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    Golem

    Il sesso del cervello e altri pre-giudizi scientifici

    • di Silvia Treves
    • Agosto 19, 2012 a 7:14 pm

    di Silvia Treves

    le domande dirigono la ricerca definendo che cosa debba valere come fatto significativo e in che cosa consista un resoconto esauriente e adeguato di un fenomeno.
    Elizabeth Anderson

    L’adesione a questo o quel modello è fortemente influenzata dai valori e da altre caratteristiche contestuali. I modelli stessi determinano l’importanza e l’interpretazione dei dati
    Helen Longino

    L’interrogativo fondamentale del libro può essere riassunto in questi termini: esistono differenze significative nelle capacità intellettuali, sociali, emozionali e fisiche di uomini e donne, a prescindere dall’epoca storica e dalla società a cui appartengono? Se fossero scientificamente dimostrate, tali differenze dovrebbero essere considerate innate oppure acquisite?


    Così l’antropologo Maurice Godelier ben riassume il tema di Il sesso del cervello, agile e ben documentato saggio della neurobiologa Catherine Vidal e di Dorothée Benoit-Browaeys, giornalista scientifica. Il libro, che offre un puntuale riesame dei numerosissimi studi sull’argomento e un’accurata discussione del loro rigore scientifico, suggerisce interessanti confronti con studi analoghi compiuti non con un’ottica di genere ma di razza e di classe sociale e solleva legittimi dubbi sull’imparzialità della costruzione del sapere scientifico.
    Dopo aver discusso in maniera competente le osservazioni e sperimentazioni più rozze e «antiche» (parliamo di secolo XIX) sulle differenze di volume e peso del cervello e sulle peculiarità morfologiche cerebrali nei due sessi (manco a dirle prontamente mutuate da analoghi studi su cervelli di «razze» differenti), le autrici esaminano gli studi sulle differenze tra i due emisferi e la famosa questione del corpo calloso, che connette i 2 emisferi e che nella donna avrebbe, secondo alcuni ricercatori, uno spessore maggiore. Poi Vidal e Benoit-Browaeys passano a studi più raffinati, riguardanti le divergenze di punteggio tra donne e uomini in prestazioni sulla fluenza verbale e l’orientamento spaziale. Le differenze risultano molto modeste e soprattutto «né irriducibili, né innate», ossia spiegabili in termini culturali e sociali. Le autrici si rifanno poi a studi più interessanti che dimostrano, in ultima analisi, semplicemente l’estrema plasticità cerebrale, la capacità dei cervelli umani di svolgere un medesimo compito in molti modi differenti, reclutando neuroni afferenti ad aree neuronali diverse a seconda della storia personale dei soggetti, l’attivazione di percorsi neuronali ampi e articolati nel periodo di apprendimento di una nuova competenza (ad esempio a suonare il violino) e la regressione dei percorsi dal momento in cui tale abilità non viene più esercitata…

    È poco sensato, con cervelli che funzionano così e che non sono mai uguali a se stessi nemmeno nel medesimo individuo, considerare assolute certe osservazioni temporanee e discutere seriamente sullo spessore maggiore o minore di un nucleo di neuroni, di una commessura!

    La speranza di chiarire le cose riposta nelle nuove tecnologie, in particolare nella risonanza magnetica per immagini (RMI), per ora non è stata troppo ben ripagata. La tecnica è estremamente raffinata e permette di osservare il cervello all’interno, in piena attività. Guardando le tracce colorate visualizzate, è facile illudersi di vedere davvero l’attività neuronale relativa a una determinata prestazione cerebrale, ad esempio a un calcolo mentale. Tuttavia si tratta semplicemente di una traduzione computerizzata delle differenze di flusso sanguigno cerebrale: neuroni vicini e «attivati» potrebbero volgere attività differenti, ad esempio alcuni di attivazione e altri di inibizione. Cosa ancora più importante, ammesso che la RMI ci consenta di vedere «come» funziona un determinato meccanismo, non ci spiega ancora «perché», ossia elude la domanda fondamentale che dovremmo farci studiando il substrato biologico del nostro pensiero, la ferraglia, per così dire. In parole più semplici, gli studiosi che utilizzano queste tecniche diagnostiche – benché considerati dai media veri oracoli scientifici – si limitano, in realtà, a stabilire una relazione (non necessariamente di causa-effetto) tra certe prestazioni cerebrali  e determinati gruppi di neuroni.

    Negli ultimi anni, grazie anche ai nuovi metodi diagnostici, gli studi sulle peculiarità cerebrali di categorie più o meno fittizie di esseri umani, (uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, gruppi etnici, «criminali», «malati mentali» e via classificando) stanno proliferando e inondano anche le riviste scientifiche più prestigiose, i cui referee, di solito estremamente cauti, si sono dimostrati di manica insolitamente larga. Ma dal punto di vista pratico, tutto ciò può veramente influenzare la qualità della nostra vita quotidiana?

    E come no! Spiegare le differenze di prestazioni tra umani con il determinismo biologico significa in ultima analisi avallarle e offrire alibi praticamente indiscutibili: affermare che le differenze di punteggio tra bambini bianchi e di colore nei test di intelligenza somministrati nelle scuole americane dipende da differenze cerebrali innate, o che le donne nascono «negate» per la scienza o per la matematica, mentre sono «naturalmente portate» per lavori «tipicamente femminili» come l’assistenza ai malati, agli anziani e ai bambini, o che neri e/o donne fanno meno carriera degli uomini bianchi a causa dei loro geni (o cervelli, o quel che vi pare) equivale a sostenere che è inutile investire denaro pubblico per offrire a tutti condizioni paritarie di partenza.
    Il determinismo biologico è estremamente utile a chi ha della vita una visione reazionaria.

    Non è una storia nuova, intendiamoci, prima della diagnostica per immagini e ancora prima dei vari studi riassunti con chiarezza dalle autrici, esistevano i famigerati test di intelligenza, versione distorta del lavoro pieno di buone intenzioni di Binet, quegli stessi test che classificavano gli italiani e gli altri immigrati indesiderati negli Usa una congrega di idioti (e non di ignoranti, come probabilmente la maggior parte di loro era veramente, vista la provenienza sociale). E prima ancora c’erano stati i lavori di «progressisti» come Broca e Lombroso. E un po’ dopo ci furono gli studi truccati di Cyril Burt sui gemelli, uno dei falsi più clamorosi della scienza. La gente ci credeva, un certo numero di scienziati pure… Del resto i gemelli omozigoti piacciono sempre, qualche anno fa un libro tradotto in Italia da Garzanti sosteneva la somiglianza (innata) significativa di prestazioni mentali e di gusti fra gemelli omozigoti allevati in famiglie diverse. Persino nella scelta dei nomi da dare ai figli e nella passione per il bricolage, si somigliavano ’sti gemelli! 
    Naturalmente se il comune retaggio genico predispone due gemelli vissuti separati perfino a chiamare entrambi Carlotta la primogenita e/o a disseminare il giardino di nanetti di ceramica (Scherzo? Mica tanto…) chi siamo noi per metterci contro la biologia? Se uno è scemo (inadatto, iperaggressivo, emarginato) è scemo! Inutile resistere. Nel 1994, in Usa, uno studio scientifico americano presentato come neutrale e documentato (riassunto nel saggio The Bell Curve) giustificava come innate tutte le differenze di prestazione scolastica fra ragazzi bianchi e ragazzi neri. Insomma, non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che…
    Oltre che utile a sostenere una politica sociale conservatrice (o meglio reazionaria) il determinismo biologico è anche immensamente comodo, perché farsi tante domande? Siamo così perché siamo così. Punto. Sulla stampa non specializzata e alla TV – fonti di informazione principali se non uniche, per il grande pubblico – quest’argomento si vende bene. Lo testimoniano i titoli ripresi dalla grandi testate: «la scienza dimostra che uomini e donne pensano differentemente (le Nouvel Observateur 1995), «se sono bête è colpa di mamma» (Le Figaro 1997). Si vendono (o si venderanno in un futuro molto prossimo) bene anche i rimedi contro ciò che il cervello di ognuno di noi sarebbe per natura, e per migliorarne le prestazioni: psicotropi e  nanoprotesi, prodotti e venduti, inutile dirlo, da zelanti e avide industrie farmaceutiche; gli interessi finanziari del neuromarketing in questo settore sono davvero cospicui, appoggiarsi alla tecnologia o alla chimica farmaceutica per «migliorare» la nostra specie è un business a molti, molti zeri!
    Catherine Vidal e Dorothée Benoit-Browaeys pensano che tutto ciò ponga problemi etici e che sia necessario un serio dibattito.

    Al di là dell’argomento, ossia delle differenze cerebrali tra uomini e donne, il libro ha il grandissimo pregio di parlare con chiarezza del fondamento della nostra umanità. Che cosa ci rende uomo o donna, la cultura o la natura? E per quale percentuale? Ci chiede di riflettere sul mondo come oggetto di indagine scientifica e come costruzione umana politica, sociale, culturale. Ci impone, per motivi etici, di definire il ruolo e il significato delle scienze all’interno del modello di sviluppo neocapitalista contemporaneo.
    Sì, so bene che certe parole, ormai, si scrivono – e soprattutto si pensano – poco e quasi con un senso di imbarazzo: non vogliamo certo fare la figura dei vecchi arnesi veteromarxisti, giusto? Forse. O forse, invece, occorre vigilare contro il pericolo di certe derive deterministe e sociobiologiche. Stando a occhi ben aperti scopriremo che certe faccende si ripetono immutate da tanti, troppi anni.
    Qualche esempio?
    D’accordo, cominciamo allora, con i dati forniti da un bell’articolo di «Le monde diplomatique» (pp. 18 – 19), non troppo recente (giugno 1997) ma purtroppo sempre molto attuale, che presenta dati davvero interessanti sul rapporto coatto fra donne e scienza.

    «La scienza è sessuata?» si chiede la giornalista Ingrid Carlander. La questione è fondamentale per comprendere la «natura» della scienza e i rapporti di potere nella nostra società: in Francia, soltanto il 24 % de fisici e 20% dei matematici sono donne, e ben poche di loro occupano posti di responsabilità. In Italia andiamo un po’ meglio con le donne-fisico, ma nessuna o quasi occupa posti di responsabilità. In Germania la situazione è ancora più critica. Quanto agli Usa – paese dove il potere intrattiene una vantaggiosa relazione biunivoca con la medicina e il diritto, la percentuale delle donne di scienza cade al 5%.
    Ma in un mondo nel quale i cambiamenti tecnologici sono estremamente rapidi, l’esclusione delle donne dalla possibilità di prendere decisioni fondamentali su questioni di capitale importanza per il futuro (quelle legate all’ambiente, tanto per dire) crea un grave pericolo di squilibrio sociale, come hanno sottolineato nel 1997 le due associazioni francesi Demain la parité e Les femmes diplômées des universités.
    Eppure questa esclusione viene accettata dal pubblico (e persino da molte donne che si occupano di neuroscienza, come risulta chiaro dal libro di Vidal e Benoit-Browaeys!) come dovuta a propensioni innate.

    Le donne non svolgono lavori moderati o pesanti, se non quando le chiama la loro vocazione materna. Due giornate lavorative in una, tutti i giorni non sono «pesanti».

    Troppo facile, vero? Infatti diversi studi effettuati sui percorsi di studio di studenti francesi offrono un quadro piuttosto diverso: nella scuola di base,  i risultati conseguiti in matematica dalle ragazze e dai ragazzi sono pressoché identici e quando le ragazze si dedicano al settore scientifico riescono bene. Ma, al momento di scegliere gli studi superiori e universitari, le ragazze mostrano aspirazioni meno finalizzate alla carriera: più dei ragazzi esse affermano di scegliere il loro orientamento in funzione dei gusti e non in funzione del proprio avvenire professionale; sembrano anche meno sicure di loro, in particolare per quanto concerne gli studi matematici. Nei colloqui e nei questionari diretti a loro, però, i genitori rivelano di ritenere il successo nella professione e la disponibilità di denaro dei figli maschi importante quanto la loro felicità domestica, mentre quando parlano delle figlie assegnano alla felicità domestica un peso tre volte maggiore della riuscita professionale… Le scienze «dure», come matematica e fisica, poi, continuano a essere percepite come discipline poco adatte alle ragazze, un pregiudizio tipicamente materno, a meno che le madri stesse non si dedichino già a queste discipline.

    I pregiudizi famigliari non bastano. Ci si mette anche la scuola che, teoricamente, dovrebbe veicolare un’immagine rigorosamente neutrale e paritaria rispetto al genere degli studenti. Naturalmente si tratta di pregiudizi inconsci, e come tali, ancora più pericolosi. Sia uomini sia donne, i professori, non valorizzano le competenze delle ragazze, come dimostrano ricerche condotte nelle scuole anglosassoni e francesi con la tecnica dell’osservazione alla videocamera. Nel condurre la classe, ad esempio, i docenti ricorrono frequentemente all’opposizione tra ragazze e ragazzi, e i comportamenti degli uni e delle altre vengono «attesi» in funzione del sesso. Così i docenti di scienze offrono almeno il 20% di tempo in più ai ragazzi, le ragazze sono interrogate meno sovente e, se lo sono, vengono interrotte più di frequente. Il professore tende a felicitarsi con le ragazze per la loro buona condotta o l’ordine dei loro compiti, con i ragazzi per l’esattezza del ragionamento. Le ragazze sono scusate più facilmente dei coetanei per i loro fallimenti, partecipano meno alle discussioni generali nei corsi di fisica si rassegnano facilmente all’insuccesso.
    Osservazioni analoghe svolte in Svezia hanno fornito dati simili.
    Eh sì, è proprio vero, noi ragazze per natura siamo portate non a competere ma a realizzarci nei «lavori donneschi»…
    Insomma, come viene sottolineato nelle pagine curate da Nicole Dewandre del sito «Ricerca» della commissione Europea, in campo scientifico

    se le donne sono meno presenti, è semplicemente perché non ci sono più. Nel campo delle scienze il fenomeno dell’abbandono graduale […] è molto esteso e visibile. […] le donne abbandonano gli studi in percentuale maggiore rispetto agli uomini; ciò avviene soprattutto a partire dal post-dottorato, momento-chiave in cui occorre trovare i crediti e pubblicare per essere riconosciuti dai propri omologhi e iniziare la carriera nel mondo della ricerca scientifica. Per quella percentuale che prosegue il cammino […] il loro riconoscimento professionale è quanto mai distante e difficoltoso da raggiungere. Nell’ambito di uno studio condotto all’interno del CNR italiano, è stato analizzato, tra l’altro, il percorso di carriera del personale scientifico, a distanza di dieci anni dall’assunzione. Ne emerge che il 26 % degli uomini occupa attualmente un posto di direttore di ricerca, mentre per le donne ciò è vero solo nel 13 % dei casi.

    Infine qualche altro dato proveniente dal rapporto She figures 2006, Donne e scienza in Europa:

    le donne rappresentano nel 2004 soltanto il 29% degli scienziati o ingegneri, con un tasso di crescita della partecipazione femminile, tra il 1998 e il 2004, inferiore a quello registrato per gli uomini. Se questo andamento dovesse consolidarsi, comporterebbe a termine addirittura un approfondimento del divario di genere nel settore scientifico.


    E taccio (ma voi  documentatevi nei siti elencati in calce) delle difficoltà incontrate dalle poche sopravvissute al lavaggio del cervello nella vita professionale e sociale, e dei loro giochi di equilibrismo per armonizzare le esigenze della vita professionale e sentimentale.
    Mi pare che qualcuno abbia detto qualcosa come «dietro ogni grand’uomo c’è una donna…» Sinceramente non ricordo più come venisse definita la donna, forse semplicemente «grande» anche lei. Ma dietro una gran donna temo che continui a esserci il vuoto, oppure un percorso di sopravvivenza minato, come dimostrano.

    qui intervista alle autrici

    qui  altra intervista

    videoconferenza in francese di C. Vidal sull’argomento del saggio)

    http://www.universitadelledonne.it/mapelli%20b.htm

    http://ulisse.sissa.it/Answer.jsp?questionCod=128712973

    http://ec.europa.eu/research/leaflets/science/it/page2.html

    qui dati 2010 sui pregiudizi riguardanti il rappotro donne e scienza

    Catherine Vidal Dorothée Benoit-Browaeys
    Il sesso del cervello.
    Vincoli biologici e culturali nelle differenze fra uomo e donna
    Edizioni Dedalo,
    ed. 2006, pp. 127, € 13,50
    trad. B. Sambo

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