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    TerraNova

    Il futuro non è più quello di una volta

    • di Davide Mana
    • Ottobre 27, 2012 a 6:06 pm

    Per una Storia Naturale della letteratura fantastica

    di Davide Mana

    Questo non è l’articolo che avrei dovuto scrivere.
    L’ho cominciato, quell’altro pezzo; ne ho scritte due pagine e più, e – certo, con le debite correzioni e ripuliture – c’erano le premesse per un lavoro più che adeguato – intelligente, arguto, ben documentato, ragionevolmente ben scritto, garantito per strappare un cinico sorriso postmoderno ai lettori.
    Non che fosse poi così difficile.

    Il fatto che, a ridosso delle vacanze estive 2003, la Mondadori decida di ristampare Neuromante di William Gibson (1984), nella collana «Oscar Classici» ha in sé i germi di una grande opera buffa.
    Perché ristamparlo (di nuovo)?
    Perché ora?
    Per chi?
    Per la felicità dei liceali che, oppressi da abulici insegnanti di lettere, ora potranno portare Gibson invece di Erodoto quale «lettura di un classico a scelta» per le vacanze?
    O per i «lettori deboli», animali tutti italiani, che associano la dieta sparuta del koala con i gusti disordinati e onnivori del diavolo della Tasmania (per restar fra marsupiali), insomma, che leggono poco e male, e che proprio in questo periodo si avventurano, timidi e disorientati, spesso in branco per farsi coraggio, nel settore «libri» del loro supermarket di fiducia ad acquistare, attratti da prezzi modici e copertine sgargianti, quegli otto decimi di libro pro-capite che piazzano l’Italia alle spalle di nazioni come lo Swaziland nelle statistiche generali di lettura?
    Sarebbe stato facile, vedete?
    Ma poi non me la sono sentita.
    I monumenti – anche quelli costruiti con i rottami – meritano qualcosa di meglio.
    Ho bevuto un chinotto, e ho lasciato che le dita sulla tastiera facessero il resto.
    Molto zen.

    Parte Prima – 1984

    Era l’anno di Orwell.
    L’anno in cui Apple-Mac scrisse «Orwell Sbagliava».
    Sono passati vent’anni, e il mondo è cambiato più di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare.
    Volete avere un’idea di quanto alieno fosse quel mondo?
    Non c’erano i telefoni cellulari, non c’erano i compact disc.
    Il computer a casa vostra (se ne avevate uno) si attaccava alla televisione. Il modem era una cosa di gomma sulla quale si agganciava la cornetta del telefono per contattare, con lentezza oggi inammissibile, delle cose chiamate BBS (ormai esistono solo in Giappone), bollettini informatici che comparivano come monocromatici tremolanti fosfori verdastri. Star Trek era una vecchia serie di repliche con attori in pigiama e con la pancetta, Blade Runner, due anni prima, era stato un flop ai botteghini, e nessuno aveva idea di cosa diavolo fosse un director’s cut. Tron era considerato un film brutto ed incomprensibile, il peggiore mai fatto dalla Disney. Tarantino andava alle medie.
    Seattle era il posto in cui le cose succedevano e qualcosa di grosso stava per succedere, globalmente – lo si sentiva, era nell’aria, non si poteva ignorare – ma i più pensavano sarebbe stata la terza guerra mondiale.
    Contro l’Unione Sovietica.

    William Gibson

    E da un oscuro scantinato canadese, martellando su una vecchia macchina per scrivere meccanica, William Gibson – un autore limitato, con una comprensione rudimentale dei meccanismi del noir e una passione per la musica degli Steely Dan quale unico tratto positivo – ci raccontava le storie del suo antieroe, cupo cowboy del cyberspazio, cittadino di un mondo interamente connesso alla rete informatica, in un futuro prossimo erede di un passato nel quale tutto ciò che poteva andar male era andato male, nel quale le realtà aziendali erano in diretta competizione con le nazioni tradizionali per il controllo del pianeta.
    Gibson, ora lo sappiamo, era un ottimista: il suo universo è infinitamente meno cupo della realtà che il WTO ha svelato alla popolazione del pianeta negli ultimi anni. A sentire il suo eroe che si lamenta costantemente, vien quasi da ridere.
    Ma non possiamo sorprenderci se il romanzo – mediocre, a tutti gli effetti – divenne un testo di culto, la bibbia della wired-generation. Dopo decenni di maltrattamenti e prese in giro, i nerds di tutto il mondo erano finalmente vendicati – uno scrittore-profeta annunciava un futuro in cui tutti avrebbero avuto una giacca di tessuto sintetico che sberluccica e un computer portatile, e conoscere il Basic (ve lo ricordate, il Basic?) avrebbe permesso di rimorchiare alla grande, molto ma molto di più che avere un’auto veloce, o una vita sociale. Persino il punk-rocker Billy Idol, che aveva sempre considerato i computer roba da sfigati, incise un album dedicato a William Gibson e inneggiante alla rivoluzione cibernetica.
    In capo a dieci anni, tutto quanto (anche la carriera di Billy Idol) sarebbe finito, ma fintanto che durò, furono in tanti a crederci.

    Primo Interludio – La Formula del Futuro


    Il cyberpunk piacque subito molto agli editori.
    In primis, perché era una comoda etichetta merceologica, e secondariamente perché tale etichetta indicava una merce che non era diretta al solito bacino di appassionati di fantascienza, ma interessava un pubblico molto più ampio. Neuromancer, che fra 1985 e 1985 spazzolò tutti i principali premi della fantascienza (Hugo, Nebula, A. C. Clarke) e che non presentava una sola nuova singola idea (molte delle trovate più «innovative» di Gibson erano già comparse in svariati romanzi pubblicati dal 1958 in poi) era infatti «letteratura seria».
    In realtà, il gioco di Gibson è riassunto nel titolo del suo romanzo – Neuromancer, che al contempo gioca sull’assonanza con «necromancer» e con «new romancer».
    Si tratta di una narrativa romantica, così come è fondamentalmente un’estensione della sensibilità romantica il noir cui si ispirano tanti guru del genere. E come il noir, per molti versi anche il cyberpunk è più simile al fantasy che non alla fantascienza o alla letteratura realistica: il «neuromante» è l’equivalente di uno stregone, capace di entrare in contatto con un’altra realtà (il «cyberspazio») e attraverso di essa operare modifiche sulla realtà principale.
    Se non c’è nulla, nell’hardware di cui è costellato il cyberpunk, che non avessero già inventato John Brunner, Alfie Bester e Samuel Delany negli anni Sessanta, non vi è parimenti nulla, nel «software» che anima i protagonisti del cyberpunk, che non fosse già stato esplorato da Fritz Leiber nelle sue storie di Fafhrd e del Gray Mouser[1] – eroi cinici e feriti, amorali e creduli, soli in un mondo reso piccolo, simultaneo (oseremo mai dire «globalizzato»?) da dèi avidi e stregoni allucinati – o da Michael Moorcock e fiancheggiatori vari nelle storie di Jerry Cornelius – guerra come intrattenimento, omicidio come passatempo, sesso, droga e rock’n’roll.
    Controllate: il cyberpunk è una forma elettrificata di fantasy.
    Compresero bene questa peculiarità Nigel Findley e i suoi complici, che nel creare Shadowrun (il più popolare universo condiviso di tema cyberpunk) vi inserirono anche il sovrannaturale, tramite il riferimento alle emergenti pratiche New Age.
    E il New Age è stato effettivamente trascurato – insieme con gran parte delle altre pratiche spirituali più o meno ortodosse – dagli autori cyberpunk. I loro cyber-universi – con la sola possibile eccezione del musulmano e barocco Budayeen del compianto George Alec Effinger – sono radicalmente, desolantemente atei, e nessuna delle molte tesi di laurea sul cyberpunk ha mai analizzato questa mancanza di attenzione per i futuri sviluppi dell’umana spiritualità.

    Ma i più non riuscirono comunque a vedere mai oltre l’hardware – la ferramenta cromata, le donnine in latex, gli effetti speciali, lo slang.
    Proprio facendo riferimento a questi elementi esteriori del genere, il peraltro abile Walther Jon Williams scrisse Hardwired, a tutt’oggi il più venduto romanzo cyberpunk della storia, costruito a tavolino partendo da una «lista della spesa» di tutti i cliché che venivano considerati «essenziali» affinché un romanzo di fantascienza fosse «vero cyberpunk»; fu una delle più bieche operazioni commerciali del secolo, e – conformemente al vero spirito del genere – ebbe un successo strepitoso.
    In retrospettiva, questa profonda incomprensione del vero motore della narrativa, e l’autocompiacimento di una gran parte del pubblico, furono le cause della morte del cyberpunk.

    Parte Seconda – Er Saiberpanc de No’antri

    La Nord pubblicò Neuromante in Italia nel 1986, e il romanzo non fece troppo rumore – tutti erano intenti a leggere ed a discutere Il nome della rosa da poco uscito in tascabile, e toccò aspettare che quella sbornia passasse perché il pubblico potesse prenderne un’altra.
    La frenesia cyberpunk, quindi, avrebbe raggiunto il suo apice nel nostro paese solo all’inizio degli anni Novanta, mentre il genere avvizziva e moriva in tutto il resto del mondo.

    Rivista italiana cyberpunk

    Il cyberpunk assunse da noi toni più apertamente politici, e vennero lanciate case editrici specialistiche, il catalogo equamente diviso fra romanzi cyberpunk d.o.c., prodotti autarchici dalla qualità molto ineguale, pamphlet politici spesso piuttosto confusi, manuali di informatica radicale e testi sull’etica hacker. Si tennero rassegne cinematografiche cyberpunk in cui venne passato di tutto, da Akira a La mosca. Misteriosi esperti sudame- ricani arringarono con accenti da cantanti di mambo il pubblico perplesso sulla creazione di ipertesti in linguaggio Clipper, perché il libro cartaceo, era palese, aveva le ore contate.
    E tutti si sentirono un po’ cyberpunk, un po’ al limite – on the edge.
    Perché era questa la grande forza del cyberpunk – come Star Trek o Guerre Stellari era «fantastico da indossare», ma a differenza di Star Trek e Guerre Stellari, era possibile mettersi in costume quasi a tempo pieno, e fare la figura dei ribelli invece che degli sciocchi. Niente date astrali, niente galassie lontane lontane – la cybercultura era qualcosa che stava capitando ora, in tempo reale, il cui progredire si leggeva sulle riviste, della quale si poteva essere parte integrante bevendo smart-drink e abbonandosi a «Phrack Magazine».
    Certo, in Italia il fenomeno assunse sfumature un po’ più provinciali – l’hinterland milanese non è la Silicon Valley – e un po’ più fasulle: era possibile fare un paio di copie illegali di Prince of Persia e andare a raccontare in giro di essere pirati informatici, ci si poteva fare di strane sostanze chimiche e raccontare che si stavano «esplorando i limiti del paradigma». In un paese ancora ampiamente illetterato a livello informatico, un semplice debug del vecchio Windows 3.1 attraverso il prompt di DOS poteva sembrare una prodezza da hacker consumati.
    Ma a parte questo – e lo sfasamento di pochi anni – andò da noi com’era andato in tutto il resto del mondo: attorno al 1994 divenne abbastanza evidente che il giocattolo si era spaccato una volta per tutte.
    Perché il 1994 era un anno proprio diverso.
    I computer erano a colori, solo i boscimani – forse – programmavano ancora in Basic e quello della comunicazione – via computer o via telefono – era il campo in cui ciò che doveva succedere stava finalmente succedendo. Kuala Lumpur era la città più tecnologica del mondo.
    William Gibson stava sceneggiando il terzo episodio di Alien. Trondella Disney era un film introvabile, oggetto di un piccolo culto, ma in compenso Star Trek era di nuovo in TV. E al cinema.
    Nuove pancette, nuovi pigiami.
    L’uomo più ricco del mondo era, effettivamente, un nerd, ma dotato di ben poca coscienza di classe.
    Presumibilmente rimorchiava alla grande, mentre i cyberpunk del mondo occidentale stavano esaurendo le proprie esistenze in uffici anonimi, a elaborare proiezioni di utenza.
    Se erano stati fortunati.

    In libreria comparivano cose molto sinistre, cyberpunkisticamente parlando – come Fire in the Deep, che nel 1994 spazzolò gli stessi premi tributati a Gibson dieci anni prima, e che la Nord pubblicò nel 1996 come Incostante universo. Romanzo intelligente, divertente, molto ben costruito, pieno zeppo di idee molto stimolanti, ma – giratelo come vi pare – decisamente una space opera, appartenente cioè a quel genere nella bara del quale il cyberpunk avrebbe dovuto piantare l’ultimo chiodo a metà degli anni Ottanta. Un romanzo che la rediviva Nord, in un gesto tanto ironico da sembrare studiato ad hoc come happening post-situazionista, ha ristampato quasi lo stesso giorno in cui la Mondatori ristampava Neuromante.
    La nuova space opera aveva imparato la lezione di Edmond Hamilton, quella di Jack Vance e quella di David Brin, ed era snella, concettualmente all’avanguardia, intelligentemente avventurosa e prevalentemente europea. Fatta per durare.

    Secondo Interludio – La Notte che il Cyberpunk Morì

    Se il cyberpunk fece qualcosa di buono – e la giuria è ancora in riunione a riguardo – lo fece dimostrando che il modo in cui una storia è scritta, il tono, il linguaggio, sono altrettanto importanti del contenuto, della trama, della soluzione finale del mistero. Un bel salto concettuale, rispetto al più volte reiterato discorso di Isaac Asimov, sulla prosa della fantascienza come vetro di finestra, invisibile ed efficiente, uguale per tutti, mai partecipe alla narrazione degli eventi che permette di vedere. Oh, certo, nulla di nuovo rispetto a ciò che avevano detto e fatto gli autori di New Worlds fra gli anni Sessanta e Settanta, ma con una esposizione mediatica infinitamente maggiore. La New Waveinglese aveva fatto molto più di quanto il cyberpunk avrebbe mai potuto fare – regalandoci, nel processo, autori come M. John Harrison – ma il cyberpunk non poteva essere ignorato, o relegato al settore specialistico della letteratura fantastica.
    Era stato troppo pubblico.
    In troppi avevano visto, e avrebbero ricordato.
    Ma i più non riuscirono mai a vedere oltre l’hardware.
    E quando l’hardware non si concretizzò – quando la realtà virtuale si rivelò una cosa spigolosa e lenta a sedici colori (prendi la palla/posa la palla), la rete si riempì di pubblicità e siti pornografici, gli arti artificiali divennero sinonimo di Frontiera Afghana e non di Frontiera Elettronica (Khyberpunk anziché Cyberpunk), e l’Intelligenza Artificiale si rese irreperibile (un chiaro segno di Intelligenza, vista l’aria che tirava), i più persero l’entusiasmo e la poesia.

    Arrivarono gli X-files, a tramutare gli hacker ipotetici in teorici presunti della cospirazione. Erano ancora più confortevoli da indossare, gli X-files, si potevano portare anche in ufficio, e non era necessario imparare il JavaScript per darsi delle arie – bastava aver visto JFK e Incontri Ravvicinati.
    Infine, nel 1998, Patrick S. Farley pubblicò on-line un gustoso, drammatico fumetto elettronico (http://e-sheep.com/almostguy/) in cui veniva rivelata la verità – la cybercultura non era mai esistita. Le interviste comparse su Mondo2000 erano false, le nuove scoperte segnalate da «Wired» erano bufale, «Edge Magazine» pubblicava solo frottole studiate ad arte. Si trattò, nella provocatoria tesi di Farley, di una ciclopica truffa – alcuni astuti editori si accorsero di una necessità nel pubblico e fornirono i mezzi (falsi) per soddisfarla. Bastava aspettare e sarebbe successo, dissero, il futuro si sarebbe realizzato – perché uno dei paradigmi della cybercultura era che tutto – le reti, le interfacce, la rivoluzione digitale – sarebbe capitato e basta, senza che nessuno si impegnasse per crearlo materialmente. Come nelle favole, come nel fantasy, solo molto più plausibile, e quelli che ci credettero finirono a girare hamburger da MacDonald’s.
    I digerati – la classe di VIP dell’era digitale che avrebbe dovuto aprire la strada verso la Frontiera Elettronica – si erano premurati di tenere le distanze con la bassa plebaglia, procurandosi al contempo contratti di platino con colossi come la Time-Warner, o America On-Line.
    Il cyberspazio – rudimentale ma funzionante – era aperto a chiunque potesse pagare il biglietto d’ingresso e fosse pronto ad accettarne le regole.

    Parte Terza – Shock to the System

    Rileggere Neuromante nel 2003 è quasi una forma di archeologia intellettuale. Le Storie di Erodoto, con buona pace dei liceali riottosi, sono invecchiate meglio, e hanno più cose da dirci.
    Il linguaggio di Gibson non è servito al meglio dalla traduzione, né dalla lingua italiana, troppo refrattaria allo slang, e la trama è una sciocchezza impressionante. La copertina della ristampa non c’entra nulla col romanzo.
    Negli anni che sono intercorsi sono stati pubblicati libri infinitamente più interessanti, più importanti, meglio scritti, più divertenti, che hanno fatto tesoro del poco, pochissimo che Neuromante poteva insegnare, e hanno fatto molto meno rumore. Nel frattempo William Gibson, che ha sceneggiato Alien 3(orribile) e vive per pagarne le conseguenze, davent’anni tenta inutilmente di bissare il successo nel suo «new romancer», senza riuscirci.
    Senza poterci riuscire.
    L’onda è passata sopra di lui, ed è andata Oltre.
    Che cosa ci fa, nei «Classici», questo piccolo romanziere canadese? L’esperienza archeologica è stemperata da una vena di malinconia – i profeti del cyberpunk, che alle convention di fantascienza, ai saloni del fumetto e ai tornei di gioco di ruolo ti attaccavano un bottone che non finiva più, per convincerti che se era bello doveva essere cyberpunk, e se non poteva essere cyberpunk allora non poteva essere bello, erano onestamente una noia mortale, e irritanti, e sciocchi, ma il loro zelo miope è stato forse punito con un destino peggiore della morte.
    Smesso il vecchio costume, e come i loro simili d’oltreoceano qualche anno prima, si sono trovati un lavoro onesto – facendo pagine internet o data mining, gestendo database altrui alla velocità del pensiero, gestendo immobiliari in franchising, facendo banking on line, senza tuttavia trovarci una sola piccola scintilla di eccitazione, di SOTA, di edge. Scaricano dalla rete file mp3 durante l’orario di ufficio per sentirsi fuorilegge informatici, e non hanno tempo per leggere più di otto decimi di un libro l’anno, e non potrebbero mai indossare giacche di tessuto sintetico che sberluccica – perché l’azienda preferisce lo stile classico.
    Il futuro non era mai stato così.
    Perciò ora chiuderò questo articolo e, dopo averlo trasportato dal deckal server di rete e averne controllato ortografia e grammatica con un sistema neurale distribuito procuratomi illegalmente attraverso un sito cypherpunk polacco, comprimerò i dati e li invierò criptati al mio editore tramite rete a 800 kbs.

    una scena di Blade Runner

    Al contempo, sollevati gli sbarramenti contro le eventuali intrusioni di hacker sul mio sistema (che è Linux, tutto gratuito, sviluppato da un consorzio di operatori indipendenti, usato anche dalla NASA), contatterò i miei amici – mai incontrati di persona – in Giappone, Stati Uniti e Malesia, per fare quattro chiacchiere – magari sulla guerra a bassa intensità che da anni contrappone il blocco islamico alle potenze occidentali, magari sul cambiamento climatico globale. Riuscirò così forse a scordare per un attimo che vivo a quasi ventimila chilometri dalla città più tecnologica del mondo, che è Shanghai, e mi trovo invece in un paese in cui il leader della più grande corporazione industriale è anche il leader del governo.
    Poi seguirà una notte di insonnia – la mente sovreccitata da troppi chinotti. Guarderò magari un film di Hong Kong, o Blade Runner, o Tron, il capolavoro dimenticato che ora si trova, in DVD, in tutti i supermercati. O mi collegherò alla web-cam della Stazione Spaziale Internazionale, o ascolterò l’ultimo CD multimediale degli Steely Dan.
    Io, cresciuto a space opera e sword & sorcery, che il cyberpunk non l’ho mai filato neanche da lontano.
    E loro, i vecchi c-punk, non si accorgeranno di nulla.
    Perché a quest’ora, loro dormono.

    [1] talvolta riportato come Grey Mouser.

    da LN-LibriNuovi n. 27 – settembre 2003

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