di Silvia Treves
Se la gente non sa nulla di Kipling può leggerlo tranquillamente, e allora arriverà a conoscerlo: è l’ideale. Senonché la maggior parte di noi sa già qualcosa di Kipling, non moltissimo magari, ma troppo. (Randall Jarrel)
Io sono stata fortunata: ho letto Kipling per mio esclusivo piacere, conoscendolo atrraverso i suoi racconti fantastici più tardi e ambigui, imparando ad assaporarne le costruzioni per niente ovvie, la «cattiveria» e l’umanità. Ho amato senza patemi ideologici Il risciò fantasma, L’uomo che volle farsi re, La legione perduta, La strana cavalcata di Morrowbie Jukes, Nell’ora del trapasso. Avendo letto i suoi romanzi più noti solo in seguito, le simpatie imperialiste e il paternalismo venato di razzismo del Kipling prima maniera non mi hanno scandalizzata, ma soltanto confermata nella convinzione che, per la nostra fortuna di lettori, la vita pubblica e le vicende private di un artista non possono né sminuire né accrescere il suo vero talento e che gli esseri umani sono troppo complessi e sorprendenti per esaurirsi nelle loro convinzioni politiche.
Di questa mia passione letteraria non parlerei in queste pagine se non fosse che Kipling ha dato uno strepitoso contributo a un genere narrativo estremamente difficile come la ghost story, usandone i canoni con grande originalità e maestria, dapprima per descrivere l’esperienza esteriore e interiore dell’avventura coloniale inglese in India e poi, nella produzione più tarda, durante e dopo la prima guerra mondiale, il lato più doloroso e oscuro dell’esistenza umana e la crisi profonda attraversata dall’Europa. Di questa produzione, ancora troppo poco conosciuta, è una testimonianza parziale ma molto stimolante «Loro», la bella antologia di Adelphi (2002) curata da Ottavio Fatica, un’accorta selezione di racconti scritti tra il 1904 e il 1932.
Anche gli scrittori di successo possono cambiare
J.R.Kipling |
«Kipling ha debuttato dalla fine. Da qui tutti i suoi guai»1,scrive Ottavio Fatica nel saggio che conclude il volume. E con ragione. Rientrato a Londra poco più che ventenne, dopo il lungo soggiorno in India, Kipling è già un «caso» letterario grazie ai suoi primi volumi di racconti «indiani» e di versi. Malcom Skey, grande curatore di antologie fantastiche, descrive il suo arrivo come un’irruzione prepotente «nel recinto esclusivo e profumato del mondo letterario londinese»2, corre l’anno 1890 e nel «recinto» prevale un’estetica decadente e antiborghese, svincolata dalla vita pratica, pubblica e individuale, del paese; con il suo stile giornalistico, le sue ambientazioni esotiche, i suoi personaggi – soldati, giornalisti, giovani amministratori dell’Imperial Civile Service – così concreti e popolari, caratterizzati sapientemente dal gergo, dal linguaggio ricco di vocaboli indiani, dalle cadenze dialettali, Kipling è, per dirla con le parole di Italo Calvino
un tipo di scrittore raffinato che ama travestirsi da scrittore popolare, e ci riesce perché non lo fa con condiscendenza ma con divertimento e impegno professionale, e questo è possibile solo quando si sa che senza la tecnica del mestiere non c’è sapienza artistica che tenga3.
Ma è difficile per un giovane genio confermarsi tale anche negli anni della maturità, soprattutto se intorno a lui tutto sta cambiando e la concezione occidentale del mondo, quella che Kipling stesso chiamava «il fardello del bianco» (e che potremmo tradurre in termini meno eroici come «il mondo è sottoposto all’autorità dei bianchi e del loro denaro») sta andando in pezzi. E così, dopo alcuni anni trionfali e l’apprezzamento di maestri del racconto fantastico come Henry James e Robert Louis Stevenson, l’astro di Kipling comincia a tramontare, almeno per la critica, mentre la sua fama presso il pubblico non si affievolisce e le sue opere continuano a essere pubblicate con tirature altissime. Isolato e bollato di conservatorismo oltranzista e di razzismo, Kipling verrà sdonagato da autori come T. S. Eliot e George Orwell, a cominciare proprio dalle sue ultime short stories, allusive e ambigue, che si snodano intorno a personaggi deboli e infelici, afflitti dal male fisico, dalla decadenza del corpo e dal tempo che scorre, vittime di una Storia che subiscono invece di contribuire a plasmare, incapaci – e con essi il lettore – di dare un senso univoco alle loro esperienze dove reale e soprannaturale si intrecciano.
Eppure l’immagine di Kipling negli anni del trionfo, paladino dell’imperialismo britannico, fautore della politica protezionista, razzista o – nel migliore dei casi – paternalista, è fortemente riduttiva. Dice Noel Annan: «il ritratto dell’India offertoci da Kipling nei suoi primi quattro volumi di racconti e nei primi versi è quello di una società che dal punto di vista politico, psichico e spirituale sta tremando sull’orlo del precipizio»4.
Skey ci mette lucidamente in guardia contro la semplicistica sovrapposizione tra l’autore e il personaggio che narra la vicenda: Kipling è raffinato, complesso, e molto più distaccato e lucido dei suoi personaggi, anche quelli illuminati dalla luce più positiva; i racconti indiani non sono né «inglesi» né «indiani», ma nascono alla confluenza fra due civiltà distinte:
La crisi della ragione che si annidano all’interno di molte delle vicende descritte non sono univoche; anche perché le «ragioni» sono più d’una. Nessuna semplice contrapposizione, quindi, tra nero e bianco, tra credulità indigena e razionalità occidentale. Anche gli indiani di questi racconti sono molto diversi tra loro […] A volte, poi, con naturalezza e logicità, la credulità indigena sembra offrire le risposte più sagge, addirittura più «razionali» ai tormentati interrogativi degli occidentali5.
Letti senza pregiudizi, molti racconti anglo-indiani di Kipling
possono essere letti come amare rappresentazioni allegoriche della truffa morale dell’arroganza culturale che sono alla base della presenza britannica in India: nella loro ambigua e sardonica violenza offrono qualcosa che manca alla visione «liberale» di E. M. Forster 6.
La propensione verso il mistero e il soprannaturale, la percezione dolorosa della fragilità umana sempre in conflitto tra senso del dovere e angoscia di non riuscire, il dubbio – che percorre i suoi racconti più belli, e anche un romanzo come Kim che esista, in quella terra immensa e altra che è il continente indiano, un’altra realtà, un altro modo possibile di vivere e di comprendere il mondo sono il bisturi che, reso più tagliente dalla maturità, consentono al Kipling degli ultimi vent’anni di scavare nella profondità dei suoi personaggi, scrivendo le storie a volte grandiose, a volte discutibili, comunque mai banali, raccolte in «Loro».
Lavorare con amo, forbici e pennello
Scrivere è come pescare. Bisogna gettare l’amo nella corrente: questo per quanto riguarda il racconto; ma per pigliare qualcosa devi metterci l’esca; devi mettere all’amo l’esca delle parole, parole vivide7.
Averli [i propri racconti N.d.R.] sfrondati (…) mi ha insegnato che un racconto d cui pezzi sono stati rastremati è come un fuoco attizzato. Nessuno indovina i tagli effettuati, ma tutti ne risentono gli effetti 8.
In altre parole il racconto è – come dirà Cortazar – una freccia che, per colpire il bersaglio, deve essere dritta, leggera e con la punta acuminata. Tutto il superfluo deve essere eliminato. A differenza del romanzo, la short story tende di per sé alla frammentarietà, all’ambiguità: è un flash (in tutti i sensi!), qualcosa di più vicino al sogno che alla realtà, un’ immagine più che una storia compiuta.
Così sono i racconti più tardi e riusciti di Kipling, nei quali tutto, pur nascendo da una visione, è attentamente sorvegliato: la costruzione a più livelli, lo stile, le singole parole. L’insieme è un meccanismo perfetto che richiede al lettore un’attenzione e una sensibilità estreme: i silenzi, i segreti sono fondamentali come le rivelazioni, le menzogne e gli autoinganni spesso più importanti delle verità. I narratori sono spesso più d’uno e conflittuali tra loro. Lo stile è allusivo ed elusivo, ambiguo e volutamente nasconde invece di illuminare 9.
Lo stesso Kipling dichiara a proposito della raccolta Rewards and Fairies di aver lavorato sui racconti «con tre o quattro tinte e tessiture sovrapposte, che potevano o no rivelarsi sotto le luci variabili del sesso, dell’età e dell’esperienza»10 e caricato il libro «di allegorie e allusioni»11.
E veniamo a «Loro».
I racconti sono in ordine cronologico, dal primo, che dà il titolo alla raccolta (1904) all’ultimo, Non professionale (1932), forse il più «strano» e spiazzante, nel quale il pathos (che c’è, vi assicuro) è ben celato dall’idea fantasiosa di partenza e dal tono ironico, che è – tra l’altro – un’interessante disquisizione sul ruolo della medicina, la carriera che Kipling non cominciò mai per motivi di salute. Io, come sempre, li ho letti seguendo il gusto del momento, lasciandomi ispirare dai titoli. Così ho cominciato da uno dei migliori (per me forse il più bello in assoluto): La casa dei desideri (1926), lunga confidenza di un’anziana signora all’amica che si snoda intorno al concetto di sofferenza vicaria: è possibile assumere su di sé le sofferenze di chi si ama e non rivelare mai il nostro sacrificio? E se sì, perché? Per salvarlo? Per salvarci? Per garantircene il possesso esclusivo e totale? Per illuderci di aver contato qualcosa nella vita di qualcuno? Qualunque sia il movente, occorre trovare una Casa dei desideri…
Diversi racconti hanno per tema l’esperienza terribile della Grande Guerra, che scosse dalle fondamenta le convinzioni politiche di Kipling, colpito, tra l’altro dalla perdita del figlio John. La guerra di Kipling è la guerra dei soldati, ma soprattutto quella dei civili, di bambini uccisi quasi per caso, da vecchi tagliati fuori dalla Storia, da donne destinate non a combattere a subire l’angoscia della separazione, la tortura dell’attesa, l’annuncio della morte e, con la lettera del Ministero, l’entrata in quella terra di nessuno che è la perdita: del marito, del figlio, del fratello. Eppure sono proprio le donne, dalle quali in fondo la comunità non si aspetta eroismi ma solo pazienza e rassegnzione a «tenere» meglio, ad affrontare con forza d’animo e decisione la guerra e il «dopo», popolato di reduci privi di speranza e scossi nelle loro certezze piàù profonde. Di grande potenza è Il giardiniere, dove non vi sono fantasmi se non quelli, fin troppo reali, delle migliaia di giovani morti e sepolti nei cimiteri di guerra francesi, vere e proprie città dei defunti, accanto alle quali, per accogliere le visitatrici, sorgono ostelli e luoghi di ristoro. Bello, anche se il nemico è forse «troppo» unilaterale, anche Mary Postgate, storia di una donna che, non avendo un «onore» da difendere fa – nella realtà o forse soltanto nella fatasia – ciò che un uomo non farebbe mai: emette ed esegue una sentenza. Di buona presa e divertenti Torrente amico che, se letto con la dovuta attenzione, si rivela una piccola storia piacevolmente perfida, e Il Medico di interni, storia di fantasmi canonica che scompiglia le carte con un colpo di coda. Sommesso e triste La signora Barthust, del quale il curatore riporta in nota la genesi. Vale la pena di leggere Alba guastata, storia di una beffa abilissima, una trappola perfetta che alla fine il suo ideatore si rifiuterà di far scattare in nome di un principio di giustizia (o forse della solidarietà di genere, chissà?).
Due racconti meritano ancora una citazione per la loro particolarità. Il primo è Il toro che pensava, prodigioso dal punto di vista stilistico, che ha per protagonista assoluto Apis, un toro geniale e malevolo, con il dono dell’umorismo. Vero animale da palcoscenico (e di sicuro meno bestia di diversi umani che popolano il racconto), Apis darà un gran saggio di recitazione insieme ad un vecchio torero che ha ritrovato grazie a lui la creatività artistica dei suoi anni migliori. Quando c’è feeling…
Ruggero Bacone |
Il secondo racconto è L’occhio di Allah: storia medioevale, considerata la miglior storia a sfondo storico di Kipling, racconto di una cena in un monastero del nord, nel tredicesimo secolo. Al tavolo dell’abate Stefano, uomo di scienza e di mondo prima che di religione, si incontrano Giovanni, il miglior artista del monastero, ossessionato dall’illustrazione dei diavoli nel vangelo di Luca, un medico della scuola salernitana, il medico del monastero e Ruggero Bacone. La discussione, innescata proprio dagli strani diavoli di Giovanni, racchiusi in cellette, privi di forma e di sembianze, ma terribilmente inquietanti, verte sul conflitto tra religione e scienza e allude a una (im)possibile rivoluzione scientifica: la scoperta del mondo infinitamente piccolo, attraverso le lenti di un microscopio fabbricato dagli infedeli.
Ah, dimenticavo, la faccenda del pennello! Questa è la ricetta di Kipling per una «revisione superiore»:
Prendi quanto occorre di inchiostro di china bello fino e un pennello di peli di cammello, proporzionato allo spazio fra due righe. Al momento propizio leggi la versione definitiva e valuta coscienziosamente ogni paragrafo, ogni frase, ogni parola: dove occorre passa un frego. Poi lasciala decantare il più a lungo possibile. Scaduto il tempo, rileggi e scoprirai che è passibile di una seconda riduzione. Infine torna a leggerla ad alta voce e con tutto comodo. Può darsi si prospetti o s’imponga qualche piccolo ritocco col pennello (…) La magia è racchiusa nel Pennello e nell’Inchiostro. La penna infatti può solo grattare, quando scrive; e non c’è da paragonare l’inchiostro in bottiglia col bastoncino in polvere. Experto crede12.
Funziona: ho provato la «revisione superiore» su questo articolo. Disponendo di molto tempo libero ho usato veramente inchiostro e pennello (non il carboncino, per carità!) ma sono convinta che anche un buon pennarello nero a punta grande andrebbe bene.
Come sarebbe, «l’articolo non è poi questo gran capolavoro…»? Ma voi, avete forse letto la versione non revisionata?
Note
1O. Fatica, Il fattore RK , in R. Kipling, «Loro»,Adelphi, Milano, 2002
2M. Skey, introduzione, in R. Kipling, Racconti del Mistero e dell’orrore, Bompiani, Milano 1990
3I. Calvino, Introduzione a Racconti fatastici dell’Ottocento vol. I, Mondadori, Milano 1983
4N. Annan, in M. Skey, Introduzione cit 1990
5Ibid.
6Ibid.
7R. Kipling , in O. Fatica, Nota ai testi, cit. 2002
8Ibid
9Si veda a questo proposito O. De Zordo, Introduzione a R. Kipling, Racconti di sogno e follia, Mursia, Milano, 1992
10R. Kipling , Qualcosa di me, Einaudi, Torino, 1938 e 1986
11Ibid
12R. Kipling , in O. Fatica, Nota ai testi, cit. 2002
da LN-LibriNuovi n. 22 – giugno 2002