Una delle difficoltà degli scrittori napoletani è quella di rapportarsi in maniera pacifica alla propria città. Come avremo modo di verificare nell’ambito di questa rubrica, molti dopo un’iniziale necessità di lasciare la città, hanno sentito forte il bisogno di ritornare con il pensiero ad essa. E lo hanno fatto molto spesso mostrando un coinvolgimento talmente intenso da dar luogo al sospetto che la loro sia stata una forma di risarcimento offerta spontaneamente per l’abbandono perpetrato.
È questo il leit-motiv che ha guidato Erri de Luca in Napòlide, libro da qualche mese uscito nei tipi di Dante & Descartes, con il quale lo scrittore prova a fare i conti con la difficoltà o meglio l’impossibilità a separarsi dal proprio luogo d’origine.
Nonostante la sua brevità, il libro è diviso in venti capitoli, ciascuno dei quali prova ad affrontare sinteticamente i momenti e i personaggi che hanno costruito il carattere passato e presente dei napoletani condizionandone spesso i quotidiani riferimenti.
Tuttavia, il distacco rimane il tema centrale intorno al quale ruota l’intero asse concettuale del libro. L’incipit del volume ci costringe immediatamente a entrare nel vivo della questione. Scrive De Luca,
si staccano così le foglie, i capelli, le gocce, le pagine. Me ne andai di casa nell’anno 1968, mio diciottesimo, dopo un’infanzia smaltita come una quarantena. Scelsi il treno, l’orario, non mi affidai al caso di un passaggio: volevo governare la partenza. Presi posto al finestrino e restai fisso a guardare fuori la processione del mio addio. Mentre mi staccavo, la città mi finiva sotto pelle come quegli ami da pesca che, entrati dalle ferite, viaggiano nel corpo, inestirpabili. Nel chiasso delle molte porte sbattute, la mia la chiusi piano.1
Nelle metafore dell’amo da pesca e della porta chiusa piano sono sintetizzati i due momenti che racchiudono l’estrema complessità di staccarsi dalle proprie radici, quando la vita, le esigenze quotidiane o gli obiettivi lavorativi costringono a cercare altrove la propria realizzazione.
Eppure nella attuale società globale, in un momento storico nel quale i rapporti spazio-temporali sono profondamente mutati, dandoci la sensazione di poter essere in ogni parte quasi come se fossimo animati da poteri sovrannaturali, la partenza, come il ritorno dovrebbero avere un significato meno importante e molto più relativo. Ma c’è qualcosa nell’atto dell’abbandono della propria città che rende nella maggioranza dei casi il distacco profondamente traumatico quasi come se non fosse più possibile il ritorno. Forse perché l’abbandono porta a una distanza temporale insolita prima del ritorno e ciò determina la perdita della quotidianità, degli insostituibili odori della propria infanzia, che nel frattempo cambiano. Scrive a questo proposito De Luca: «altri gas si sono sovrapposti: non riconosco più quelli della mia città d’origine, che trafficava materie di scarto e aveva grasso e cenere spalmati dal selciato ai tetti.»2
Con il tempo, quindi, sopraggiunge un imbastardimento olfattivo che rende gli odori meno importanti e meno riconoscibili. Anche la lingua assume con la separazione fisica una diversa rilevanza, fino a consacrare il distacco.
«Chi ha smesso di usare il dialetto – scrive De Luca – è uno che ha rinunciato a un grado di intimità col proprio mondo e ha stabilito distanze.»[3]
Quindi, malgrado per gli scrittori quelle da Napoli siano spesso, per dirla con Raffaele La Capria, «false partenze», ciò non riduce la portata traumatica dell’addio, anche perché in molti casi esso assume una forma simbolica che prescinde dalla lontananza spaziale e temporale che li separa dal luogo d’origine.
Tuttavia, l’abbandono, come è accaduto a Erri De Luca, induce a riflessioni più caute e meno dettate dall’emotività del momento. A distanza Napoli finisce per essere osservata in maniera più disincantata e questo accresce la lucidità d’analisi. Per cui, capita di accorgersi che al di là della grande immensa luminosità della città, «ci sono vicoli che vedono meno luce delle pareti nord delle montagne.»[4]
Si tratta di un’immagine volutamente tracciata da altri scrittori che hanno preceduto Erri De Luca, come Carlo Bernari che, nel 1934 nel suo romanzo d’esordio Tre operai, raccontò di una Napoli grigia più simile a una città tedesca che ad una mediterranea; o Anna Maria Ortese che in molte circostanze tentò di deprivare la città dei suoi miti ricorrenti, annullando i concetti soliti di generosità, luminosità, ilarità, innaturali per qualsiasi contesto se protratti al di là di ogni misura. Infatti, quest’operazione compiuta dagli scrittori non va vista come una forma di denigrazione della città, ma essenzialmente come un modo per renderla più «normale» e meno affidata ad immagini stereotipate.
Erri De Luca
Come abbiamo avuto modo di indicare ne La città verticale[5], Erri De Luca è lo scrittore nato nel dopoguerra che ha avviato la revisione critica della città, inaugurando ciò che opportunamente Luigi Lamberti, ha definito «una Napoli di ritmi nuovi.»[6] Fin dalla prima pagina del suo romanzo d’esordio del 1989 intitolato Non ora, non qui, attraverso la narrazione della vicenda personale, lo scrittore traccia la storia della città in quel periodo tanto affascinante, per il sogno che conteneva, quanto approssimativo, per i risultati ottenuti. Sono gli anni del «miracolo economico», quei mitici anni Sessanta che sembreranno segnare, almeno come fu percepito dalla maggioranza, la fine di ogni disagio finanziario.
Scrive De Luca:
fu quello un tempo di spiazzamenti, tra i miei nove e i diciannove, quando avvennero traslochi in migliori quartieri e la povertà finì d’improvviso insieme con l’infanzia. A casa nuova, la bella, non si parlò più di quell’altra condizione: una strada in discesa, la pioggia in cucina, gli strilli del vicolo. Dove abitavamo prima? In un’altra città. Si sentiva parlare il dialetto anche lì, ma era buia in fondo a un precipizio di scalini guasti[7].
Nelle pagine successive, Napoli non è più solo uno sfondo ma assurge a personaggio e in quanto tale ha il suo sorriso, i pensieri bui, l’eccitazione di ogni giorno, segnata dal mesto scorrere delle ore domenicali.
A me la città di domenica dava ansia. Negli altri giorni era normale il peso della folla, le macchine a pochi centimetri dai piedi, dove l’ingombro che si è gli uni per gli altri costringeva a continui scannamenti. Sulle facce della domenica il sorriso si guastava di un rammarico in più: anche oggi, anche qui. Il giorno di festa portava i più bruschi cambi di umore, anche tra noi[8].
Poi il ricordo personale si stempera, diviene fotografia di una realtà passata, ma sempre presente nella mente e nel cuore dello scrittore. Frammenti gracili, ma precisi, pieni di quel candore che solo lo sguardo infantile può trasmettere.
La luce del vicolo non arrivava a terra. Scendeva fino al primo piano a mezzogiorno, poi ritornava su. D’inverno restava più in alto. La casa era avvolta in un’ombra costante. Ogni ricordo è tenuto nella custodia di finestre opache, come se avessero sempre le tende tirate, e non avevano tende[9].
La descrizione ci riporta a quella più drammatica di Filumena Marturano[10], anche se, rispetto all’omonima commedia di Eduardo, nel romanzo di De Luca il quieto scorrere della memoria, sembra allontanare il lettore dal disagio profondo di una condizione. D’altra parte l’oscurità della vecchia casa contrasta con la luce intensa della nuova abitazione che tuttavia non migliora i rapporti tra le persone, quasi a dimostrare che la crescita economica non sempre è pari a una migliore acquisizione umana.
Nel gruppo di case appena costruite viveva una popolazione di sconosciuti reciproci. Nessuno diceva da dove veniva, sembravano tutti spuntati in quel luogo insieme alle case. Forse erano famiglie come la nostra, in cui le condizioni economiche erano improvvisamente migliorate. Non si poteva sapere. La consegna era di comportarsi come se si fosse lì da sempre[11].
Prende quota il modello piccolo-borghese, l’apparenza diviene più importante dell’essere. È la Napoli della seconda metà degli anni Sessanta che nei nuovi quartieri rende informe il contatto con gli altri in nome di una supposta rispettabilità.
Quella descritta da De Luca in uno dei racconti della raccolta In alto a sinistra, pubblicata nel 1994, è invece la Napoli del dopo-terremoto piegata dall’evento drammatico e massacrata dalla speculazione.
Nelle strade, nei larghi del quartiere Sanità, dov’era il cantiere, alzavamo muretti di tufo o in calcestruzzo, a sbarramento, a labirinto, obbedendo a una legge misteriosa che accumulava intralci. La città circolava sotto le impalcature, tra le serpentine create dai contrafforti, i vicoli sbarrati[12]
Ma la Napoli operaia, sulla quale l’io-narrante si sofferma, è anche una città a lui ignota, avvertita in uno sconcertante straniamento.
In altre città ero stato uno di Napoli, bastava agli altri e a me quella provenienza. A Napoli non mi era accreditata. Tra gli operai della mia lingua ero accolto come un forestiero. Ero per loro uno di altre città, su di me la fatica aveva lasciato altre pose, altre usanze. All’ora scaduta lasciavo il lavoro al punto in cui era, mentre gli altri regalavano ancora un po’ di braccia al tempo già venduto. Allora un saluto brusco bastava per andare a lavarmi. Si è stranieri sul posto, proprio dove si è nati. Solo lì è possibile sapere che non esiste terra di ritorno[13]
Il libro di De Luca dove, però, Napoli è maggiormente presente è senz’altro Montedidio. Qui essa non compare solo nelle descrizioni o nei tanti riferimenti toponomastici, ma la si percepisce anche nell’atmosfera interiore, nella gestualità dei personaggi e nel loro modo di guardare la realtà. Un sentimento d’amore profondo sembra unire lo scrittore alla sua città. Non a caso nel 2002, quando ricevette in Francia il prestigioso premio «Femina», riservato al migliore scrittore straniero, senza esitazione nel discorso di consegna, Erri De Luca affermò: «più che un omaggio al mio romanzo, il premio che ho ricevuto è un omaggio alla vitalità inverosimile della mia città.»
Quella di Erri De Luca in Montedidioè una Napoli radiosa nella sua povera e brulicante folla, dove «non c’è spazio per stendere un panno.» L’io-narrante è un giovane tredicenne il quale, finita la scuola dell’obbligo, va a bottega da mast’Errico per imparare il mestiere di falegname. Anche perché, afferma il giovane protagonista del romanzo,
qua intorno i bambini vanno a lavorare pure senza scuola, babbo non ha voluto. Fa lo scaricatore al porto, non ha studiato, solo adesso sta imparando a leggere e scrivere alle lezioni serali della cooperativa degli scaricatori. Parla il dialetto e ha soggezione dell’italiano e della scienza di quelli che hanno studiato[14].
La città raccontata in Montedidioè la Napoli popolare degli anni successivi alla seconda guerra mondiale, legata fortemente e unicamente alla propria tradizione culturale e dialettale, così come traspare dalle parole della mamma del protagonista:
– nuie simmo napulitane e basta. – Ll’Italia mia, dice con due elle di articolo, ll’Italia mia sta in America, addò ce vive meza famiglia mia. – A patria è chella ca te dà a magna’, – dice e conclude. Babbo per scherzare le risponde: Allora ‘a patria mia si’ tu[15].
Napoli è scrutata attraverso la sua gente, il suo modo di comunicare e nella fissità espressiva che accompagna la quotidianità collettiva. Interessante a questo proposito quanto De Luca sostiene sulla ripetitività dell’uso della parola sangue. Qua, fa dire al suo personaggio lo scrittore,
sono fissati col sangue, la gente lo mette dentro le bestemmie, dentro gli insulti, se lo mangia pure cotto e poi lo va a venerare dentro le chiese. Specialmente le donne tengono la frenesia di nominarlo, ‘o sang. E pure il sugo della domenica è così scuro, spesso, che gli rassomiglia[16].
Non mancano nel libro le espressioni colorite che danno una decisa comicità alla storia oltre a mostrare la capacità del dialetto di sintetizzare i concetti. Quando arriva ad esempio il padrone di casa alla bottega a riscuotere la pigione, mast’Errico vedendolo arrivare afferma: «vene chillo che tene». E poi quando l’uomo, incassato l’importo esce dal negozio, continua: «al vecchio gli prode il coperchio, con tutta l’avarizia che tiene è la prima volta che non si mette a contare i soldi[17]»
Oltre al sorriso, Napoli genera inquietudine, talvolta rabbia, ma sempre poesia ed ecco allora che un insolito abbassamento della temperatura stimola un momento lirico: «vengono belle sere fredde, sbattute dal vento che scavalca il Vomero e san Martino e passa sopra Montedidio prima di strofinare il mare[18].»
La bellezza della città continua a trasmettere nei suoi figli la sua infinita, ammaliante poesia come avviene nella scena in cui il protagonista decide di fare una passeggiata con la fidanzata.
Il pomeriggio è libero, dico a Maria di andare insieme a piedi a Mergellina dove c’è il molo allungato sul mare e in fondo al molo c’è un faro e la scogliera, dove uno può stare all’aperto ma senza la città intorno. Voglio andare lì perché le case, le strade smettono tutt’insieme e d’improvviso non c’è più Napoli. Il largo del mare, il suo sconquasso la nascondono, basta che uno s’incammina sul molo, Maria mette il cappotto, la sciarpa e già sta sulla porta, la sua prontezza è una carezza nelle ossa. Sul lungomare le compro il tarallo sugna e pepe, il vento ci porta via il nostro caldo, noi lo rimettiamo camminando svelti, poca gente s’arrischia a passeggio, dei soldati americani con le scarpe di gomma vanno di corsa, la portaerei nel golfo è l’unica nave che non si muove sopra il mare bianco, stracciato sulla cresta delle onde[19].
veduta di Chiaia e Monte di Dio
De Luca mostra di essere uno scrittore di razza per la capacità di coniugare gli elementi, di «dosare» gli ingredienti senza che i personaggi o la sua condizione emotiva prendano il sopravvento. Egli, infatti, riesce ad accostare con notevole maestria il dato documentale a quello lirico senza sfociare mai nella retorica. Infine, nei libri che hanno attinenza con Napoli[20] non indugia mai sulla recita della napoletanità, asso nella manica degli scrittori della prima parte del Novecento che, con la complicità delle case editrici, hanno troppo spesso affermato un sottoprodotto culturale piuttosto che sollecitare un dibattito serio sulle problematiche della città. Un’operazione assolutamente negativa che nelle sue forme estreme ha generato un inevitabile straniamento anche nell’immagine del lettore non napoletano il quale, talvolta con non poche ragioni, ha sviluppato sulla base di ciò che leggeva, un’idea surreale della città, distante da ogni riferimento razionale. Se consideriamo che televisione e giornali hanno poi suggellato lo stereotipo negativo o positivo che sia, ma pur sempre stereotipo, forse riusciamo a comprendere quanto l’immagine della città appaia tuttora ingessata e aperta ad ogni forma di strumentalizzazione politica e culturale.
Note:
1 E. De Luca, Napòlide, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2006, p. 5
02 Ibidem, p. 10
3 Ibidem, p. 20
4 Ibidem, p. 69
5 Cfr. M. Prisco, La città verticale. Napoli nella letteratura dagli ultimi decenni dell’Ottocento al nuovo millennio, Oèdipus, Salerno 2006
6 L. Lamberti, «Erri De Luca», in F. D’Episcopo, L. Lamberti e P. Lamberti Sorrentino, Napoli salvata dagli scrittori, vol. II, Tempolungo, Napoli 2002, p. 15
7 E. De Luca, Non ora, non qui, Feltrinelli, Milano 1994, p. 7
8 Ibidem, p. 10
9 Ibidem, p. 62
10 Afferma Filomena ricordando il suo passato: «Avvoca’, ‘e ssapite chille vascie… i bassi.. ‘a San Giuvanniello, a ‘e Virgene, a Forcella, ‘e Tribunale, ‘o Pallonetto! Nire, affummecate… addò ‘a stagione nun se rispira p’ ‘o calore pecchè ‘a gente è assaie, e ‘e vierno ‘o friddo fa sbattere ‘e diente… Addò nun ce sta luce manco a mieziuorno…» (E. De Filippo, Filumena Maturano, atto II, in La cantata dei giorni dispari, vol. I, Einaudi, Torino 1971, p. 200)
11 E. De Luca, Non ora, non qui, op. cit., p. 72
12 E. De Luca, In alto a sinistra, Feltrinelli, Milano 1995, p. 36
13 Ibidem, p. 41
14 E. De Luca, Montedidio, Feltrinelli, Milano 2001, p. 7
15 Ibidem, p. 20
16 Ibidem, p. 68
17 Ibidem, p. 71
18 Ibidem, p. 74
19 Ibidem, p. 127
20 Ricordiamo che Erri De Luca è da anni impegnato in uno studio rigoroso di ermeneutica biblica.