Emil è un ragazzino rumeno di 13 anni giunto col padre in modo clandestino in Italia. Ha viaggiato su mezzi di fortuna, si è coperto con copie di Tex per ripararsi dal freddo. Su Texha imparato l’italiano e di entrambi si è innamorato.
Emil è un ragazzino che se la sa cavare ed è la sua fortuna, visto che è rimasto solo al mondo perché il padre è stato nel frattempo arrestato e rimpatriato. Lui ce la fa a sfangarla in qualche modo nella città di Torino in cui il destino l’ha portato. È diventato intanto ospite di un architetto, sembra che il mondo inizi a girare a dovere ma il suo pigmalione non è disinteressato come sembra e finisce per molestarlo e suscitare la sua reazione. Emil gli spacca il naso e fugge con un po’ di soldi. Parte alla ricerca del nonno, un particolare attore girovago le cui ultime notizie lo danno in Germania. Con un gruppo di compagni di viaggio di fortuna attraversa Germania e Spagna sempre alla ricerca di questo nonno particolare e sfuggente. Dopo varie peripezie e incontri più o meno pittoreschi i due si ricongiungono. Ma l’appuntamento è fissato per la mattina dell’undici di marzo alla stazione di Atocha a Madrid. La storia si interrompe qua. La cronaca ci parla di 16 vittime rumene nella carneficina di quel giorno. Al lettore scegliere tra la speranza o lo sconforto.
Il romanzo è narrato per lo più dalla soggettiva di Emil. Per essere un adolescente rumeno di 13 anni impiantato in Italia da poco tempo, il ragazzo ha una proprietà di linguaggio da far invidia a un universitario. Evidentemente Tex possiede qualche valore aggiunto che abbiamo sottovalutato. Nel romanzo ci sono degli inserti che vorrebbero aumentare la mimesi con il linguaggio di un ragazzino (ad esempio la frase che dà titolo al romanzo) ma è poca cosa.
Certo lo stupore che il lettore prova davanti alla maturità intellettuale di Emil è nulla, se paragonato a quello suscitato dalle prose liriche che gli invia il padre dal carcere rumeno o ai deliranti e sperimentali biglietti inviati dal nonno e che trapuntano qualche sezione del romanzo. Niente di grave, esistono precedenti letterari non da poco: penso al mostro di Frankestein che è un conversatore forbitissimo e non è praticamente mai entrato in contatto con un essere umano. Sicuramente, però, è un particolare che contribuisce a indebolire la credibilità della storia. Storia che però è fragile ed è minata in ogni punto, oltre che dal protagonista, anche dai personaggi di contorno, ovvero dagli stralunati e occasionali compagni di viaggio di Emil, predicatori di un no global da fumetto che fa di Geda un Pennac sabaudo e incredibilmente minore. In ogni caso questi perfetti sconosciuti alternativi si sentono in dovere di dividere la loro vita con il ragazzo senza nessuna ragione plausibile. È appunto questo voler creare personaggi dall’anima fintamente grigia – che poi è sempre candida o nerofumo – un altro «dettaglio» che ha reso questa lettura poco convincente.
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Daniel Pennac |
Certo ci sono le attenuanti: questo di Geda vuol essere un romanzo di formazione, oppure un romanzo di iniziazione, o magari una favola moderna. Qualcosa insomma che pur di sviluppare la propria tesi può permettersi di trascurare qualche grado di realtà. È così? Insomma cosa potrebbe essere davvero questo libro di Geda? Non so, credo che comunque lo si voglia inquadrare nelle sue ambizioni, il romanzo fallisca un po’ tutti gli intenti. Non che sia una lettura sgradevole o che sconsiglierei caldamente, anzi nell’odierno panorama italiano ha una sua dignità innegabile. In ogni caso mi sento di sminuire in modo netto la portata del suo impegno: c’è più ingenuità che sale. È uno scritto eccessivamente oleografico.
La vera morale del libro? Verrebbe da dire questa: «Chiunque voi siate, in qualsiasi meridiano del mondo vi troviate, state tranquilli: se incontrate uno di Torino vi pianificherà la vita e vi farà campare senza sotterfugi».
Fabio Geda
Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani
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