete trascorse in casa o a passeggio con la cagna Lyra, Trond – sospinto anche dall’incontro con Lars, il vicino di casa altrettanto chiuso e appartato, nel quale riconosce un bambino conosciuto cinquant’anni prima – rievoca gli avvenimenti dell’estate del 1948 che segnarono per sempre la sua vita. Era l’estate dei quindici anni, trascorsa in un villaggio lontano da Oslo, in una capanna di tronchi simile a quella miracolosamente ritrovata nel presente; una capanna semplice, condivisa con il padre in un’avventura da uomini dalla quale madre e sorella erano escluse, una sorta di iniziazione alla virilità. Di quel tempo l’uomo si è sempre portato in cuore il paesaggio grandioso che circondava la capanna: foresta, pascoli, una fattoria e qualche cottage sparso, il fiume che, poco lontano, piegava verso il confine addentrandosi in Svezia, verso Nord, nella taiga.

    Pagina dopo pagina, Trond oscilla tra un presente di rituali quotidiani ripetuti in uno schema sempre uguale – la sveglia all’alba, la colazione frugale e sostanziosa consumata davanti alla finestra, la lunga passeggiata con il cane, il pranzo e i lavori di casa, la cena –, il passato di adulto, costellato di poche relazioni affettive (la prima moglie, una «fidanzata» che ha lasciato pochi ricordi, la seconda moglie morta da poco, come la sorella) e quell’indimenticabile estate. Tre personaggi, in particolare, tornano nei pensieri dell’uomo: il padre compagno, un uomo-ragazzo che, assecondando un amore alla Thoreau per la sobrietà e la natura selvaggia, ama spogliarsi dei panni di cittadino e intellettuale per vivere in semplicità e lavorare con le mani; Jon, il fratello di Lars, coetaneo e compagno di avventure; la madre di Jon, portatrice di una femminilità matura e insieme delicata che solletica la virilità tutta nuova del quindicenne e, con un’evidenza che turba Trond, affascina il padre.
    Mentre i ricordi di Trond si intrecciano con il presente, il lettore ricostruisce poco a poco la vita del padre che, per combattere i nazisti, si era creato una seconda vita, ignorata perfino dalla moglie e dai figli, un genitore affettuoso e responsabile eppure capace, dopo quell’intensa estate nella quale mostra al figlio lati sconosciuti di sé, di sparire per sempre senza nemmeno congedarsi personalmente dalla famiglia.
    Insieme storia di formazione e bilancio finale di una vita, Fuori a rubar cavalli è un romanzo concentrato e complesso che riesce nel miracolo di mantenere un duplice sguardo da adulto e da preadolescente e, con la voce discreta, mai inutilmente patetica, del protagonista-narratore tratteggia la vita di un uomo tanto segnato da quelle prime esperienze da diventare sfuggente, autoreferenziale, separato emotivamente dalle persone che pure ha amato o, più semplicemente, alle quali ha concesso di amarlo senza mai rischiare, senza mai abbandonarsi.
    I personaggi, i vivi e i morti, sono credibili e ben descritti; quelli maschili paiono circondati da un alone di inconsapevole forza distruttiva e di indifferenza alle conseguenze del loro comportamento; quelli femminili vivono nell’ombra: la madre di Trond, che mai ha intuito la doppia vita del marito, reagisce all’abbandono senza opporre resistenza, vivendo per i figli ma ripiegata in se stessa, appesantita da un dolore irresolubile… la sorella della quale, nonostante l’affetto dichiarato, Trond non ci dice assolutamente nulla, l’energica e affascinante madre di Jon anche lei parte attiva della resistenza norvegese ma incapace di difendere Lars dalle pretese di Jon, le due moglie e la fidanzata che Trond racconta con distacco. Fra i due mondi, quello delle donne e quello degli uomini, la comunicazione pare impossibile: al di là del desiderio, della passione, non c’è confidenza, non esiste comunanza d’intenti.

    Evitando un assurdo e dolciastro happy end Per Petterson lascia volutamente irrisolta la vicenda (forse, ed è l’unica pecca del romanzo, giungendo al finale in maniera un po’ troppo repentina): nonostante le tante riflessioni e i ripensamenti, Trond non giungerà a porre a Lars l’unica domanda che potrebbe davvero far luce sul passato…
    Eppure, il lettore lascia il protagonista diverso da come l’ha incontrato grazie alla visita inattesa e insperata di una delle figlie; amata ma pur sempre estranea, almeno fino a quel momento, la figlia ricorda a Trond il loro passato in comune, il valore dei piccoli gesti discreti compiuti insieme, la necessità, che tutti ci accomuna (ma che in molti stentiamo ad ammettere) di essere, almeno ogni tanto, in compagnia, invece che arroccati nella nostra solitude.
    In una recensione ricca di spunti, Thomas McGuane ha sottolineato opportunamente le assonanze tra la scrittura di Petterson e quella di Knut Hamsun e di J.M. Coetzee.

    Fuori a rubar cavalli
    Per Petterson
    Guanda, 2010
    pp. 244, € 16,00
    Trad. C. Falcinella

    Qui un’intervista all’autore pubblicata sul Guardian
    Qui un’intervista riportata nel blog Vallum Adriani

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