di Davide Mana
Qualche tempo fa (mesi o anni – la macchina editoriale gioca col tempo), il primo ministro giapponese si è presentato alla stampa in maniche di camicia – un’infrazione all’etichetta notevole, in un paese formale come il Giappone.
Il signor Koizumi ha poi spiegato agli astanti che il progressivo riscaldamento del nostro pianeta è anche provocato dall’uso eccessivo di condizionatori. Se tutti si presentassero al lavoro senza giacca, ha detto, si potrebbe abbassare la regolazione dei condizionatori, risparmiare energia e fare qualcosa per tamponare il riscaldamento globale.
E i salariman giapponesi si sono tolti la giacca, come un sol uomo, e hanno abbassato il termostato.
È una goccia nel mare, certo, ma come fa notare David Mitchell nel suo ultimo romanzo, il mare non è forse fatto di gocce?
E dire che Koizumi-san non mi era neanche mai stato molto simpatico.
Il dibattito sugli effetti dell’attività umana sul clima ha avuto inizio – mentre nessuno guardava – nei primi anni Settanta del secolo scorso.
Progressivamente e prepotentemente, due idee si fecero strada, prima fra gli studiosi e successivamente, in maniera forse non sempre corrette o completa, fra il grande pubblico.
La prima idea è che la variabilità climatica non sia un fenomeno semplice, a scala stagionale, parte dell’esperienza quotidiana di quasi ogni abitante di questo pianeta; il clima è variabile attraverso il tempo, e i lunghi periodi estremi (un esempio tipico, le glaciazioni) non sono episodi nettamente separati, ma stadi, fasi di un cammino lungo e continuativo.
Delle due, questa è l’idea che ha avuto finora l’impatto minore sulla vita di tutti i giorni dell’uomo della strada, ma è probabilmente la più importante, insieme col suo corollario di complessità – il clima non è il semplice prodotto di un moto astronomico e un irraggiamento solare, ma è il risultato della combinazione di molti meccanismi diversi, a scala (spaziale e temporale) diversa; difficile da prevedere e impossibile da governare, è la barca su cui tutti noi ci troviamo, che ci piaccia o meno.
La seconda idea prepotente entrata a far parte del nostro patrimonio culturale è invece quella che l’attività umana su questo pianeta, negli ultimi quindicimila anni, abbia avuto e abbia tuttora un impatto ambientale non trascurabile; l’umanità influenza il clima, ci dicono, e lo influenza in peggio.
Questa seconda idea è all’origine dei Protocolli di Kyoto, delle marmitte catalitiche e dello standard Euro4, di film come L’alba del giorno dopo e di romanzi come Stato di paura di Michael Crichton.
E forse qui sta parte del problema – perché questa seconda idea è stata a tal punto sbandierata, a tal punto ripetuta, spesso con toni apocalittici fuori luogo, che il pubblico (anche il pubblico più intelligente) se ne è stancato. Dopotutto, sono trent’anni che profeti più o meno accreditati annunciano l’incipiente fine del mondo, e tutto sembra invece andare benissimo.
È ormai facile presagire un futuro difficile per la causa della conservazione ambientale, di fronte alla disaffezione dimostrata dal pubblico nei paesi ricchi (gli unici che potrebbero fare una differenza) e la controffensiva ideologica attivata da alcune lobby politico-imprenditoriali attraverso gruppi di ricerca addomesticati ma a elevatissimo profilo.
In capo a una decina d’anni, preoccuparsi del riscaldamento globale, dei gas serra e della progressiva perdita di biodiversità non sarà più socialmente accettabile.
Già escono romanzi in cui gli ambientalisti sono dei masnadieri.
In fondo, ci avevano promesso la catastrofe e questa non è mai arrivata.
Segno che esageravano, giusto?
Facevano del terrorismo.
L’idea che la scadenza sia stata rimandata perché pochi (ma abbastanza) hanno finora prestato attenzione a quelle profezie catastrofiche – varando Protocolli o semplicemente togliendosi la giacca – non sembra sfiorare i sempre più vocali sostenitori del disimpegno ambientale.
Forse si tratta di un ragionamento troppo sottile.
Ma rimane il problema costituito della complessità, e dalle conseguenze della evidente ciclicità delle variazioni climatiche, e semplicemente chiudere gli occhi e dirci che tanto non è colpa nostra non servirà a nulla.
Per farci un’idea di come e perché il clima sia ancora una pistola puntata alla testa della nostra civiltà, Codice pubblica il bel volume (uscito nel 2004 in originale) dell’archeologo Brian Fagan.
Si tratta di una classica edizione Codice, curata e piacevole, anche se un po’ costosa (ma l’impressione è che tutti i libri seri, ormai, siano alquanto pesanti sul bilancio); la traduzione non è proprio perfetta, ma nonostante un paio di brutture il testo è scorrevole e l’argomento interessante anche per chi non soffre d’ansia da degenerazione climatica.
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Brian Fagan |
È un libro di archeologia, di quelli sulle antiche civiltà scomparse, quello che ci presenta Fagan, ed è qui l’astuzia della sua trovata.
Perché, per cambiare, Fagan non si concentra sugli effetti delle attività umane sul clima, ma sull’esatto opposto – gli effetti del clima sulle attività umane.
Tracciando una storia climatica della civiltà umana, da circa 20.000 anni or sono a oggi, Fagan porta avanti l’ipotesi – che sarà antipatica a molti – che la nostra civiltà sia il prodotto di scelte compiute dai nostri antenati per fronteggiare le variazioni climatiche e in particolare il surriscaldamento della Terra a partire dall’ultima fase glaciale.
Esiliati su un mondo nel quale i ghiacciai si stavano ritirando, e con loro le grandi mandrie di mammut e bisonti lanosi, i primi abitanti della terra (una banda sparuta e malandata), dovettero decidere una strategia di sopravvivenza.
E così, con un occhio al barometro e l’altro a vasti eventi geologici che attivano o disattivano i termostati del nostro pianeta, Fagan ci conduce dalle bande di cacciatori subartici ai primi cacciatori-raccoglitori, passando per la scoperta di ago e filo (abiti migliori, miglior risposta ai cambiamenti del tempo) e la creazione dei primi cicli mitici (storie tramandate per generazioni di antiche cacce). Eventi sull’altro lato del globo rendono fertile la Mezzaluna Fertile, e i cacciatori-raccoglitori diventano agricoltori, fondano città, nazioni, imperi.
Il tempo atmosferico, tuttavia, non è bello o brutto, in Fagan, ma solo una forza darwiniana che agisce sulla civiltà, operando a volte come una pompa, che aspira forme di vita in questa o quell’area, a volte come il motore di vasti nastri trasportatori, che ridistribuiscono le risorse sul pianeta.
Gli uomini si adeguano, le società cambiano, gli imperi collassano, le città muoiono davanti all’avanzata della siccità.
C’è poco di consolatorio o di autocongratulatorio ne La lunga estate.
Se è vero che la tendenza al riscaldamento si è impostata ben prima della comparsa della civiltà, figuriamoci poi del motore a scoppio (ripetiamo tutti in coro: «Allora non è colpa nostra!»), è innegabile che l’attività umana abbia portato a concentrazioni di gas serra del 20% superiori a quelle previste dai modelli.
E il vero problema non è quello.
Non si tratta di stabilire se la vostra auto incida sulla desertificazione del Maghreb (o più vicino a noi, di una buona parte della Sicilia).
La questione, e Fagan ce lo dice chiaro e tondo fin dall’introduzione, è che mano a mano che il clima si assestava su una tendenza calda, la nostra civiltà si è assestata su un modus vivendi che ha ricavato, da quella tendenza, il massimo vantaggio.
Quando il cambiamento climatico arriverà (e non si tratta di stabilire se arriverà, ma quando), molto probabilmente il modello di società corrente non sarà in grado di far fronte all’emergenza.
La civiltà umana crollerà, come ne sono crollate altre in passato.
Nella corretta, anche se agghiacciante definizione di Jared Diamond (che ha battuto lo stesso terreno di Fagan, a una scala diversa, nel suo recente Collapse), in passato molte civiltà hanno deciso di non sopravvivere.
La nostra è sulla stessa strada.
Con un piccolo extra per i nostri incubi, a differenza delle civiltà suicide del passato, la nostra sta per estendersi a tutto il pianeta, a ogni suo abitante.
Quando (non «se») arriverà il collasso, non ci saranno sopravvissuti.
Finora, infatti, la salvezza del genere umano è stata garantita dagli «altri» – quelli che vivevano fuori le mura e oltre i confini, i barbari, quelli che non erano cittadini dell’impero, che stavano nei boschi o fra le colline e si potevano fare avanti, smagriti erazioni dopo il crollo, per ricominciare da capo.
Colpiti ma non travolti dalla crisi, temprati dalla sopravvivenza a condizioni miserevoli, spesso questi pochi individui potevano ripopolare un continente in una mezza dozzina di generazioni.
Ma ormai quei piccoli gruppi non esistono più, sono in via di omologazione o si stanno estinguendo.
Non solo la nostra civiltà ha deciso di suicidarsi (non fate quella faccia, lo ha deciso quasi settemila anni or sono, in Mesopotamia, quindi non è colpa vostra) ma ha deciso anche (e molto più recentemente, e qui è meno facile scaricarsi la coscienza) di pagare a tutti gli abitanti del pianeta il biglietto di sola andata verso l’oblio.
Succede.
È già successo.
Leggere La lunga estate è al contempo un esilarante viaggio nelle conquiste dell’umanità, e un severo monito riguardo alla prossima fermata in questo viaggio di conquista.
Il tomo, con una copertina arancione falsamente garrula, costituisce con il già citato Collapse di Diamond (che è stato tradotto in italiano presso Einaudi) e con The Axemaker’s Gift di Burke & Ornstein, il nucleo di una letteratura divulgativa importante e meritevole, e un ciclo di letture consigliatissimo per tutti coloro che negli ultimi anni avessero deciso di firmare con se stessi un bello scarico di responsabilità riguardo al nostro pianeta e ai suoi abitanti.
Fagan ci racconta come il clima abbia modellato la nostra civiltà.
Burke & Ornstein dimostrano come trovare soluzioni ai problemi (anche e soprattutto «pilotati» dal clima) abbia modellato la nostra mente, e come al contempo ogni soluzione comporti la nascita di una nuova classe di problemi.
Diamond traccia l’ascesa e la morte di una quindicina di civiltà, tutte potenti, floride, di grande successo, consapevoli della propria condizione.
Proprio come la nostra.
Brian Fagan
La lunga estate
Codice, 2008
pp. 324, € 29,00
trad. Aldo Conti
da LN-LibriNuovi n. 35 – Inverno 2005