di Franco Pezzini
[La vampiromania esplosa coi fasti della saga Twilight è ormai in fase di recesso, come testimonia il numero calante di titoli sul tema: anche se, consolidata una certa formula editoriale – in particolare la declinazione del vampiro nell’ambito del cosiddetto romanticismo sexy, con l’enfasi ora sul primo, ora sul secondo elemento – è a questo punto difficile pensare a una vera eclissi. Tale recessione non rappresenta però soltanto l’ovvio segno di una saturazione del mercato, ma anche la conferma di una ciclicità dei ritorni del Ritornante per antonomasia: cicli per il cinema più o meno trentennali, con un decennio di (ri)formulazione del modello, un secondo di successo e assestamento di target e un terzo di recessione (come negli anni Cinquanta e Ottanta, quando il vampiro quasi scompare). Se per la narrativa il discorso resta ovviamente più fluido, la compenetrazione crescente con linguaggi e media diversi può confermare un simile modello ciclico almeno a livello tendenziale. Mentre a contrastare l’abuso di carinerie, i vampiri allarmanti e spesso disgustosi della grande trilogia di Claudio Vergnani per Gargoyle (Il 18° vampiro, 2009; Il 36° giusto, 2010; L’ora più buia, 2011) sembrano quasi evocare metaforicamente col loro avvento di massa e il successivo defluire nell’ombra la parabola editoriale.
Il successo di Twilight ha però condotto alle librerie anche una ricca produzione di saggistica popolare, spesso impostata sul filo della provocazione adolescenziale o dell’ironia – sul tipo «diventa anche tu cacciatore di creature della notte», oppure «quali precauzioni usare con un boy-friend vampiro»; mentre assai più raramente sono usciti saggi di spessore. Tra questi, recentissimo, merita senz’altro menzione lo splendido Prima di Dracula. Archeologia del vampiro, Il Mulino 2011, a firma di Tommaso Braccini, dottore di ricerca in Antropologia del Mondo Antico: un fondamentale studio sulle fonti greche, egee e bizantine del tema, in fondo note alla fiction fin dal tempo dell’eroe nero di Polidori.
Rispetto a tale testo, il saggio di Carlo Dogheria, Santi e vampiri. Le avventure del cadavere, edito da Stampa alternativa nel 2006, resta un’opera per un pubblico popolare: ma reca una suggestiva provocazione in rapporto a una categoria ben diversa, quella dei Santi, proprio in relazione alle strane vicende dei relativi corpi. Si presenta qui la recensione apparsa su LN 39/2006. F.P.]
Nel mondo in cui le più bellocce icone hollywoodiane sgomitano per inguainarsi in panni vampireschi (possibilmente fetish e attillatissimi) e le discepole di Lucy Westenra invadono le librerie confidando fantasie brucianti di amplessi e svenamenti, è prezioso che qualcuno ricordi come i non-morti del folklore non rappresentassero affatto una piacevole compagnia. Se poi qualche lettore ha storto il naso all’uscita nel ’94, per i tipi di Pratiche, del saggio di Paul Barber Vampiri, sepoltura e morte (e non tanto per le pagine medico-legali piuttosto scioccanti, quanto per una presunta «riduzione» del tema vampirico alla dimensione cadaverica – in specie l’impatto sull’immaginario di processi di decomposizione variegati e incompresi), resta comunque indiscutibile nello studio del tema l’importanza del fronte dei miti sul corpo e sulla sua crisi post mortem. Ora questo intrigante saggio di Carlo Dogheria affronta proprio, come evidenzia il sottotitolo, le avventure del cadavere attraverso due categorie paradigmatiche della cultura occidentale, e in rapporto (talora problematico) con le agenzie di certezza religiosa e scientifica via via dominanti – quelle cioè dei vampiri e dei santi: ciò che lo induce a strutturare l’indagine appunto in forma di dittico.
A parte i casi dei sepolti vivi (che spingono all’istituzione, alla fine del XVIII secolo, dei depositi mortuari o vitae dubiae asyla, e di ingegnose e improbabili invenzioni per evitare l’incidente), il cadavere interagisce in vario modo col consorzio dei viventi. Sia in termini indiretti, attraverso tutta una fantasiosa farmacopea, che diretti: e si va dal sangue gettato dal corpo al cospetto del proprio assassino, a tutta una serie di manifestazioni di vivacità come la presunta «masticazione» entro l’avello, legata a fenomeni epidemici (XVI secolo, soprattutto in Germania orientale ma anche in Polonia, Boemia, Moravia, Lorena e Normandia), alle tombe irrequiete degli scomunicati e infine dei protovampiri medioevali (Inghilterra, Boemia) portatori di orrore e di morte. Se però tali casi, non già frequentissimi, scompaiono completamente nell’area cattolica dal Settecento, si perpetueranno in quella ortodossa attraverso le figure dello ntoupi (il morto scomunicato gonfio «come un tamburo», che può ottenere l’atteso disfacimento alla rimozione della censura canonica), del dispettoso brucolaco egeo e in ultimo del vampiro – la cui figura fatale di mattatore finirà con l’assorbire le specie minori.
Il saggio prosegue con l’esame dei miti sul sangue, «l’ottimo dei sughi», e sui suoi predatori – da quelli presunti, come streghe ed ebrei, ad altri più plausibili per quanto problematici, tratti dagli annali del crimine (l’ovvia contessa Bàthory, il friulano Verzini, il francese Vaucher, i tedeschi Haarmann e Kürten, l’inglese Haigh…); e con la discussa questione del rapporto tra crepuscolo delle streghe e alba del vampiro attraverso il dibattito colto di demonologi e filosofi fino a Tartarotti, Maffei e Muratori. Quella del vampiro è una superstizione «laica», che non minaccia in modo diretto l’ordine religioso e interessa invece potentemente i mass media già nel Settecento: e attraverso una variegata coralità di fonti (da Dom Calmet, il più noto trattatista della materia, ai pubblicisti moderni), Dogheria repertoria tutti i casi disponibili tra il 1591 e il 1927. Un numero in realtà limitatissimo, a fronte dei 30.000 che qualcuno (forse con eccessivo entusiasmo) avrebbe indicato come verificati soltanto tra il XVI e il XVIII secolo.
Alla
… precisione della ricerca etnografica, non corrisponde analoga linearità dei dati che offrono le cronache, oltre tutto piuttosto scarne, che raccontano di un fenomeno dai contorni imprecisi e contraddittori. Il discorso potrebbe forse risultare più puntuale se si potesse avere sotto mano il materiale manoscritto seminato fra archivi e biblioteche di mezza Europa e fin qui sostanzialmente trascurato (p. 77).
Dove il pregio del saggio, al di là dei dati non nuovi, va ravvisato anzitutto nella sua natura «aperta»: un approccio che allo sforzo di inquadrare il fenomeno storico (e il dibattito che ne seguì, interessando tra gli altri i teologi della Sorbona, Voltaire, Benedetto XIV, e l’archiatra van Swieten di Maria Teresa d’Asburgo) unisce la provocazione a continuare gli studi sul campo. Possibilità resa oggi reale dall’apertura di archivi e biblioteche inaccessibili fino a un passato recentissimo: in una situazione in cui i libri sui vampiri – salve singole, lodevoli eccezioni – tendono a riproporre sempre il medesimo schema, è in tale direzione che sembra opportuno muoversi.
Ma persino più originale, in quanto basata su un vaglio di fonti non generalmente analizzate a questi scopi, è la seconda parte del volume, dedicata alla vitalità ultratombale dei corpi dei santi: e se l’indagine è stata ristretta di necessità a un campione degli Acta sanctorum (cioè 4.060 santi o beati, per la bellezza di 940 episodi interessanti, contro il totale di 7.000 / 10.000 oggetti di culto) emergono almeno le linee di fondo di un panorama più ampio, cui il credente di oggi può guardare con costernata perplessità.
In senso passivo, i corpi venerati sono assoggettati a un contatto simpatico con altri oggetti per trasferirvi la propria virtù sacra / magica, e più spesso – com’è noto – finiscono fatti a pezzi con allegra disinvoltura onde rifornire di reliquie magari improbabili chiese, monasteri e cristianissimi principi; ma in senso attivo tali corpi interagiscono direttamente con la realtà. Almeno secondo gli agiografi, che si diffondono in racconti su come i corpi santi proteggano dagli incendi (o meglio si proteggano, perché spesso le fiamme devastano la chiesa intorno), puniscano i furbetti che spergiurano al loro cospetto, o saccagnino comunque ogni forma di offesa. I miracoli accompagnano il corpo santo anzitutto nel momento della morte (un topos è quello del martire immune al calore, e che alla fine soccombe soltanto alla spada decapitatrice – o, se ucciso dal fuoco, non ne viene sconciato); ma in seguito i prodigi scandiscono il rito delle esequie e si ripropongono nel tempo sul luogo della sepoltura. Talora il santo blocca anzi il proprio rito funebre per compiere un’opera buona, quasi sempre la liberazione di carcerati; ma in generale «dimostra una fretta indiavolata di essere sepolto, oltre che una somma attenzione a che il proprio corpo non subisca danni» (p. 187). Gli Acta vedono dunque feretri che si spostano da soli, oppure rifiutano certe modalità di trasporto (mani impure sul corpo), sistemazioni o compagnie (di altre sepolture, ovviamente) considerate non gradite: ciò che manifestano ricorrendo talora a sistemi drastici come il «terribile accidente» sul povero operaio incaricato, o addirittura epidemie o terremoti. Ma è soprattutto dopo la sepoltura che i miracoli si presentano in tutta una sconcertante varietà, con manifestazioni talora incongrue o addirittura frivole o ingiuste – al punto che solo le pirotecnie interpretative di agiografi compiacenti riescono a conciliarle (sia pure in termini molto vaghi) con lo spirito evangelico.
Santa Gudula nel Graduale di Haarlem 1494 |
La presenza del dolo non sembra rilevare, e persino bambini vengono accecati o ridotti in fin di vita per azioni di relativa innocenza sul luogo della tumulazione. Se pericoloso è spegnere i lumi attorno alla tomba, dare a essa le spalle, dormire nel letto del santo, dubitare della sua santità, dimostrare indifferenza alla sua festa o magari preferirgli un altro santo, sui profanatori (anche di piccolo cabotaggio) si scatenano calamità talora spropositate – come nel caso dei discendenti del ladro delle vesti di santa Gudola, patrona di Bruxelles, tormentati per indefinite generazioni da «varie infermità». Pericoloso è irridere il santo o anche solo criticarne eccessi di devozione, come avrebbe appreso a sue spese il segretario del vescovo di Apt, accecato da santa Delfina (ma poi risanato dopo il ravvedimento). E Dogheria riconosce nelle dinamiche tra i protagonisti di tali storie (Dio, i santi e gli uomini senz’altro titolo) la presenza di rapporti gerarchici di tipo feudale, dove
le entità dominanti scaricano i propri eventuali conflitti alla base della piramide. Se Antonio dell’Aquila voleva essere sepolto nella nuda terra e il Padreterno era di diverso avviso, ciò non produce un contrasto fra loro: chi ci rimette è l’incolpevole operaio, tramortito da un masso prodigiosamente spostatosi a un cenno divino per impedire una indegna sepoltura (p. 200).
A riflettere in fondo schemi mentali e meccanismi mitici ben più antichi del credo cristiano, che tuttavia nella «nuova» situazione ricevono potenziate forme di attenzione, (ri)elaborazione e trasmissione.
Laddove la mancata corruzione del corpo non rappresenta per i cattolici un segno in sé sufficiente a dimostrare la santità, i criteri elaborati nel trattato sulle canonizzazioni del cardinale Prospero Lambertini (prima di assurgere al soglio pontificio come Benedetto XIV, e già incontrato in tema di vampirismo quale critico ironico) posero un freno alle scene incredibili scatenate in precedenza alla morte di personaggi in odore di santità – comprese dissezioni misticheggianti come quella del corpo di santa Chiara da Montefalco, nel cui muscolo cardiaco diviso a metà le consorelle si compiacquero di ravvisare immagini sacre. Gli Acta registrano comunque la flessibilità di molti corpi santi, il loro profumo e la freschezza delle carni – che piuttosto entra in crisi, quasi per protesta, al degenerare di situazioni storiche circostanti. Quanto allo smembramento dei corpi per trarne reliquie – secondo un uso derivato, pare, dal cristianesimo orientale – i santi mostrano una certa resistenza, accompagnata da sanguinamenti che paiono rimarcare la vitalità sovrannaturale delle spoglie.
La regola generale sembra essere che gli smembramenti […] sono consentiti solamente alle competenti autorità religiose, ma la norma conosce diverse eccezioni, sia in senso restrittivo che estensivo. In mancanza di sicurezza, è buona cosa trattare direttamente col santo, sondare in qualche modo la sua disponibilità (pp. 216-217).
G. Heintz Miracolo della Mula di S. Antonio di Padova |
Tra le attività più discrete dei corpi santi è l’invio di messaggi ai vivi, per annunciare tristi eventi o calamità oppure per dirimere controversie teologiche (per esempio quella tra cattolici ed eutichiani da parte della martire Eufemia); ma non mancano casi di gioiosa partecipazione (con vari segni) a cerimonie religiose, bizzarrie come crescita di barba o sudorazioni, e persino apparenti dispetti – a fianco, ovviamente, alle infinite guarigioni o opere di carità anche indipendenti dal contatto con le reliquie. Laddove secondo catechismo il miracolo è compiuto da Dio attraverso i suoi strumenti umani, in molti casi i santi paiono operare in proprio. Ed è
forse inevitabile che a questo tendesse la pietà popolare; meno scontato e accettabile – osserva Dogheria – è però che la Chiesa abbia avallato questa tentazione e addirittura se ne sia fatta promotrice, legittimando uno stravolgimento della propria impostazione teologica che non è esagerato definire eretico (p. 227).
Se il vampiro si è trasformato da impresentabile babau a divo postmoderno, il santo ha a sua volta affrontato i sarcasmi dei Lumi, il progresso della cultura scientifica e le nuove cautele della lettura religiosa: e tuttavia la semplice e imbarazzata rimozione di secoli di racconti incongrui, stigmatizza l’Autore, non rende un buon servizio alla sostanza della fede. Permettendo anzi il ritorno (o meglio il rafforzamento, potenziato dai media) di una sottocultura miracolistica di massa dalle ben individuabili ricadute di mercato.
Carlo Dogheria
Santi e vampiri. Le avventure del cadavere
Stampa alternativa (Eretica speciale), 2006
pp. 264, € 14,00