Acqua e sangue di Patrick McGrath è una raccolta strana, che è arduo definire, come fa disinvoltamente l’editore Bompiani, citando il solito maestro dell’horror – questa volta è di turno Clive Barker, di solito si tratta di Stephen King – «racconti dell’orrore scritti con grande stile e magistrale gusto per la perversione». A meno di non intendere per «orrore» tutto ciò che esce da una «norma» astratta e inesistente: manie, fissazioni, paure, astio, malevolenza…
Il fil rouge dell’antologia pare essere una propensione, questa sì davvero magistrale, al grottesco, a osservare gli esseri umani, soprattutto i connazionali, con una lente solo apparentemente deformante. Ci sono la tronfia sicurezza e il puritanesimo dei colonialisti, destinati a infrangersi contro una maledizione indiana ad alta gradazione erotica (La mano nera del Raj). C’è la presuntuosa e tragica certezza di un «uomo di Dio» di poter tenere a bada la sensualità soltanto con la ragione (Ambrose Syme). C’è la «professionalità» e l’appropriatezza formale di un amabile assassino seriale, versione più schiva e meno esibizionista di Hannibal Lecter (La storia di Arnold Crombeck). C’è la fine, durante la Guerra Finale, di una famiglia media, orripilante solo perché è un concentrato dei difetti della gente media: volgarità, totale mancanza di empatia, astio ed egoismo becero, stupidità (Il racconto dello stivale). C’è una mano lasciva tanto incontenibile da diventare autonoma, incubo del perbenismo occidentale (La mano di un maniaco)…
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Il libro è percorso da un paradossale sarcasmo verso la cecità riduzionista del pensiero occidentale e da una sana diffidenza verso la medicina e tutti i suoi rappresentanti, a cominciare dallo psichiatra che terrorizza il paziente spingendolo alla pazzia (Lo spiedo) e dal ginecologo ben deciso a costruire la propria carriera sulla singolare malformazione della paziente (Sangue e acqua, un piccolo baedecker del maschilismo). Se la medicina non è all’altezza, i pazienti devono arrangiarsi e così fanno, in La malattia del sangue, gli anemici di un villaggio inglese, ben decisi a rifiutare l’inefficace terapia a base di estratti di fegato. Il sangue non è acqua, ma perché non risolvere il problema alla fonte?
Tre racconti escono dal canone del grottesco e andrebbero annoverati nel vero fantastico: Marmilion che, nonostante lo scioglimento razionale, è intriso di un’aura inquietante, L’esploratore perduto che immerge nella quotidianità di un tranquillo giardino inglese l’ossessione europea della conquista dell’Africa. E soprattutto lo splendido L’angelo, visione gotica di un Dorian Gray innocente costretto ogni giorno a fare i conti con se stesso.
Insomma in Acqua e sangue c’è molto di più del promesso «gusto per la perversione»; «orrore», invece, ce n’è poco, se non quello che ci destano i nostri simili (e che noi, presumibilmente destiamo in loro).
Inconsueta, soprattutto in Italia, anche la raccolta Racconti scellerati di Elisabetta Pierallini. Ho consultato il vocabolario: questi racconti non sono scellerati: non sono malvagi (anche se talvolta sono delittuosi), né abietti o infami e tantomeno corrotti. Semmai, sono – e intendo fare un complimento, perché mi sono piaciuti – di volta in volta giustamente malevoli, impietosamente spassosi, paradossali, tutti aggettivi che raramente si possono usare per autori italiani (certamente non li meritano i vari cultori modaioli dello splatter, gli autori desiderosi di «stupire», quelli che sferrano pugni nello stomaco ai lettori non sapendo seminare inquietudini). Sempre, però, sono scritti con attenzione assorta e, nonostante le immagini crude e le descrizioni intensamente corporee che l’autrice si concede al momento giusto, restano lievi, appartati dalla quotidianità un po’ squallida delle nostre vite. Quello di Racconti scellerati è soprattutto un mondo di anziani e bambini, legati tra loro da strane consonanze o da incancellabili livori: nonne piene di buone intenzioni che lasciano segni indelebili nella psiche degli amati nipotini, vecchie signore un tempo bellissime e incapaci di rinunciare al ruolo di primadonna, uomini e donne che si portano dietro, come remore inestirpabili, lontani traumi che forse soltanto loro hanno vissuto come tali. Molti sono i predestinati, ma il destino non è mai benevolo: la figlia, tarda e brutta, finalmente avrà il sospirato figlio maschio che la madre, fra breve neo-nonna, darebbe la vita per aver potuto allattare? Beh, c’è sempre una seconda occasione! La nipotina voleva tanto sapere se il nonno sarebbe stato felice dopo morto? Tranquillizzarla a esequie avvenute non dovrebbe essere troppo difficile… Il marito dai begli occhi celesti piace ancora alle ragazze nonostante la vecchiaia incombente? E le corrisponde? Allora sì, qualche volta i personaggi si devono difendere, devono colpire, sono costretti, capite? Anche se forse, se si risapesse, potrebbero essere accusati di eccesso di legittima difesa.
Al di là delle cattiverie, c’è lo sguardo impietoso di chi vuole davvero comprendere i propri simili: questi racconti, al lettore paziente, dicono più di quanto sembri e raccontano vite piccole e compiute che soltanto a chi narra e a chi legge, sembrano monche, carenti, incomplete:
Si innamora a fatica di un uomo che la riempie con allegria. Lei non è curiosa di lui perché ha paura. Non indaga non chiede si contenta […] Qualche volta prova a parlare di questi suoi problemi ma non viene capita. Le si vuole un po’ più di bene, questo sì, perché è confusa, è strana con quella sua fissazione. Elettra è inerte. Lascia che la vita le si butti addosso. Appassisce con gradevole malinconia. Impiega un’eternità a diventare vecchia
Patrick McGrath
Acqua e sangue
Bompiani, 2003, 2005
ed. or. 1988
pp. 203, € 7,50
trad. Alberto Cristofori
Elisabetta Pierallini
Racconti scellerati
Passigli, 2003
pp. 173, € 12,50