Quando un romanzo mi viene presentato come una vicenda sulla «eterna lotta fra il Bene e il Male», ormai non so se scoppiar a ridere o scaraventare il volume a tre metri di distanza; tonnellate di carta a base di creature che professano il Male senza redenzione, solo perché intrinsecamente maligne e diaboliche scritte da cattivi imitatori di Tolkien, Bram Stoker e in ultimo della Rowling hanno prosciugato ogni interesse sulla faccenda, ciò che chiedo, anche alla narrativa fantastica, è di aiutarmi a comprendere il male sfaccettato e banale che opprime le nostre vite. Ma naturalmente la visione manichea del mondo è di grande fascino e poi c’è sempre la possibilità che in narrativa il Male sia soltanto una metafora efficace della malevolenza individuale che alberga dentro di noi, della cattiveria collettiva che scaturisce dalla paura, della violenza efficiente e impersonale del potere.
Se poi questa lotta promette scenari suggestivi, illustrazioni di grande forza evocativa o un tocco di umorismo la curiosità ha la meglio sulla prudenza e comincio a leggere…
Abbastanza osannato dalla critica anglosassone, Baltimore è frutto della collaborazione di Mike Mignola (grande disegnatore di Hellboy) e di Christopher Golden (autore di una produzione impressionante che va dai volumi di numerose serie ben note a lettori appassionati – tra i quali Buffy the Vampire Slayer, Shadows Saga1 e The Hidden Cities – a thriller per ragazzi e giovani adulti, alla serie X-men, a vari videogames). Subito adocchiato per le splendide illustrazioni di Mignola, scelto come lettura per l’ambientazione inconsueta per una storia di vampiri, si è rivelato un romanzo che promette più di quanto mantenga.
Le prime trenta pagine, (ovvero il preludio, proprio quelle che curiosamente il recensore Michael M. Jones definisce le più ostiche alla lettura) sono a loro modo grandiose, di grande atmosfera, un buon esempio di gotico e tuttavia piene del livido realismo della guerra di trincea, con un vago sapore di steampunk:
In una fredda notte d’autunno, sotto un cielo nero, senza luna e senza stelle, il capitano Henry Baltimore stringe il fucile, scruta attraverso l’oscuro abisso del terreno della battaglia e, dentro di sé, comprende che quelli sono i campi di tortura dell’inferno e che la dannazione è in attesa solo pochi passi più in là. […] Nel cuore della notte solo un folle tenterebbe di attraversare la Terra di Nessuno che separa il suo battaglione dagli avversari hessiani.
Baltimore e i suoi uomini sono i folli di turno perché questo si aspettano da loro i superiori. Gli hessiani (trasparente metafora di Tedeschi) li aspettano poco oltre, nella relativa sicurezza delle trincee che gli inglesi dovranno raggiungere dopo aver tagliato numerosi reticolati. La loro sorte è segnata ma, mentre tutti i suoi uomini cadono, il destino fa sì che Baltimore, nobile inglese educato ai valori della propria schiatta, sia ancora vivo e cosciente al momento dell’incontro con la propria Bestia e che inaspettatamente reagisca. Ma le ali che oscurano il cielo calando sulle trincee non sono ali di uccello e il predatore notturno che ferisce Baltimore ha l’innaturale natura del vampiro.
La vicenda di Baltimore per il momento viene abbandonata e la scena si sposta di alcuni anni, nel presente della narrazione. Mentre una misteriosa epidemia falcidia il continente, tre amici di Baltimore – Il capitano di marina Demetrius Aischros, il medico Lemuel Rose, e il ricco e il ricco e carismatico Mr Thomas Childres – si danno appuntamento nella locanda di una città portuale, un tempo ricca e florida ora squallida, decaduta e abitata da umani tanto depressi e privi di speranza da apparire ombre. Attorniati da avventori ridotti a larve che agiscono per abitudine più che per volontà, i tre si narrano storie. Prima di raccontare a turno la vicenda di Baltimore, partendo dal loro primo incontro con lui, narrano, per mostrare il loro buon diritto a dissertare di soprannaturale, i loro precedenti contatti con il Male. Il La prima avventura, quella dei Rose è veramente suggestiva, è la storia, sempre intrecciata alla sporca quotidianità della guerra, della violazione di un tabù profondo e della necessità di espiare. Il sospetto che Golden si sia più che ispirato a qualche mito nordico nulla toglie alla scabra potenza delle pagine. Poi, ahimè la fantasia di Golden si sfrena e non si (ci) fa mancare nulla: l’albero maligno, la perfida marionettona, la creatura degli abissi lacustri (questa francamente promettente, ma alla fine banale).
Mentre raccontano ciò che sanno di Baltimore il lettore realizza che il coraggioso capitano è profondamente cambiato: l’ossessione per la creatura che egli ha ferito quella notte nelle trincee degli hessiani e che gli ha strappato tutto ciò che amava, lo ha temprato facendone un efficacissimo cacciatore di vampiri ma contemporaneamente lo ha come calcinato e svuotato della propria umanità. Raggiunti da un pacco di lettere di Baltimore che permettono di seguire le sue ultime avventure verranno alla fine coinvolti direttamente nella lotta contro il Male.
Il romanzo di Golden è attentamente costruito e punta molto in alto: come rivela il sottotitolo – Il tenace soldatino di stagno e il vampiro – è scandito da citazioni della favola di Andersen e suggerisce scopertamente il confronto tra il soldatino con una gamba sola e Baltimore a cui, dopo il primo scontro con il vampiro, viene amputata una gamba. Ogni capitolo porta come sottotitolo un momento della messa (requiem, Kyrie, Offertorio ecc.). E l’espediente di far raccontare la vicende di Baltimore a tre avventori in una locanda, allude chiaramente all’antica e onorevole convenzione letteraria del gruppo di persone sedute in cerchio a raccontar ognuno la propria storia, suggerendo, per esempio, riferimenti a Chaucer e alle sue Canterbury Tales.
Il sospetto è che Golden, buon autore di serie gotiche e horror abbia puntato troppo in alto, mettendo in piedi un gigantesco marchingegno che non può che crollare nel finale, quando alla fin fine il vampiro cui tanto si è alluso senza mostrarlo deve essere esibito. Al di là dell’inizio e di qualche altra decina di pagine davvero efficaci si diluisce e soffoca sotto il peso di troppe – davvero troppe – vicende collaterali giocate al rialzo.
Il vero, innegabile e notevole, pregio del volume sono le splendide tavole di Mignola che riescono a non perder efficacia anche nel piccolo formato. Il tratto suggestivo e onirico, tutto giocato su un severo bianco e nero resta impresso e vale da solo, in un certo senso, l’acquisto del volume. Peccato per Baltimore che, prigioniero del senso di colpa e della progressiva ossessione lo priva sempre più di sentimenti e ragioni per vivere, avrebbe potuto essere un infausto e tormentato eroe novecentesco.
Mike Mignola, Christopher Golden
Baltimore
Il tenace soldatino di stagno e il vampiro
Mondadori PBO, 2009 pp. 300, € 13,00
Trad. S.Di Marino
Non so voi, ma io non ne posso più di vampiri col giubbotto di pelle, vampiresse in latex, lotte eterne fra vampiri e licantropi… Non ne posso più, soprattutto, di pallidi vampiri adolescenti, belli e un po’ per male, persi nei loro drammi sentimentali ma già pronti a prendere il loro posto nel mondo (il nostro, accidenti!) sfornando, prima o poi, una felice famigliola di vampirini.
Così, non appena I Dodici mi è passato fra le mani, l’ho afferrato e me lo sono portato a casa come un piccolo tesoro. L’ho aperto la sera stessa, ho letto con interesse le prime pagine, ho sorriso soddisfatta alle allusioni dell’autore (noi vampirologi ci capiamo benissimo…) e l’ho posato dopo una trentina di pagine che, per la verità, avevano perso un po’ di mordente. «Pazienta un po’! Kent sta solo preparando il setting…», mi sono detta spegnendo la luce.
Il prologo de I Dodici ricapitola la leggenda del voordalak[1] che ha terrorizzato generazioni di bambini russi. Il voordalak è una sorta di protovampiro, ben diverso dal tenebroso conte Dracula di Bram Stoker, una creatura un tempo umana, non più viva, che si sfama dei vivi. Il sangue desiderato dal voordalak è semplicemente sangue, e non ha niente a che fare con il fluido carico di simbologie sessuali bramato dal Conte e da generazioni di suoi congeneri. Altro che gentiluomo in frac… il voordalak è un contadinaccio terra terra impegnato a rimediare la cena, un personaggio tanto banale, nella sua alienità da sanguisuga, da essere stato quasi dimenticato dal capitano Aleksej Ivanovich Danilov, figlio di tempi più illuminati e impegnato, nell’autunno 1812, a fronteggiare un nemico ben più immediato e pericoloso: mezzo milione di uomini della la Grande Armée di Napoleone Bonaparte.
I francesi si spostano veloci, con l’efficienza di una ben oliata macchina da guerra, le città russe cadono una dopo l’altra e ormai solo un miracolo potrebbe tenere i nemici lontano da Mosca.
Aleksej e i suoi cinque compagni, un piccolo reparto di militari non convenzionali – un po’ spie e un po’ guerriglieri – sono disperati. Poi, uno di loro ricorda che, combattendo i Turchi in Valacchia, ha conosciuto dei guerrieri molto, molto abili… Un po’ strani, per la verità… Descrivendoli ai compagni, Dmitrj cita le guardie personali di Ivan il Terribile: gli Oprichniki, un reparto di mercenari crudeli, fedeli soltanto allo zar e privi di scrupoli.
Detto, fatto: i dodici mercenari vengono convocati, accorrono e promettono di cambiare le sorti della guerra. I compagni di Dmitrj ridono amaramente. Purtroppo, come Danilov verificherà in poco tempo, la loro non è affatto una spacconata…
La vicenda prosegue intrecciando vari piani narrativi: la guerra senza quartiere (e spesso senza onore) contro i francesi, combattuta con l’inganno per causare tutte le perdite possibili; i tentativi di Danilov di scoprire l’inquietante natura degli Oprichniki, ben decisi a combattere la loro guerra personale, al di fuori di ogni regola e soprattutto lontani dallo sguardo e dal controllo dei soldati russi; infine, la vicenda personale di Aleksej, i suoi ricordi, il suo continuo oscillare tra l’affetto per i figli e la moglie lontana (la saggia e autosufficiente Marfa) e la passione per Domnikiia, una prostituta sui generis, fascinosa e intelligente, che lo tiene a bada rammentandogli che le ore trascorse insieme per lei sono soltanto lavoro.
Miscela non sempre riuscita di romanzo storico, vicenda di guerra e horror folklorico, I Dodici è una storiona generosa, ineguale e sovrabbondante, con innesti talvolta grossolani di narrativa gore. Tra i pregi ha indiscutibilmente lo sfondo tolstoiano (si parva licet…) e il personaggio di Juda, l’unico vero villain della storia e la presentazione di vampiri finalmente materialisti, incolti e completamente privi di romanticismo.
Disgraziatamente I Dodici ha alcuni grossi difetti.
Prima di tutto il protagonista: Aleksej è un eroe noioso, che si perde in riflessioni labirintiche sul passato e sul presente, un tipo un po’ ipocrita che pecca soprattutto per omissione, tacendo quando potrebbe parlare per salvare un amico e poi tormentandosi per duecento pagine. In altre mani, un personaggio del genere potrebbe dare a chi legge motivo di riflettere su se stesso… purtroppo Kent è un narratore abbastanza in gamba per socchiudere una porta ma non a sufficienza per condurci nella stanza in cui non vorremmo entrare.
Il secondo difetto del romanzo sono proprio gli Oprichniki che, con l’eccezione di Juda, sono una paccata di personaggi secondari funzionali alla narrazione ma poco significativi, tanto da essere confusi uno con l’altro e depennati senza rimpianti dal lettore quando escono di scena. L’unico personaggio intrigante è Juda, il deuteragonista, impegnato a diventare ciò che in realtà non è, deciso ad affrancarsi non dalle leggi della natura ma semplicemente dalla morale umana e dai rimorsi, pago di osservare gli altri che si dannano.
In conclusione il romanzo possiede un vero vilain e un eroe noioso che dovrebbe limitarsi a fargli da spalla e invece imperversa con i suoi dubbi per quattrocento pagine. Peccato.
Che altro dire? Qualche recensore ha ringraziato Kent per le informazioni storiche sulla guerra napoleonica. Mah… Twelve è lungo quasi 500 pagine. Guerra e Pace è lungo tre volte tanto, vampiri zero, ma è Tolstoj!
Un altro lettore citava come romanzo «parente» Baltimore. Come volevasi dimostrare: anche di Baltimore mi sono piaciute solo le prime trenta pagine.
Comunque Twelve è solo il primo romanzo di un ciclo: Kent ha già licenziato il sequel Thirteen Years Later, che si svolge nel 1825, durante la Rivoluzione decabrista. Dal finale aperto di Twelvesono trascorsi tredici anni di pace, nei quali Aleksej Ivanovich Danilov ha fatto carriera (ora è colonnello) e portato avanti le sue due famiglie (Marfa più figlio Dmitrj e Domnikia più figlioletta Tamara). Ma adesso è giunto un messaggio dall’Oltretomba…
Se aprirò il romanzo sarà solo per sapere che fine ha fatto Juda. Ma non prometto niente.
Nato nel 1968, Jasper Kent, laureato e specializzato in fisica, ha lavorato per oltre vent’anni nel teatro musicale. Come romanziere, ha raggiunto la fama proprio con il ciclo Danilov Quintet, in lavorazione, che dovrebbe giungere fino alla Rivoluzione d’Ottobre. Dopo Twelve eThirteen Years Later, gli altri tre titoli dovrebbero essere all’incirca The Third Section, Zmyeevich e Uncle Mitka.
Siti per approfondire (in inglese):
http://www.fantasybookreview.co.uk/Jasper-Kent/Twelve.html
http://www.fantasybookreview.co.uk/Jasper-Kent/Thirteen-Years-Later.html
http://www.graemesfantasybookreview.com/2009/07/twelve-jasper-kent-bantam-press.html
- Aleksej Kostantinovič Tolstoj, La famiglia del Vurdalak (Theoria 1984, non più in commercio), bel racconto dal quale Mario Bava ha tratto uno degli episodi del suo film I tre volti della paura (1963).
Jasper Kent
I Dodici
Rizzoli 2010, pp. 408, € 16,00
Trad. I. Katerinov