Siamo negli anni Sessanta dell’Ottocento, all’epoca dell’invasione del Messico da parte dei francesi di Napoleone III per mantenere sul trono un Massimiliano d’Asburgo spaesato e incapace di sostenere la politica di intrighi del clero reazionario e dei ricchi conservatori che, piuttosto di lasciare il Messico ai repubblicani avevano preferito consegnarglielo. Un po’ tutti sono in fuga: Benito Juarez, il presidente libertario di origine india, il raffinato giornalista e scrittore Guillermo Prieto, il poeta e scrittore guerrigliero Vicente Riva Palacio e, tra i tanti, anche predoni e avventurieri d’ogni genere alla ricerca di un tesoro da leggenda.
Narrazione sospesa tra romanzo d’avventura e storia di impegno politico, densa di riferimenti allo scrivere e al mestiere dello scrittore, questo romanzo è anche un gioco di specchi sconfinante nella metascrittura, che forse noi lettori italiani non riusciamo a gustare appieno. Sulle molte voci che narrano la vicenda, infatti, predominano quella pacata e scrupolosa di Prieto e quella immaginifica e piacevolmente retorica del generale Vicente Palacio, accomunati da amicizia, passione letteraria e provata fede democratica, sostenitori di Juarez e combattenti contro l’imponente esercito francese. Prieto racconta di un paese in massima parte fedele a Juarez nella componente bianca e di indios indifferenti, che non hanno altra ragione per schierarsi che l’arroganza e la sconsideratezza degli europei. Palacio – con l’uso intrigante della seconda persona singolare – narra interminabili scaramucce e battaglie in campo aperto, quasi sempre prive di vincitori: troppo pochi, malamente armati e incapaci di collaborare i Messicani, troppo poco disposti a rischiare i damerini europei.
C’è da scommettere che Taibo, autore pirotecnico di pastiche letterari, abbia “plagiato” i due letterati come se ne fosse momentaneamente posseduto, ma i due scrittori sono così poco conosciuti in Italia che noi lettori perdiamo a priori una delle possibili chiavi di lettura del romanzo. La vicenda ha momenti appassionanti e altri di rarefatta comicità, ma si dilunga su un versante bellico che che ci è poco famigliare, anche se l’autore fa scendere in campo (qui finalmente in senso letterale!) figure di combattenti memorabili.
Tra i pregi dell’autore, come al solito, il suo odio dichiarato per la narrazione obiettiva e per «l’idea nefasta del narratore come puro osservatore dei fatti» e la capacità di non cadere mai nell’ovvio e nel politicamente corretto. La lontananza del tesoro resta però uno dei romanzi meno facili di Taibo, non per il contenuto dichiaratamente politico quanto per la relativa lontananza dei lettori italiani dalla vicenda. L’autore confida nel nostro interesse per il Risorgimento italiano ma esso divenne guerra di popolo, di nazione e di classe solo in alcune situazioni e in maniera episodica. Il Messico, invece esisteva come stato dalla lunga storia, ed era all’epoca repubblicano e anticonservatore. Senza contare che con il nostro Risorgimento si sono sciacquati la bocca tutti, anche di recente, in particolare la destra dello schieramento politico. In proposito varrebbe sicuramente la pena di riesaminare le preziose riflessioni sul risorgimento di Gobetti, Gramsci e Salvemini (a cui Marco Revelli dedica un illuminante articolo qui).
http://cesim-marineo.blogspot.com/2017/12/il-risorgimento-incompiuto-secondo.html
Paco Ignacio Taibo II La lontananza del tesoro, Il Saggiatore, «Net Narrativa», 2003, pp. VI – 329, Trad. S. Sichel
Idem: Donzelli «Narrativa», 1995, pp. 332, € 14,46, Trad B. Lazzaro
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.