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    Interzona

    Siamo ciò che mangiamo

    • di Silvia Treves
    • Ottobre 21, 2012 a 4:03 pm



    Mi sembra di aver vissuto un sogno irreale, una processione infinita di McMuffin e Big Mac, milk-shake e bibite gassate, biscotti, Chicken McNuggets e Salad Shakers, tutti in marcia dall’orizzonte per raggiungere le mie fauci (Morgan Spurlock, Non mangiate questo libro).

    Mi cucino quasi sempre il pasto di mezzogiorno, di solito un piatto unico con molte proteine e di lenta digestione, come svizzere di pollo con formaggio fuso, che compro surgelate, e contorno di fagioli in scatola. La sera mangio allo Hearthside, che offre al personale toast farciti, panini al tonno o hamburger per soli 2 $. L’hamburger conviene perché riempie di più, […] ma a mezzanotte lo stomaco reclama nuovamente. (Barbara Ehrenreich, Una paga da fame).

    – Evviva, domani andiamo a mangiare da McDonald’s!
    – Chi, quando?
    – La classe. Domani a pranzo. Per festeggiare la fine della scuola. Posso, vero?
    – Ah. Sì, certo che puoi.
    Per un figlio, che da McDonald’s (d’ora in poi McD) non va mai, il fast food ha il piacere proibito della trasgressione. Ma per moltissime persone il McCibo è un’abitudine e/o una necessità: almeno un americano su dieci mangia ogni giorno alla M gialla, e per il suo bene spero che non sia sempre il medesimo.
    Ma «gli Egg McMuffin e i Big Mac sono davvero sani e nutrienti? Fanno bene? Davvero?» Se l’è chiesto Morgan Spurlock, autore di Non mangiate questo libro e protagonista-cavia del documentario Oversize me. Per rispondere, come saprete, ha mangiato solo ed esclusivamente McCibo per trenta giorni, marcato stretto dal suo amico Scott Ambrory con la telecamera e seguito da un’équipe medica che ha monitorato giorno per giorno la sua salute. Questi i risultati:

    Giorno 0: condizioni generali eccellenti, compresa pressione e funzionalità epatica.
    Giorno 31: peso acquistato 11 kg, segni non lievi di danno epatico.
    Sintomi registrati durante il mese: alla fine della prima settimana i primi brufoli, in seguito pancetta e «tette» maschili sempre più evidenti; una strana oppressione al petto, pressione ai genitali, mal di testa prima di colazione, prima di pranzo e prima di cena che scomparivano magicamente mangiando da McD; sonnolenza, depressione, sbalzi d’umore radicali in risposta all’assunzione massiccia di zuccheri e caffeina del McCibo; abbiocco post-prandiale, deficit di concentrazione, dimenticanze, confusione.
    Mediamente Spurlock ha ingerito ogni giorni 450 gr. di zucchero (13,5 kg in tutto!), 184 gr. di grassi (230% della dose raccomandata) di cui 60 gr saturi (240% rispetto alla dose raccomandata). L’aumento di peso potrebbe essere dovuto soprattutto alla ritenzione idrica provocata dall’enorme quantità di sodio presente nel McCibo, anche se l’autore resta convinto di aver accumulato «vero grasso».


    I media hanno dedicato ampio spazio al crescente problema dell’obesità nel Primo Mondo; negli Stati Uniti la situazione è davvero preoccupante: il 65% degli adulti è in sovrappeso, il 30% è obeso (60 milioni di persone, delle quali 9 milioni in modo grave); e lo è il 16% (9 milioni) dei ragazzi fra 6 e 18 anni. Scartate il primo pensiero che viene in mente leggendo questi dati, non si tratta di un problema da ricchi, è chi ha troppo poco che è «troppo»: il 22% degli adulti di famiglie con reddito inferiore a 15.000 $ contro il 15% con reddito superiore a 50.000 $. E naturalmente l’obesità cala all’aumentare del livello culturale. A pensarci non è strano, nelle aree urbane periferiche a basso reddito ci sono pochissimi supermercati, per andare a fare la spesa occorre l’auto e chi è troppo povero per permettersela deve accontentarsi del cibo spazzatura spacciato nel negozietto all’angolo. Il buon cibo costa: mediamente una famiglia a basso reddito spende per mangiare: 3,57 $ a testa al giorno, mentre per una sana e corretta alimentazione servirebbero 15 $. E l’obesità non è l’unico rischio «alimentare» che faccia discriminazioni di classe e di razza: si prevede che 1/3 dei bambini nati nel 2000 sia destinato ad ammalarsi di diabete di tipo 2 (legato a cattiva alimentazione ed eccesso di peso), ma tra gli afroamericani e gli ispanici la probabilità di ammalarsi sale a 1/2.

    E adesso aprite una mappa di Los Angeles: dove sono concentrati i McDonald’s e gli altri fast food? A Beverly Hills? No, a South Central e a East Los Angeles, i quartieri a basso reddito. E le palestre? Toh, tutto il contrario…
    Un tempo non era così. Secondo Spurlock oggi si mangia molto di più e molto peggio e si fa meno esercizio fisico di trent’anni fa, ma cambiamenti di così ampia portata non possono essere dovuti soltanto alla golosità o alla pigrizia individuali, devono esistere cause generali di tipo economico. E infatti…
    Negli anni Settanta negli Usa una recessione colpì soprattutto gli agricoltori, facendo salire alle stelle il prezzo del cibo. la politica governativa di stimolo della produzione agricola e di calmieraggio dei prezzi fu talmente efficace che negli anni Ottanta si verificò un’eccedenza di generi alimentari e un grande calo dei prezzi. Contemporaneamente esplose l’offerta del fast food: nel 1970 i fast food in Usa erano circa 70.000, oggi sono 186.000: il giro d’affari di Big Food è passato da 6,2 a 124 miliardi di $!
    I McD – che nel frattempo sono passati da 1.000 a 14.000 negli Usa e a 31.000 in tutto il pianeta – non sono un fenomeno unico. Se la polemica di Spurlock si è indirizzata soprattutto contro la M gialla è perché «McD è la cima, il pinnacolo, l’Everest dei fast food. È il leader del settore da cinquant’anni […] Qualunque cosa faccia McD, viene prontamente imitato dalla concorrenza». Le ragioni di tanto successo vanno ricercate nell’abilità del marketing, nella pubblicità invasiva e spregiudicata, nella capacità di vendere non soltanto un insieme di prodotti, o un servizio, ma uno stile di vita, una versione a basso costo dell’American Way of Life. Un sogno che va ben oltre il discutibile piacere del cheeseburger e del beverone color fragola, una promessa di vita «migliore» alla portata di tutti i portafogli. Come Disneyland, anche il McSogno è esportabile ovunque, con un impatto micidiale: nelle Filippine il fast food all’americana è arrivato negli anni Settanta, scalzando la dieta tradizionale a base di riso, verdure, un po’ di carne e pesce; in trent’anni l’incidenza, prima contenutissima, di infarto, diabete e problemi cardiovascolari è aumentata fino a valori tipici degli Usa e del mondo occidentale.


    La strategia vincente, inventata da McD e prontamente imitata da tutto Big Food è offrire tanto-tanto a poco-poco di più: con materie prime che ormai costano pochissimo è possibile offrire hamburger più grandi, panini più grossi, beveroni esagerati; ed ecco il Whopper, il Big Mac, il mega milk shake (la versione super gigante misura 1,2 l!) e il Big Gulp. Con spesa minima (meno di un quinto del costo totale) l’industria del fast food fidelizza i clienti regalando loro l’ebbrezza di ricevere un regalo (due Big Mac invece di uno a soli 35 cent in più!) e di sentirsi dei dritti. Impossibile resistere, così se nel 1960 l’americano medio consumava 1,5 kg/anno di patatine fritte, oggi ne ingozza 15 kg/anno. Eppure, garantisce Spurlock, ingoiare due Big Mac di seguito è un’impresa quasi disperata: «vi sentite crescere dentro una sensazione di sazietà assoluta, untuosa, inebetita. Le membra si appesantiscono…» Ma chi se la sente di rinunciare? «Il risparmio è il miglior guadagno».

    D’accordo, ma nessuno ci «obbliga» a ingoiare porzioni giganti… e poi basta esaminare le schede nutrizionali nel sito di McD. Verissimo, se si dispone di un computer. Io l’ho fatto e nel sito www.mcdonalds.com ho trovato un elenco lunghissimo, puntiglioso e (ovviamente) incomprensibile per chi, come la maggior parte delle persone, non ha sufficienti nozioni di biochimica. Sul sito italiano, invece, soltanto rassicurazioni pedanti sui tempi di scongelamento e di cottura e sulla tracciabilità delle carni (ma le carni sono davvero tracciabili? Come no, vi spiega tutto Felicity Lawrence). Niente schede nutrizionali e nemmeno gli ingredienti delle famose Salad, proprio «quello che (non) vi sareste aspettati da McDonald’s».
    Sì, ma «loro» non ci obbligano a mangiare solo McCibo, tanto meno solo le porzioni più grosse, come ha fatto per un mese Spurlock.
    Può darsi, ma si vantano che il 72% dei clienti siano «grossi consumatori» che mangiano da McD almeno una volta a settimana e che il 22% siano «superconsumatori», che vi mangiano almeno 3-5 pasti a settimana.


    Ma ci sono fior di controlli, vero? Sicuro, fatti da agenzie come l’ADA (American Dietetic Association), finanziata da… brava gente come Kellogg, KraftFoods, Weight Watchers International, Campbell Soup, Nestlé Usa, Coca-Cola, Uncle Ben’s e molti altri. I lupi e le faine a guardia del pollaio.

    Non c’è da stupirsi, il giro d’affari è enorme, 30 miliardi di $ l’anno (e il triplo nell’indotto) solo per il comparto bestiame, il maggiore dell’agricoltura statunitense. Ed è quasi tutto in mano a quattro aziende gigantesche che riempiono le loro mucche di steroidi anabolizzanti, cereali, ormone bovino della crescita e resti di loro simili ridotti a farine animali; grazie a questo macella-trita-nutri-macella-trita… in 0,5 kg di carne da hamburger possono convergere materiali di oltre 400 mucche. Sconcertante, soprattutto se l’hamburger è quello del vostro panino. Per conoscere dettagli orripilanti sull’allevamento dei polli, cose che certamente non ci sono sull’etichetta, leggere il primo capitolo del libro di Lawrence.
    Ma, dicono i ragazzi, il McCibo è buono! Certo che è «buono», centinaia di additivi chimici contribuiscono a renderlo tale, sostituendo il sapore perso nel processo di lavorazione. Ed è anche «tanto»: i campioni di McCibo acquistati da Spurlock sono risultati maggiori delle quantità nominali indicate nel sito: la porzione media di patatine non era di 114 grammi per 350 calorie, bensì di 123 gr per 430 kcal e i grassi saturi (quelli che fanno tanto male) il 67% in più rispetto a quelli dichiarati. È un mondo curioso quello in cui tocca lamentarsi perché si riceve più cibo e più condito di quanto avevano promesso.
    Oltre che buono e tanto, McD è eloquente: sa come parlare ai bimbi, i clienti migliori, quelli che dureranno nel tempo e che, a loro volta, educheranno una nuova generazione di figli alla fedeltà al marchio. Una visitina al sito Usa vi convincerà: ci sono impareggiabili occasioni d’acquisto per tutte le età: teli mare con pantagruelico Big Mac in campo senape, stupendi modellini di Mcristoranti in cristallo a soli 39.90 $… Cercando bene, troverete la suoneria con il jingle della Mcpubblicità e un’intera linea di prodotti per i più piccoli che tra breve sbarcherà anche in Cina.
    Big Food accompagna la vita dei «nostri ragazzi» fin dalle elementari. Il governo statunitense, per ridurre le tasse, ha ridotto il budget alle scuole (di sicuro glielo avrà suggerito il nostro ex genio della finanza, Giulio Tremonti), costringendole a gestire in economia voci di spesa importanti come le mense… Big Food non aspettava altro ed è entrato nelle scuole con licenze per aprire ristoranti o per trasformare le mense in ristoranti in franchising. In cambio le scuole hanno ricevuto denaro per le bande musicali, per le divise ecc. E in molte scuole la lettura viene incentivata dai maestri con buoni premio per un pasto da McD! Nel 2003 N.Y. ha intascato 166 milioni di $ per concedere a Snapple l’esclusiva per i distributori automatici in tutte le scuole della città. Evviva, sono succhi di frutta! Sì, ma contengono più calorie e più zuccheri della Coca-Cola.
    Fortunatamente esistono anche scuole pubbliche controcorrente: consolatevi leggendo la vicenda della scuola superiore Appleton del Wisconsin…
    Big Food è invasivo come una metastasi, difendersene è davvero difficile, ma ha ragione Morgan Spurlock:

    Le gigantesche corporationdel Big Food hanno le loro lobby che spendono tutto quel denaro per influenzare i politici nel modo sbagliato. Noi dobbiamo essere la nostra lobby, una lobby di consumatori, cittadini e genitori, pronti a dimostrare che abbiamo anche noi molto denaro a disposizione. E che siamo pronti a votare con le nostre forchette» Pensate, forse potremmo usare anche le nostre schede elettorali…


    Nell’introduzione di Non è sull’etichetta, Felicity Lawrence racconta la sensazione di spaesamento provata nel 1991 rientrando a Londra dopo due anni di volontariato in Afghanistan. Supermercati pieni di cibi di ogni provenienza, ovunque verdure perfette, tutte delle medesima forma e grandezza. E, in contrasto stridente con l’esperienza dei mercati di Peshawar, nessun odore: «impossibile prender in mano un frutto e tastarlo o annusarlo per capire se buono. Erano tutti duri, acerbi e senza odore ed erano per giunta impacchettati in chili di plastica».

    Nei mesi successivi, questo sguardo «esterno» indusse l’autrice a rendersi conto che l’Occidente ricco ha perduto il concetto di cibo come esperienza culturale e sociale. L’interesse di Lawrence per il cibo e la sua produzione è sfociato in una serie di inchieste sul sistema alimentare globale per il «Guardian» che l’hanno portata a viaggiare per mezzo mondo e a infiltrarsi come lavoratrice in grandi stabilimenti alimentari.
    Suddiviso per alimenti – Pollo, Insalata, Fagiolini, Pane, Mele & banane, Caffè & gamberi, Piatti pronti – Non è sull’etichettadocumenta la progressiva difficoltà di chi dovrebbe vigilare sulla genuinità dei nostri cibi a smascherare frodi pericolosissime per la salute, armato di leggi apparentemente non aggirabili, in realtà aggirabilissime, come il bollo di qualità e di tracciabilità sulle carni.
    «Pollo» racconta l’esperienza dell’autrice come tagliatrice e impacchettatrice di porzioni di pollo in una delle maggiori aziende inglesi del settore, fornitrice dei maggiori supermercati britannici. Come potrebbe confermare qualunque persona che fa la spesa, la carne di pollo è di solito a buon mercato e viene preferita perché «bianca»:

    Rispetto a vent’anni fa il pollo è meno costoso e oggi ne consumiamo cinque volte tanto […] ma poter comprare un pollo intero pagandolo poco più di un caffè ha il suo prezzo […] i polli, come altri animali sono stati industrializzati e globalizzati. Non sappiamo più dove vengo allevati o come vengano lavorati. Quando li compriamo nelle loro confezioni asettiche o sotto forma di ingredienti in prodotti pronti, abbiamo ormai perso ogni traccia delle loro origine

    Parti di pollo provenienti dall’Olanda possono essere riconfezionate con nuove date di scadenza in uno stabilimento inglese, garantite con il marchio di qualità degli allevatori britannici e finire nei frigoriferi delle grandi catene di supermercati. I passaggi di mano sono numerosissimi, a ogni tappa il prezzo del pollo aumenta un po’, ma abbastanza poco perché l’affare continui a essere redditizio, così ci guadagnano tutti e la tracciabilità della carne diviene una chimera. Peggio, polli ammalati e contaminati da virus e batteri o destinati a divenire cibo per animali possono venir tagliati, lavati in ammoniaca e rivenduti per la realizzazione di prodotti alimentari. Che cosa c’è nelle deliziose polpettine di pollo tanto più leggere degli hamburger? Palle di pollo. Sì, sono proprio «palle» di pollo come quella di Apelle… A parte una piccola quantità di pelle, circa il 15%, che è necessaria, pare, per rendere gustose le polpettine, il resto dovrebbe essere pollo, non poltiglia proteica ottenuta spremendo ritagli di pollo, non additivi tipo proteine della soia, non acqua aggiunta, non aromi e zuccheri, non gomme emulsionanti che servono a tenere insieme questo monstrum. Eppure vengono preparate polpette di carne di pollo che contengono soltanto il 16% di carne (la pelle conta come carne, ovviamente). I maghi di questa operazione di adulterazione sono i produttori olandesi che comprano polli congelati a basso prezzo da Thailandia o Brasile, li salano (così non risultano più carne fresca e pagano meno tasse) poi li scongelano, iniettano nella carne acqua e additivi di ogni genere e diluiscono il sale aggiunto in precedenza. Così i geniali produttori di questi patchwork di pollo in una volta sola riescono a eludere le tasse dell’UE sulle carni fresche e a gonfiarle vendendoci una generosa quantità d’acqua al prezzo del pollo; sistemi simili vengono usati per gonfiare il petto di pollo. Ma non illudetevi, non riuscirete a capire che cosa avete messo in padella dall’acqua rilasciata: i polifosfati non sono più di moda, al loro posto vengono usate proteine idrolizzabili che non rilasciano l’acqua durante la cottura.
    Forse converrebbe rassegnarsi. Solo, per favore, ditecelo. Questa è stata la linea di condotta della Food Standard Agency inglese per i controlli alimentari che dichiarò legali i polli-patchwork purché dichiarati nell’etichetta. Ma supponiamo che voi stiate mangiando in una mensa o in un ristorante o in un McD… che fate, chiedete di vedere l’etichetta?


    Se avete anime sensibili (o semplicemente stomaci delicati) forse non dovreste leggere le pagine iniziali e finali del capitolo, là dove condizioni di allevamento veramente ignobili riescono nel grandioso risultato di far condurre un’esistenza schifosa – e fortunatamente sempre più breve – ai polli (ognuno ha a disposizione, se sta sempre acquattato, il sontuoso spazio di un foglio A4) e di aumentare a dismisura le occasioni di infezione e contaminazione dei medesimi. Ma non temete, una robusta dose di antibiotici avrà la meglio anche sui maledetti polli che si ostinano a restare organismi e non semplici prodotti biologici al nostro servizio. Per la peste suina, la BSE, l’afta epizootica… be’, fregheremo anche quelle, prima o poi, lasciate fare ai grandi allevatori!

    Vi lascio il piacere di scoprire altre interessanti informazioni sui vostri cibi preferiti; io mangio poca carne e molta frutta e verdure così non ho avuto l’incubo del pollo (se non per solidarietà verso il medesimo) ma ho letto con raccapriccio crescente Insalata, Fagiolini e Mele & banane. E pensare che di mele e insalate io ci vivrei…
    Se poi non siete cuochi provetti e spesso andate di fretta, vi sarà accaduto, durante i vostri turni ai fornelli, di utilizzare prodotti precucinati non surgelati. La Gran Bretagna è il maggior consumatore europeo di questi «pasti casalinghi per cene in solitaria» come vengono dolcemente chiamati dal marketing. Secondo i dati di Lawrence nello stufato d’agnello possono esserci otto tipi differenti di dolcificanti, sette tipi di grassi, quattro di conservanti e tre di aromi chimici e un contenuto di sale equivalente alla dose giornaliera raccomandata per persona. In un piatto di lasagne vegetariane invece l’ingrediente più abbondante è l’acqua, seguito da grassi di numerosi tipi e dal 15% di zuccheri vari. Sì lo so, vostra nonna le lasagne le faceva diversamente, ma queste sono vegetariane e «di qualità», cucinate seguendo la ricetta di uno chef. Nonna… Ma fatemi il piacere! Queste lasagne, dicevo, non sono surgelate. Quando le comprate. Ma possono essere composte da alimenti in precedenza surgelati e contengono sicuramente più additivi dei surgelati. E oli provenienti da colza, palma, e soia che vengono utilizzati dopo parziale idrogenazione (bravi, proprio i famosi grassi trans di cui parla anche Spurlock). Poi potrete trovare molti derivati del mais, tra cui amido modificato.
    Ma perché usare tanta soia e tanto mais e derivati? Semplice, perché sono tra le materie prime più sovvenzionate al mondo, mentre frutta fresca e verdure non sono oggetto di sussidio. Inoltre soia e mais dopo la lavorazione si conservano per un sacco di tempo ma sono ipercalorici. E non fatevi l’idea che a produrli siano agricoltori piccoli e medi:

    Quel che hanno fatto [i governi] è stato invece consegnare ingredienti economici al settore dell’industria alimentare mentre elargivano denaro al gruppo ristretto di colossi industriali che dominano il commercio e la trasformazione di generi alimentari sovvenzionati. I sussidi non hanno solo compromesso la sopravvivenza degli agricoltori in via di sviluppo ma anche peggiorato i regimi alimentari delle popolazioni dei paesi occidentali.


    Ovviamente per tenere insieme questi ingredienti occorrono additivi. Quanti? Tanti; fate voi, potete scegliere fra 540.

    Non mangiate questo libro e Non c’è sull’etichetta si completano a vicenda offrendo un quadro abbastanza completo e per niente incoraggiante. Forse andrebbero letti nell’ordine inverso, prima quello di Lawrence e poi quello di Spurlock, per serbare – oltre al ricordo di certe assurdità tanto grottesche da risultare divertenti (si ride a denti stretti, però!) – la consolante convinzione di poter fare qualcosa, anche semplicemente denunciare uno squilibrio socioeconomico e culturale sempre più insensato. E comprendere che cosa stiamo diventando, se davvero siamo ciò che mangiamo.

    Morgan Spurlock
    Non mangiate questo libro
    Fandango 2005, ed. or 2005,
    pp. 340, € 15,50
    trad. Andrea Grechi e Andrea Spila


    Felicity Lawrence
    Non è sull’etichetta. Quello che mangiamo senza saperlo
    Einaudi 2005, ed. or 2004, pp. 262, € 15,50
    trad. Cinzia Di Barbara

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