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    Interzona

    Sogni e desideri segreti degli oggetti

    • di Massimo Citi
    • Ottobre 29, 2012 a 9:21 am

     di Massimo Citi


    Sono cresciuto negli anni Sessanta. Nulla di strano in questo. In quegli anni è cresciuta la generazione dei baby-boomers. Mio padre mi ha attaccato la mania della fantascienza. E anche questo non è poi troppo strano. Si cresceva circondati da oggetti di recente invenzione e dal prezzo in costante diminuzione. Leggere fantascienza era anche un modo per interrogarsi su quella benefica invasione, per lasciare emergere il sottile timore che lavatrici, lavastoviglie, televisioni, mangiadischi e i mille altri aggeggi che circondavano la mia vita di bambino prima e teen-ager poi, non mi (ci) avrebbero soppiantato.
    Ricordo di avere passato in simbiosi con la lavatrice la sua prima serata a casa dei miei. E ricordo benissimo la sensazione di reverenza quasi magica con la quale spiavo le sue viscere in funzione attraverso l’oblò.
    Quando ero nell’età nella quale si affrontano testi «da grandi» la paura della bomba era già almeno in parte impallidita e di quel terrore così interamente tecnologico mi sentii almeno un po’ defraudato. Come centinaia di milioni di altre persone attribuivo al possibile olocausto nucleare lo stesso fascino remoto, grandioso e malefico di un’invasione aliena e un grado di probabilità di poco superiore. Se allora mi avessero detto che all’inizio del XXI secolo l’Occidente sarebbe stato infognato in una squallida guerra di conquista travestita da Crociata invece che lanciato alla conquista dello spazio ne sarei stata molto deluso.
    Ma l’interesse per la tecnologia non mi ha mai abbandonato, anche se, esaurita la sensazione di meraviglia dovuta agli oggetti quotidiani e familiari cominciai a provare interesse per i tentativi dimenticati, per le tecnologie possibili e impossibili, per i fiaschi, i sogni, i deliri.
    Scoprii di essere incuriosito e affascinato dai fallimenti. Forse cominciavo a trovare invadente – e troppo prosaica – la tecnologia che mi circondava: rumorosa, puzzolente, claustrofobica, capace soltanto di coniugare il verbo «avere» o, meglio ancora, «possedere». Nata da sogni grandiosi ma presto svilitasi a gara di marche e cilindrate, tigri nel motore e altre consimili sciocchezze. Non riuscivo a vedere alcun punto di contatto tra l’omino Michelin e i silenziosi, giganteschi accumulatori nascosti nel ventre del Pianeta Proibito.
    Non mi sembrava che la tecnologia vincente fosse quella «giusta». Mi sembrava sporca e pericolosa.
    Anche adesso, per la verità.

    Vincente/perdente. Siamo cresciuti e viviamo convinti che le attuali tecnologie costituiscano il vertice (sia pure temporaneo) dell’ingegno umano. Che ciò che si è affermato – lavatrici, automobili, computer ecc. – debba il suo successo a caratteristiche intrinseche di eccellenza. Naturalmente, dal momento che si tratta di una convinzione diffusa e comunemente accettata senza alcuna resistenza, esistono le condizioni minime necessarie per dubitarne.

    Nonostante il professor Bertagna, coautore di una riforma della scuola che escludeva la teoria dell’Evoluzione dall’insegnamento nelle medie inferiori, credo possa essere proprio questa teoria a fornirci qualche lume per procedere. Darwin infatti – come Einstein, Heisenberg e pochi altri – non ha enunciato semplicemente una teoria, come piace credere ai poveri di spirito (anche se stipendiati dal ministero dell’Istruzione) ma ha definito un approccio metodologico alla definizione del reale. Ci ha fornito uno strumento, un metodo prezioso per comprendere come funziona il mondo.

    Cominciamo da uno degli elementi principali del paesaggio tecnologico conteporaneo: il motore a scoppio. Una tecnologia relativamente semplice, basata sulla combustione di idrocarburi. Una tecnologia longeva, che sta scaldando l’atmosfera del pianeta da più di un secolo, e tuttora al centro del panorama economico mondiale, se è vero (come è vero) che buona parte delle imprese a capitale statunitense – in compagnia di satelliti e reggicoda – hanno occupando l’Iraq (grazie ai soldi dei contribuenti americani) in quanto secondo produttore mondiale di petrolio.
    È la migliore tecnologia possibile per il trasporto individuale?
    No.
    Ha un’efficienza relativamente bassa, un costo sociale e ambientale altissimo ed è basata su risorse non rinnovabili. È destinata all’estinzione, proprio come certe specie animali che si nutrivano di poche specie di piante poi scomparse a causa di mutamenti climatici. Pensate ai panda, che vivono (male) nutrendosi di germogli di un solo tipo di bambù.
    Esistono tecnologie migliori? Certo. Da diversi punti di vista. Sia per l’impatto ambientale, sia per l’uso di risorse rinnovabili. Se poi si arrivasse a pensare che il trasporto individuale – dalle autostrade ai megaparcheggi – non costituisce una priorità assoluta e che potrebbe essere intelligentemente sostituito da una rete di trasporti pubblici ad altissima connettività, avremmo suonato il de profundis definitivo all’automobile e alle guerre per il petrolio.
    Perché le tecnologie migliori non decollano? Semplice, non ci sono sufficienti investimenti. Non solo: chi ha investito e investe nella produzione di automobili o nel traffico di petrolio non ha nessun interesse che tali tecnologie arrivino alla maturità. Insomma, in un mondo di dinosauri i mammiferi restano piccoli e nascosti. L’ambiente – in questo caso il modello di sviluppo economico prevalente – ha sanzionato il successo del trasporto individuale, esattamente come ha determinato il successo della televisione in ogni casa (o in ogni stanza) e del personal computer. Della disponibilità e del possesso di beni strettamente personali, al di fuori di ogni logica di semplice uso, di comunità, di possesso sociale.
    Possesso contro uso, personale contro sociale.


    Giganteschi motori (a turbina) spingevano le corazzate e i grandi incrociatori britannici e tedeschi che si scontrarono nel 1916 nella più grande battaglia navale (per numero e tonnellaggio delle unità coinvolte) della storia della marineria. La vittoria ai punti fu degli inglesi che persero più navi e più marinai ma obbligarono i tedeschi ad abbandonare il campo.
    Motori a turbina di 70.000, 80.000, 85.000 cavalli vapore per vascelli dalle 20.000 alle 35.000 tonnellate, lunghi fino a 200 metri, in grado di sostenere velocità superiori ai 20-25 nodi anche in condizioni di mare mosso. Motori spinti da carbone e nafta nelle navi della Home Fleet inglese, spinti dal solo carbone per la Hochseeflotte tedesca.
    La Germania aveva ben pochi possedimenti d’oltremare e non poteva contare su approvvigionamenti costanti e sicuri di petrolio. Sicché gli ingegneri tedeschi dovettero puntare tutto sul carbone, riuscendo a mettere comunque in mare navi da guerra di qualità equivalente o, in qualche caso addirittura superiore, a quelle della leggendaria flotta inglese.
    Jutland, di Sergio Valzania, «Le Scie»Mondadori, non è il consueto libro di eroici scontri navali, di intrepidi ammiragli e di valorosi (e silenziosi) marinai. Racconta di mezzi tecnologici nati per la guerra e di coloro che su quei mezzi dovevano vivere, combattere e, nel caso, perire. L’affondamento di una grande nave da guerra in battaglia comportava infatti, generalmente, la morte della stragrande maggioranza del suo equipaggio.
    Valzania (curiosamente oltre che giornalista e storico, appassionato autore di fantasy e fantascienza) dedica molto spazio al racconto dell’ideazione e progettazione di questi titani del mare, sottolineandone ciò che un biologo evoluzionista chiamerebbe «specializzazione». A partire dagli ultimi anni del XIX secolo, infatti, partì una rincorsa alla costruzione di navi sempre più veloci e meglio armate, anche a costo di ridurre peso e spessore delle corazzature. Una rincorsa che si prolungò fino agli anni Trenta con la costruzione (e l’affondamento) delle cosiddette «corazzate tascabili» del Terzo Reich: Bismark, Von Tirpitz e Graf von Spee.

    Sergio Valzania

    Per una manciata d’anni tali navi furono quanto di meglio esistesse – militarmente parlando – sulla superficie marina, almeno finché non giunsero le portarei e gli aereosiluranti a spedirle in massa alla rottamazione o in fondo al mare. In loro compagnia scomparvero i grandi transatlantici e i dirigibili.

    Riflettere sull’eclisse o sulla morte di una tecnologia non è un’operazione oziosa come può sembrare. La scomparsa delle grandi unità navali (intendendo qui sia le navi «marine» sia quelle «aeree») non è tanto l’effetto collaterale di un progresso immancabilmente in marcia verso sempre nuovi magnifici traguardi, ma piuttosto il sintomo di un «ambiente» che si è profondamente modificato tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento. In quell’arco di tempo è mutato il modello di sviluppo prevalente, cambiato di segno il rapporto tra stato e mondo produttivo. Sul capitalismo «imperiale» europeo, dirigista e statalista, indebolito dal primo conflitto mondiale, ha prevalso un capitalismo moderno – essenzialmente americano –, basato su un’organizzazione produttiva razionale e standardizzata.

    La vittoria dell’aereo sul grande dirigibile – o della portarei sulla corazzata – è la vittoria di un modello di società dove il processo produttivo determina la politica e dove i suggestivi giganti dell’aria e dell’acqua, nati da ambizioni di dominio e resi possibili da enormi concentrazioni di ingegno, esperienza e risorse, non possono più, semplicemente, nascere.
    Non è stato questo, in fondo, anche il destino delle missioni Apollo e della «corsa allo spazio»?
    Nulla di strano che esistano nostalgie o rimpianti per le grandi navi di un tempo o per le astronavi che nessuno ha mai costruito o che sia relativamente facile incontrarne tracce nella tradizione fantascientifica. Forse perché gli autori di sf sono per lo più degli idealisti disadattati (vedi «scoppiati») e quindi sentono forte il fascino non soltanto del futuro ma anche del condizionale, ovvero di ciò che è andato perduto e di ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato.
    Ma anche senza essere scrittori di fantascienza è utile riflettere che il progresso tecnologico – esattamente come l’evoluzione dei viventi – non è guidato da una tensione interna verso la perfezione ma, più semplicemente, è parte – conseguenza ma anche concausa – di un complesso di eventi e tendenze determinato da elementi politici, economici, sociali e psicologici.

    Passiamo a un altro feticcio tecnologico, adesso, un elemento essenziale del paesaggio mediatico.
    La televisione è nata nel 1925, non nel dopoguerra.

    All’inglese Baird si devono le prime dimostrazioni pubbliche di televisione vera e propria in gennaio [del 1925], a cui seguiranno successivamente la prima ripresa televisiva di un lavoro teatrale […] nel 1930 […] e l’inizio del primo servizio televisivo regolare per la BBC nel 1932.


    La TV di Mussolini, di Diego Verdegiglio, Cooper Castelvecchi editore, racconta la storia di una televisione nata due volte. Nell’interguerra e dopo la Seconda guerra mondiale.
    Lo sviluppo della televisione, infatti fu bloccato dallo scoppio della guerra. I tecnici e gli scienziati «riconvertiti» alle «ricerche sui congegni automatici di puntamento delle armi da fuoco».
    Ma il problema non fu soltanto di economia di guerra. Già la televisione a colori, nata in pratica contemporaneamente a quella in bianco e nero (la prima coppia telecamera/televisione a colori apparve nel 1928) non riuscì a decollare perché l’industria elettronica aveva «puntato» sulla TV in bianco e nero. E la televisione dovette comunque scontare la concorrenza del cinema e della radio, allora al loro maggiore momento di successo, ovvero di due tecnologie mature dotate di un proprio lessico e di un’estetica ormai definita. Lessico ed estetica che per quanto riguarda la televisione muovevano i primi passi alla fine degli anni Trenta.

    Le camere erano fisse: tutt’al più il treppiede che le sosteneva consentiva spostamenti minimi e dannosi alla stabilità dell’immagine. Di conseguenza era impossibile carrellare. Il montaggio della ripresa era affidato a una serie di inquadrature fisse, alternate a qualche panoramica elementare.


    La televisione (radiovisione nel vocabolario fascista) anteguerra era «povera» e gli apparecchi riceventi costosissimi (23.000 lire dell’epoca per un’ora di trasmissioni al giorno soltanto a Roma e Milano). La produzione per un mercato «popolare» era già nata – in Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti –, ma la funzione giornalistica della televisione era ancora embrionale e comunque inferiore in termini qualitativi a quella dei cinegiornali, visto che riprese televisive in esterni erano macchinose e complicate e la possibilità di realizzare «telegiornali» ancora problematica.
    Insomma, la televisione non si affermò «automaticamente» e per un lungo periodo rimase l’hopeful monster della situazione, ovvero la tecno-creatura ricca di possibilità future che nessuno riusciva a immaginare compiutamente.
    Il successo della televisione venne soltanto nel dopoguerra, quando divenne insieme parte e strumento di un nuovo modello di vita, del quale faceva inevitabilmente parte la comunicazione pubblicitaria.

    I propagandisti di tutte le risme pagheranno fior di quattrini per assicurarsi l’occasione di raggiungere le plebi che non solo non sanno leggere, ma nemmeno capiscono a pieno il significato di una frase parlata. Dovremo quindi rassegnarci a dei programmi di televisione imbottiti di propaganda più di quanto non lo siano oggi quelli radiofonici.


    Così scriveva Enzo Cajone nel 1945, dimostrando una straordinaria capacità di previsione…
    Davvero singolare, tuttavia, che per lungo tempo la televisione non sia stata considerata un’alternativa praticabile agli strumenti di riproduzione di suoni e immagini disponibili. Un affascinante giocattolo, tutt’al più, una «diavoleria moderna» eccessivamente costosa e con uno schermo di dimensioni ridicole rispetto a quello del cinema. Negli anni Trenta del XX secolo lo sviluppo della televisione non era ineluttabile come possiamo pensare oggi. Auspicabile, «divertente e istruttivo» – per citare un binomio tipico della «propaganda» degli anni dell’interguerra – ma privo della necessità che normalmente si attribuisce alle tecnologie fondamentali.
    Ventesimo secolo, secolo del fordismo.


    Arriviamo infine a un altro caposaldo della tecnologia della fine del secondo millennio: il personal computer.
    E a un altro libro.
    Le macchie di Gutenberg di Filoteo M. Sorge, Editoriale Olimpia, è un libro che promette parecchio più di quanto effettivamente mantenga.
    Sottotitolo del libro infatti è E altri capitoli di tecnologia controfattuale. Controfattuale è un aggettivo che definisce con precisione un campo semantico. Si può applicare – per esempio – al romanzo Contropassato prossimo di Guido Morselli o all’articolo di William Shirer Come Hitler vinse la Seconda Guerra Mondiale, ma non risulta troppo agevole da applicare al libro di Sorge, ricco di osservazioni curiose, di affascinanti risvolti storici e di piacevoli divagazioni (l’autore vanta il soprannome di dottor Divago), ma tutto sommato incapace di estrapolazioni coerenti e ben argomentate o di snodi controfattuali che non risultino oscuri o appena accennati. L’aspetto singolare del libro è proprio il fatto che l’autore – che pure è stato ideatore e coordinatore di una rivista di sf – risulti «timido» e approssimativo proprio nel campo della speculazione storica.
    Una volta detto che cosa non è, è bene spiegare che Le macchie di Gutenberg è un saggio sulla storia della comunicazione. Cominciando dall’invenzione dei caratteri mobili da stampa, per passare alla travagliata storia dell’invenzione del transistor e giungere infine all’affermazione del microprocessore.

    Il primo transistor

    Sorge avanza alcune ipotesi interessanti (anche se non nuove) sull’origine della stampa, postulandone la nascita e lo sviluppo in Corea e una successiva «falsa invenzione» in Europa. Per il transistor avanza la ragionevole ipotesi che sia apparso (in Germania) almeno un ventennio prima della sua data di nascita ufficiale (negli Stati Uniti), anche se ben pochi (o nessuno) si resero conto delle sue potenzialità. Per il personal computer, infine, Sorge si chiede quale sarebbe potuto essere il futuro della computabilità di massa senza l’affermazione dell’elaboratore personale, ovvero di una macchina che, come spiega l’autore è

    l’esecutore di contenuti e l’ambiente di generazione dei contenuti medesimi. È come se per fare un viaggio in aereo dovessimo fare un corso di pilotaggio anziché acquistare un biglietto.

    Da questi tre interrogativi – oziosi soltanto per coloro che preferiscono non chiedersi come funziona davvero il mondo – Sorge fa discendere alcune interessanti (talvolta stravaganti) ipotesi sulle tante possibili storie controfattuali che sarebbero potute nascere se le cose in Corea, in Germania o negli Stati Uniti fossero andate appena un po’ diversamente. Dalla scoperta dell’America da parte dei coreani, alla nascita di un’industria elettronica tedesca negli anni Venti, alla diffusione precoce di un’internet basata su grandi elaboratori ai quali collegare una rete di terminali domestici.
    Come nota giustamente Sorge quest’ultima ipotesi prevede «controllo» della potenza di calcolo, grandi o grandissimi elaboratori di proprietà di «enti» non necessariamente privati, in grado di elaborare enormi quantità di dati, ai quali collegarsi tramite un piccolo elaboratore domestico e alcune semplici operazioni. Quanto aveva postulato la sf per decenni ed esattamente quanto non è accaduto.


    «La fantascienza non ha saputo prevedere il personal computer», si è sentito dire e ripetere fino alla nausea. Se, come credo, biologia evolutiva e storia della tecnologia posseggono meccanismi di autoregolazione e retroazione non troppo diversi (se si eccettuano i diversi ritmi cronologici), accusare la fantascienza di non aver previsto qualcosa è come accusare i paleontologi di non aver «previsto» il grandioso successo evolutivo dei passeracei.
    Circostanze di partenza non troppo diverse creano esiti molto diversi, che tendono a diversificarsi ulteriormente con il trascorrere del tempo. Detto per inciso, è proprio quest’accumulo di contingenze a rendere estremamente complesso l’esercizio della narrativa controfattuale…

    L’aspetto centrale di questa lunga serie di osservazioni, che spero emerga con una certa evidenza, è che non esiste alcun percorso prefissato, alcuna necessità intrinseca nell’estinzione del dodo o della colomba migratrice esattamente come nell’estinzione delle corazzate monocalibro. La tecnologia con la quale conviviamo e che utilizziamo (questo articolo è stato scritto con un personal computer, facendo uso di un comune programma di elaborazione testi) non è in assoluto la migliore che avremmo mai potuto immaginare e realizzare. Esattamente come la specie Homo sapiens sapiens può rallegrarsi della propria esistenza ma non pretendere di essere il vertice di un processo chimico probabilmente iniziato all’interno di qualche nube interstellare in un momento qualsiasi dei 13 miliardi di anni che ci separano dal Big Bang.
    Come non esiste, probabilmente, una vita «giusta», ma soltanto forme viventi ben adattate al loro ambiente che, comunque, qualsiasi mutamento climatico può azzerare – dall’ effetto serra a una variazione della costante solare fino all’esplosione di una supernova nei «dintorni» – così esiste soltanto una tecnologia contingente, selezionatasi all’interno di un momento storico, economico, sociale e politico nel quale a essere vincente è una produzione mirata al possesso individuale – di motori, strumenti di comunicazione e di elaborazione.
    A chi legge la possibilità di postularne altri, altrettanto verosimili.
    Se non vi riesce, poco male. Anche i dinosauri non avrebbero mai immaginato che le piccole ombre scure che la notte tentavano di sgraffignare loro le uova nel giro di qualche milione di anni li avrebbero soppiantati in tutti gli ecosistemi…

    Sergio Valzania
    Jutland

    31 maggio 1916, la più grande battaglia navale della storia
    A. Mondadori 2004, pp. 274, € 17,50
    …
    A. Mondadori Oscar, 2006
    pp. 274, € 9,40  


    Diego Verdegiglio
    La TV di Mussolini
    Sperimentazioni televisive nel ventennio fascista
    Cooper Castelvecchi 2004, pp. 495, € 20,00


    Filoteo M. Sorge
    Le macchie di Gutenberg
    e altri capitoli di tecnologia controfattuale
    Ed. Olimpia 2004, pp. 173, € 13,50

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