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    Magazzino

    Un istinto rigoroso per lo stile

    • di Silvia Treves
    • Maggio 7, 2012 a 6:12 pm

    di Silvia Treves

    La vita è arte, mistero, emozione, immagine. E questo lo dico io che sarei un razionalista intellettualmente, ma per fortuna sono abbastanza tonto da non essere del tutto razionalista. Ringrazierò sempre Dio di questa tontaggine animale…  Goffredo Parise


    Questa lucida autoanalisi definisce nettamente il profilo letterario di Goffredo Parise (1929–86), ricco di contrasti e di anomalie, nel panorama letterario italiano del dopoguerra. Debuttò giovanissimo, in pieno neorealismo, con Il ragazzo morto e le comete(1951), un’opera poetica, surrealista e visionaria, per la quale aveva categoricamente rifiutato ogni intervento di editing. Negli anni successivi, con la trilogia veneta (Il prete bello, Il fidanzamento e Atti impuri) raccontò realisticamente la provincia veneta immersa in una quotidianità ripetitiva intessuta di devozione religiosa, ipocrisia e calcolo politico, senza rinunciare a illuminarne aspetti più insoliti e sorprendenti. Fu sempre tentato dalle sfaccettature delle emozioni, dalle più sottili alle più inquietanti, come nei due Sillabari che gli valsero il premio Strega e nel suo ultimo romanzo, discusso e perturbante, L’odore del sangue, sensuale e violento, apparso postumo nel 1997.

    Insofferente a ogni «dovere» ideologico e politico ma non disimpegnato (partecipò giovanissimo alla Resistenza), fu scettico e refrattario alla retorica e a ogni buonismo ma curioso della gente e della vita. Caratteristiche che si riflettono anche nella scrittura giornalistica, nei vividi reportage di viaggio, come Cara Cina(1966), Due, tre cose sul Vietnam (1967) e L’eleganza è frigida (1982), dedicato al Giappone, nei quali emerge l’attrazione per i luoghi esotici e la curiosità un po’ disincantata per altre culture e altre vite che forse gli giungeva anche da un’adolescenza trascorsa a leggere prima Salgari poi Graham Greene e Somerset Maugham.

    Allora la tigre, l’enorme animale della Malesia, sollevò le zampe anteriori e guardò fisso nei fari. Così apparvero i sui occhi mongoli e bistrati, scintillanti di lame d’oro, di luce interna. L’automobile era ferma, noi due folgorati da quello sguardo.


    Anche i personaggi e gli scenari di queste brevi narrazioni e ritratti sono insieme esotici e familiari, anomali e umanissimi. Come l’antico, ricco compagno di scuola travolto dal disastro economico paterno, che trascorre la vita come metalmeccanico, sempre isolato, senza legami se non quelli laschi con qualche amico di un tempo, sospeso tra la saggezza e il nulla:

    … il resto, crediamo, io e Mercuzio, è molto silenzio per lui che sa, che ha visto: poco, non più di un palmo sopra le nostre teste.

    O come lo sfortunato, disgraziatissimo signor Tod, chissà perché molto apprezzato dal patrigno di Parise ma irrimediabilmente scialbo, che sparisce verso la fine della guerra per ricomparire disinvolto, con altro nome portando in dono un brillante per la moglie dell’amico…
    Svincolato dall’attualità, che pure resta consapevolmente sullo sfondo, descrive personaggi che esorbitano la normalità portando talvolta le stigmate della predestinazione, come la radiosa, pigolante Marilyn Monroe a fianco dell’elfo oscuro Truman Capote, incontrati nel 1961 al Morocco di New York:

    Con Truman Capote erano, a loro modo, una bella coppia. La stranezza dell’uno stingeva sull’altra con una tale simmetria da far pensare a quei lillipuziani, ma non vizzi questi, anzi molto strani e belli, che lavorano sempre in coppia nei circhi.

    Capace di legare in quattro parole luoghi e stati d’animo, come la fiabesca gargote Honorine e Raffatin, al fondo del boulevarde Saint Germain, piena di odore di tini e di ingredienti di cucina, dove andava a mangiare la sera presto, prima che si riempisse di clienti:

    Ma quel Beaujolais e quel pâté, sono certo, nemmeno quelli ritornano […] L’apprendimento è avvenuto, come accade con le lingue, di scatto, di colpo, quasi da un momento all’altro. E con l’apprendimento la vita, anche se solo dopo, molto dopo, si sa che è tutta la vita.

    Parise fu sempre fedele a una scrittura complessa ma non accademica, che accosta, senza passaggi intermedi, sentimenti ed emozioni estreme. Nello spazio denso e concentrato di poche pagine, l’autore evoca, con una scrittura che suscita invidia e ammirazione altri tempi e altri luoghi, inquadra le tendenze del secolo trascorso, anticipa, quasi candidamente, i verdetti della storia. Un distillato di senso che fa dire a chi legge: «Ecco, non l’avevo mai pensato, in questo modo». E contemporaneamente: «Sì, questo l’ho sempre saputo senza saperlo».
    A dimostrare che Parise non era un escapista ma un engagé troppo rigoroso per salvarsi l’anima con il consueto impegno dello scrittore, va ricordata questa sua dichiarazione, (Inquieto e anomalo anche come studente, Parise non terminò mai gli studi regolari) e riferita agli anni dell’immediato Dopoguerra:

    … mi pareva di dover rappresentare la libertà, il caos, su quella lieve spirale di fumo del romanticismo finito proprio pochi mesi prima tra le macerie. Mi attraevano le cose e la loro sostanza organica e non obbligatoriamente letteraria, l’odore della vita e delle sue stagioni, passando attraverso testi diretti. Mi pareva che la poesia dovesse assumersi la prosa e viceversa, mi pareva che il realismo, il naturalismo della letteratura italiana e non dovessero aprirsi e scomporsi al di là delle regole tradizionali… [1986, Università di Padova, durante il conferimento della laurea ad honorem]

    E di quegli anni, ormai trascorsi per sempre:

    Poi passarono gli anni e la libertà aveva fatto tutto quello che doveva fare. Aveva ricostruito le nostre vesti, il nostro paese. L’azione era finita, cominciava l’amministrazione. Per tutto. Conscio, subconscio, realismo e realpolitik, strategie e programmi, entrarono a far parte della letteratura, l’aria, il vento della libertà, la polvere delle sue macerie e il battito del mantello pneumatico cessarono e furono sostituiti dall’amministrazione…

    Ebbe i suoi grandi estimatori, Parise, tra i letterati che ancor oggi riteniamo grandi: Tra gli altri, Calvino, che volle scrivergli, nel 1973, il proprio apprezzamento per il Sillabario:

    Goffredo Parise con Pier Paolo Pasolini e Laura Betti

    Finché leggevo la tue dichiarazioni nei colonnini del «Corriere» potevo dire: ma sì, le solite cose che ogni tanto si dicono per cercare di scrollarsi di dosso l’intellettualismo di cui non possiamo liberarci, rimpiangendo un modo di raccontare che tanto ormai non riesce più a nessuno, perché è finito con i russi dell’Ottocento. Invece in pratica sei riuscito a fare qualcosa di diverso da come si faceva ieri e da come si fa oggi, proprio nel modo di costruire il racconto, di mettere a fuoco il vissuto attraverso alcuni particolari e non altri, e a dare un taglio alla prosa che è molto tuo e serve molto bene a quello che vuoi dire, insomma uno stile.

     
    Goffredo Parise 
    Lontano
    A cura di Silvio Perella
    Adelphi, PBA, 2009, pp. 126, €  11,00

    Le opere di Goffredo Parise 

    Parla Parise

     

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