Gregory Benford, autore di sf e divulgatore scientifico di grande livello è attualmente ultrasettantenne, ma continua a lavorare e a scrivere. E questa è già di per sé una buona notizia, nonostante che a titolo personale non tutte le sue opere di narrativa che mi sono passate per la mani mi abbiano soddisfatto. Ma, in realtà, sono ben poche le opere di Benford disponibili attualmente nella lingua di Dante, un vecchio romanzo ripubblicato di recente da Urania Mondadori, Se le stelle fossero Dei – una ristampa da un Urania uscito nel 1991 – e un racconto uscito quest’anno nella collezione di Gardner Dozois (Year’s Best SF 34, 2017) tradotta per Urania nel 2018 (Parte 1): Il vortice, ed. or. 2016. Ottimo racconto, detto per inciso. Le numerose opere uscite negli anni ‘80 e ‘90, tra le quali la Saga del Centro Galattico, le collaborazioni con altri autori… tutto svanito e dimenticato, per lo meno in Italia.
Il romanzo che mi trovo a recensire qui è Maree di Luce (ed. or. Tides of Light ,1989) il quarto della serie della Saga del Centro Galattico, l’ultimo ad essere stato pubblicato in italiano anche se la serie comprende altri due volumi successivi[sic]. Il libro, come dicevamo, è del 1989 e l’edizione italiana in mio possesso è del 1995, nella traduzione di Paola Andreaus. Il costo non è esattamente limitato (25.000 lit.) e da un punto di vista redazionale si tratta del consueto prodotto mondadoriano: privo di prefazione o postfazione, note, intro ovvero di un paratesto comunque inteso. C’è una noticina definita «Biografia» che che ci informa che Benford ha scritto anche altri libri e che è docente di Astrofisica presso un’Università Californiana (San Diego, aggiungo), oltre a un frammento di dialogo con il nome del protagonista stampato sbagliato.
La vicenda è questa: in un lontanissimo futuro la galassia sarà dominata da due razze: la Meccanizzazione, orrendo prodotto autocosciente ed invasivo della tecnologia umana e i Podia, una razza di formiche senzienti (e di dimensioni gigantesche rispetto alle congeneri terrestri), organizzate in una società fortemente gerarchica e tecnologicamente avanzatissima. Gli esseri umani, sconfitti e resi perpetui esuli dalla Meccanizzazione – tema che è al centro della Saga – vagano per il cosmo con pochi ricordi della perduta grandezza, organizzati in comunità socialmente a metà tra la famiglia patriarcale e l’equipaggio di un vascello militare. I Bishop, la Famiglia Umana guidata da Kileen, giunge su un pianeta dominato dai Podia e dopo numerose traversie e plurimi lutti arriva a dialogare con i formiconi, scoprendo l’esistenza di un antichissimo legame tra le due razze.
Da un punto di vista puramente fantascientifico ci sarebbe materiale per scrivere un romanzo mediamente ricco di suggestioni – anche se formiconi, mostri robotici ed esuli galattici non sono esattamente una novità – ma Benford non è Vance e pur dotato di sufficiente ingegno narrativo nel disegnare una situazione complessa non si preoccupa di articolarla appena oltre un livello accettabile, in questo aiutato da uno stile faticoso e anonimo – perlomeno nella traduzione italiana.
Alcuni esempi: Kileen, il protagonista, custodisce nella propria mente le gestalt elettroniche dei propri antenati, ma questi ultimi sono dei chiacchieroni, talvolta scocciatori, spesso inopportuni, i cui consigli servono a niente o quasi. La formicona che entra in contatto con gli umani ha la psiche di una complessità da ricordare il Grillo Saggio e in quanto alla Meccanizzazione se ne ignora qualsiasi motivazione o disegno. Certo, avendo letto i tre volumi precedenti è molto probabile che Benford abbia dedicato copiose spiegazioni alla logica della Meccanizzazione, ma in questo libro il lettore può arrivare al massimo a supporre che, essendo le macchine delle macchine – dagli aspirapolveri ai robot multisistemi – hanno ed avranno il solo scopo di complicare ed ostacolare la vita degli esseri umani.
Nel corso del volume Benford si produce in alcune speculazioni fisico / cosmologico / tecnologiche di indubbia efficacia, ma spesso idee o suggestioni cucinate nello stile anonimo attribuitogli finiscono per scivolare via senza lasciare traccia.
Inevitabile, in sostanza, chiedersi quanto la traduzione abbia contribuito a questo deludente risultato. Infatti è difficile che Benford, sia pure dotato di competenze scientifiche, scriva senza l’aiuto di un dizionario dei sinonimi. E i traduttori sono così malpagati da non potersi permettere un dizionarietto e hanno così poco tempo per consegnare la traduzione da dover tradurre in piedi, sul tram, al semaforo aspettando il verde? Anche ammettendo che Gregory Benford non sia un autore dallo stile ricco e complesso – ma comunque efficace nel raccontare una parte della futura storia possibile della specie homo sapiens sapiens – viene da chiedersi quando la Nostra Grande Mondadori smetterà di etichettare il lettore di sf come il solito frescone che non si accorge nemmeno che nello spazio di tre righe è scritto due volte «teso» e una volta «tensione»? «Ma tanto il frescone vuol vedere come va a finire», si pensa dalle parti di Segrate ma spesso non è così: chi legge vuol sognare, speculare, meditare, costruire metafore e riflettere sul presente e non si deve essere costretti a districarsi in un lavoro redazionale largamente insufficiente nel tentativo di costruire le intenzioni dell’autore…
In ogni caso un libro che può meritare la lettura – particolarmente se condotta in edizione originale – o anche in traduzione italiana, ricordando, tuttavia, che non state leggendo esattamente Gregory Benford.
Gregory Benford, Maree di luce, Mondadori 1995 [ed.or. 1989, Tides of Light], pp. 448, trad. Paola Andreaus
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