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    Napoli nobilissima: la donna d’ambra tra l’Averno e il cielo

    • di Mario Prisco
    • Gennaio 9, 2013 a 7:08 pm

    di Mario Prisco

    Due libri, usciti quest’anno, il romanzo La donna d’ambra di Gómez de la Serna e l’antologia L’averno e il cielo, ci ricordano l’estremo interesse espresso dagli spagnoli, ma in generale dal mondo ispanico, nei confronti di Napoli.

    Come ci è già capitato di indicare in un precedente numero di LN1la matrice spagnoleggiante presente a Napoli è tuttora individuabile sia nel lascito linguistico, sia nell’approccio esistenziale ai temi fondamentali della vita e della morte. I due volumi su cui ora ci soffermiamo dimostrano ancor più questo legame indissolubile tra le due culture.
    Ramón Gómez de la Serna (Madrid 1888 – Buenos Aires 1963) è stato uno dei protagonisti della cultura spagnola del primo Novecento, pienamente inserito nei grandi movimenti di avanguardia europei.
    La mujer de ambar (questo è il titolo originale del romanzo tradotto da Immacolata Forlano ed Eliana Guagliano e pubblicato nei tipi della casa editrice Marlin di Salerno), è il frutto di tre soggiorni napoletani dell’autore che, pur essendo profondamente affascinato dalla città, non evitò di analizzare anche i suoi tanti caratteri negativi.

    Ramon Gomez de la Serna

    Napoli è non solo il luogo dove si svolge la vicenda, ma l’indiscusso protagonista del libro in grado di accompagnare la sorte dei personaggi e di condizionare le loro scelte, superando incubi ancestrali depositati nell’animo di ciascuno di loro. L’incipit del racconto, mero pretesto narrativo, è la storia dell’amore travagliato tra Lorenzo e Lucia, riproposta metaforica de I promessi sposi, anche se l’esito sarà tutt’altro che simile. In realtà sul rapporto tra i due aleggia sin dall’inizio l’ombra del passato. Nella famiglia di Lucia, infatti, un omicidio consumatosi ai danni di un lontano antenato nell’epoca vicereale, ha tramandato nel tempo un odio viscerale, mai sopito, nei confronti degli spagnoli. È sotto quest’auspicio, di certo non confortevole, che nasce la relazione tra i due giovani vissuta in una Napoli d’inizio secolo brulicante di gente e capace come sempre di sollecitare sentimenti tanto forti, quanto contrapposti, fino al punto di trasformare gli stessi intenti di coloro che vi giungono.

    Era andato a Napoli cercando un rifugio benevolo e definitivo per la sua inerzia vitale e si era trovato in una solitudine intemperante, scomposta, appariscente, come se portasse in sé uno di quei ragazzini che chiamano la madre a squarciagola. Si era fermato lì anche per seguire una traccia di se stesso nel passato. Cercava quel se stesso che era stato lì in un’altra epoca, nell’epoca della credulità in cui non si sapeva ancora dove andava ogni destino né dove finiva ogni ambizione2.

    Una città, quindi, in grado di dissolvere le proprie convinzioni, ma al tempo stesso di costringere a pensare al senso della vita come a quello della morte, in un andirivieni di sensazioni non sempre identificabili.
    Una condizione che a Lorenzo appare in tutta la sua totalità mano a mano che approfondisce la conoscenza della città intrisa di morte e di dolore, ma capace di conservare un desiderio di vita altrove difficilmente rintracciabile.

    Quel popolo era così vero da essere sempre pronto alla catastrofe improvvisa, l’alluvione, il terremoto, la burrasca, il colera, che in nessun luogo come a Napoli hanno dato tanto spazio alla morte. Per questo tutti i giorni accendono lumini davanti alle immagini dei santi, perché vogliono essere preparati. Lorenzo capiva che di fronte a quel modo di essere autentico e disgraziato, l’ipotetica minaccia del Vesuvio non aveva molta importanza. Quale minaccia più terribile della morte per cause sconosciute! Di fronte alla morte invisibile, non c’era alcun pericolo nel Vesuvio infuriato. Era più importante calmare i Vesuvi intimi, le infezioni del sangue, tutto quanto spirava di antico nell’oscuro e triste rigagnolo, e neanche questo aveva importanza di fronte a quella brama di immortalità che eccitava la città e che faceva in modo che i vecchi seduti sulla sedia nell’attesa della morte, non pensassero ad altro che alla gloria eterna. Lì, come in nessun altro luogo, si comprendeva come la terra di fronte all’alto cielo fosse l’angolo di un basso3.

    Lorenzo capisce, quindi, come la supposta allegria della città sia solo la copertina di un libro più complesso al cui interno ci sono sentimenti di gran lunga diversi. Attraverso le considerazioni del suo alter-ego, Gómez de la Serna dimostra sin dai primi capitoli (a nostro avviso anche i migliori del libro) di cogliere l’anima profonda della città che proprio nel rapporto vita-morte svela il suo carattere più recondito.
    La città ha infatti da sempre avuto nei confronti della morte un atteggiamento che supera la stessa concezione religiosa. Giuseppe Marotta, non a caso, sosteneva che la morte «è la più vera e antica cittadina di Napoli» giacché i napoletani non riescono a liberarsi della sua presenza neanche nei momenti più felici. Per molti versi quella proverbiale allegria partenopea è la cartina di tornasole di una tristezza e di una cupezza dell’animo tenuta nascosta nei secoli e capace di esplodere in un attimo e di dissolversi, con la stessa velocità, poco dopo.
    Percependo questa cupezza di fondo, Lorenzo

    era diventato malinconico e studiava nel ventre aperto l’ostetricia della città. Come attraverso il vetro si vedono gli ingranaggi di un orologio, dalla strada vedeva i letti con la testata alta e la spalliera ai piedi, come se stessero per chiudersi in un letto pieghevole, pur essendo letti presuntuosi. A volte erano letti magnifici, e vicino si vedevano magnifici armadi a specchio con un paravento che chiudeva l’accesso al letto nel fondo della stanza. Il candore dei copriletto e dei risvolti delle lenzuola avevano la tristezza di umanità ammassata e quella impronta che rattrista l’anima con il suo candore di ventre di rana o di rospo4.


    Lorenzo, passando dallo stato di turista a quello di residente, comprende il motivo per cui anche la minaccia del Vesuvio, che al suo arrivo gli era apparso come un mostro incombente, non costituisca un motivo né di preoccupazione manifesta, né di discussione. È un’altra compagna di Napoli, tanto indomabile da essere una presenza quasi metafisica, se non astratta.

    L’estremità di stati d’animo, la compresenza di elementi contrapposti suscita in Lorenzo una sorta di inquietudine, quasi di «delirio», usando una classica espressione di Dostoevskij, Ciò l’induce ad affondare nella città, a scoprire quella sensualità profonda, nera, dimentica impressa nello sguardo e nel corpo delle sue donne.

    Ed ecco che si imbatte in Lucia, la donna d’ambra «una ragazza che portava riflessi di tramonto, come se si tingesse di ciò che succedeva all’orizzonte, come quelle nubi che si infuocano con il lontano rosso fuoco. […] Quella ragazza col colore del tramonto rappresentava per lui tutta Napoli e nel suo volto ritrovava i tratti piuttosto marcati di una statua, soprattutto il naso pronunciato e il modo in cui la testa si sosteneva sulle spalle, componendo con la nuca un gioco piramidale5.

    Ma la folgorazione avuta di fronte alla bellezza indecifrabile di Lucia, non riduce il suo interesse per la conoscenza profonda della città, continuamente esplorata alla ricerca di un qualcosa da decodificare, da apprendere al di là della confusione esteriore. Napoli gli appare nella sua vetusta espressione spagnoleggiante e con le piazze abbellite da ghirlande di limoni e succo di cocco, «la fresca bevanda che veste di bianco le interiora di colui che la ingerisce e sembra mettere calzoncini all’anima»6.
    Napoli lo attira, lo coinvolge, lo abbindola, ma non risparmia di respingerlo giacché è l’emblema di un sacrilegio, come gli rammenta Lucia: «il tiranno spagnolo fece uccidere il mio trisavolo e sua moglie, senza considerare che fosse incinta, unendo nascita e morte; da lì nacque il mio bisnonno, che restituì a Napoli un nome che senza di lui si sarebbe estinto»7.
    Ancora vita e morte, amore e morte che continuano a lottare tra loro senza concedere alcuna tregua, anzi dilatando le sensazioni fino al loro limite massimo. Lorenzo sente anche per questo di dover lottare, per sconfiggere questa sorta di maledizione ripetutasi nel tempo giacché anche la sorella di Lucia, Lisa, che si era innamorata di uno spagnolo e dal quale aveva avuto una bambina, era stata cacciata di casa dal padre.
    Ma la vicenda si complica allorché Lorenzo si innamora di Nazarena, una prostituta legata al fratello di Lucia. La maledizione sembra riaffermarsi quasi per dimostrare che non è possibile cambiare la storia. Il drammatico finale, a metà tra un romanzo d’appendice e una sceneggiata napoletana, come ha indicato nell’introduzione Teresa Cirillo Sirri, sembra ratificare il principio di una ineluttabile conservazione.
    Senza dubbio il punto forte del romanzo non è tanto il plot, a nostro parere penalizzato da un deficit di verosimiglianza alquanto evidente, ma l’abilità dell’autore a raffigurare la città attraverso i percorsi interiori e le vicende dei singoli personaggi. Nella pelle ambrata di Lucia, nei suoi colori più vicini a quelli del crepuscolo, che a quelli aurorali, è raccolta la tristezza velata della città, quel senso di morte struggente, intravisto da Lorenzo nella reiterata metafora del Vesuvio. Non a caso Gómez de la Serna, in uno dei passi di maggiore forza espressiva, fa dire al suo personaggio:

    Napoli è fatta per piangere allegramente… per piangere con grida di felicità. Come sbagliano quelli che credono che è fatta per ridere senza piangere! Posso comprendere solo quelli che vengono a Napoli per guarire da un grande dolore, quelli che portano nel loro cuore abbastanza dolore8.

    Eppure malgrado ciò, Lorenzo è convinto che Napoli sia il luogo privilegiato dove vivere storie d’amore, a tal punto da affermare: «io credo che il luogo dove cadde la prima coppia, dopo che era stata posta sulla terra, fu Napoli. […] Nessuna coppia è così fortemente unita […] se non quelle che ancora si abbracciano qui…»9

    Vicente Blasco Ibáñez

    Un’affermazione che ci riconduce a un altro scrittore spagnolo Vicente Blasco Ibáñez, contemporaneo di Gómez de la Serna, che in Mare Nostrum, dove racconta una storia d’amore altrettanto struggente, fa dire al personaggio femminile che Napoli «non è favorevole alla solitudine [giacché] è per l’amore [e costringe coloro che si amano a invecchiare lentamente] davanti all’eterna bellezza del golfo!»10

    All’impatto che gli scrittori e in generale i visitatori spagnoli e ispano-americani hanno avuto con Napoli è dedicata anche l’antologiaL’Averno e il cielo, curata da Teresa Cirillo Sirri e José Vicente Quirante Rives (attuale direttore dell’Istituto Cervantes di Napoli).
    Il libro propone una raccolta di brani scritti a partire dal XV secolo fino ai nostri giorni. Un numero quindi notevole di voci in grado di fornire un quadro completo e straordinariamente altalenante di giudizi sulla città.
    Al di là di Rodó, Darío, Galdós, Piera e Scorza ai quali rimandiamo al già citato numero di LN, ci vorremo soffermare su alcuni degli autori selezionati, che dimostrano quanto la città sia stata percepita in maniera assolutamente contrapposta.
    Ad esempio il commediografo Leandro Fernández de Moratín, vissuto tra la seconda meta del Settecento e il primi decenni dell’Ottocento, concentra l’attenzione sulla misera condizione della plebe cittadina affermando:

    … né a Londra né a Parigi ho visto gente per le strade come a Napoli, e in nessuna tanto rumore e tanto strepito; le grida di coloro che vendono cibo, quelle dei cocchieri, quelle, in particolare, dei ragazzi e della gente del popolo, che parla a voce alta, e il rumore confuso delle botteghe e delle officine degli artigiani, mischiato al suono delle campane e delle carrozze, è il più insopportabile baccano che possa udirsi. Il popolo, che, come ho detto, è numerosissimo, è anche sporco, nudo, ripugnante come non mai; la classe infima di Napoli è la più indipendente, la più spudorata e indecente che abbia visto…11

    Miguel de Unamuno

    Ben altro è invece il giudizio del grande scrittore Miguel de Unamuno che, rapito dalle bellezze naturali si lascia andare a una descrizione incantata del luogo.

    Il sole tinge il mare con una specie di rugiada d’oro e d’argento che fa brillare l’acqua, e in lontananza si bagnano in essa promontori disegnati sullo sfondo del cielo. Respira con abbandono la splendida baia di Napoli e tutto fa respirare la femminea poesia virgiliana. La Natura sembra un delicato lavoro degli dèi, il paesaggio un’opera d’arte, i paesini sembrano mosaici, le montagne smalti, le lontananze cammei, marmi il cielo e il mare, un velo sottilissimo la bruma che ammorbidisce l’opera, un ritmo cadenzato il canto del mare e i rumori della terra, e l’aria è come il profondo dell’ara degli antichi sacrifici12.

    Il giornalista Corpus Barga, impegnato nella causa repubblicana racconta, invece, dell’incontro avuto con Benedetto Croce nella splendida dimora del filosofo situata nel cuore della città.
    Simili, per molti versi, sono i commenti del catalano Josep Plá e dello scrittore e giornalista César González-Ruano. Il primo, infatti, ritiene che il compito di un turista a Napoli è quello di perdersi per i vicoli anche se, dopo tre o quattro giorni,

    … ci si sente nauseati dall’eccessiva presenza umana, dal tanfo che viene dall’umidità e dalla miseria. Ci si sente mancar l’aria. Ci si reca ai giardini della Villa Reale. Che clima, che dolcezza! Si vede il cielo tra le foglie delle querce, le statue nude, un po’ di foschia sull’orizzonte del mare che si distingue appena. L’aria è mite. È un’aria porosa, morbida, setosa13.

    Allo stesso modo per González-Ruano: «Napoli è una Andalusia, forse anche più esagerata, scettica e, allo stesso tempo, credente, in equilibrio tra il vecchio sangue del vizio e il sangue di San Gennaro»; aggiungendo, poco dopo, che essa «è sporca, bella e orribile, miserabile e fastosa, ingiusta e sensuale»14; percependo anche lui la città come una commistione inaudita di elementi divergenti.
    «Accanto a una Napoli ricca di luci e di colore, di miglior fama che gloria, collabora una umanità che vive d’inganni»15.
    L’Averno e il cielo, utilizzando l’espressione di Gómez de la Serna, da cui è tratto il titolo dell’antologia, si riaffacciano di nuovo, quasi per dimostrare, ancora una volta l’inedita compresenza di vita e di morte, di bellezza e di bruttezza, in una lancinante e mai risolta contrapposizione che probabilmente fa di Napoli la più indefinibile città del mondo.

    Note:

    1) Cfr. M. Prisco, «Sulle orme di Goethe. 4», Libri Nuovi n. 40
    2) R. Gómez de la Serna, La donna d’ambra, Marlin, Cava de’ Tirreni (Sa) 2007. p. 24
    3) ibidem, pp. 29-30
    4) ibidem, p. 38
    5) ibidem, pp. 66-67
    6) ibidem, p. 70
    7) ibidem, p. 78
    8) ibidem, p. 128
    9) ibidem, p. 83
    10) V. Blasco Ibáñez, Mare Nostrum, Luigi Battistelli Editore, Firenze 1921, pp. 152-153
    11) T. Cirillo Sirri e J. V. Quirante Rives (a cura di), L’Averno e il cielo. Napoli nella letteratura spagnola e ispanoamerica, Dante & Descartes, Napoli 2007, p. 47
    12) ibidem, p. 68
    13) ibidem, p. 96
    14) ibidem, p. 99
    15) ibidem, p. 100

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