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    Magazzino

    New italian epic, soltanto qualche anno fa

    • di Massimo Citi
    • Febbraio 18, 2013 a 6:37 pm

    Non è che se ne sia parlato poco, di questo libro.
    Giornali, supplementi letterari, settimanali allegati o meno a quotidiani nazionali, radio, TV: tutti a spendere falsetti, singulti e gridolini sul miracolo (apparente) di uno scrittore italiano che parla della storia italiana. Una miriade di articolesse e laudi che tutto sommato il buon Lucarelli non merita. Il suo romanzo, infatti, non è l’ennesima Opra dell’Autore Ispirato (o inspirato?), non è un Segno e non è un miracolo. Trattasi di romanzo storico ambientato nell’Italietta di Crispi da poco unita e tesa alla ricerca di un impero coloniale alla maniera delle altre potenze europee. Padrona dell’Eritrea l’Italia di allora pensò bene di combattere contro Menelik, Imperatore d’Etiopia, ringalluzzita dal successo militare ottenuto contro le orde del Mahdi (se non sapete chi era non avete letto Salgari e questo è male) . Andò a finire come tutti ricordiamo. Adua, ovvero l’unico caso nel quale un esercito europeo fu sconfitto da un’armata di nativi africani.

    Adua in una rappresentazione etiopica

    I motivi della sconfitta furono molti e diversi, resta il fatto che le smanie coloniali italiane si sfogarono in seguito nella conquista della Libia («lo scatolone di sabbia», come lo chiamò Mussolini) mediante l’aggressione a un vetusto impero Ottomano in piena decadenza e, negli anni Trenta, vendicando Adua a colpi di iprite.
    Ma sto andando fuori tema.
    Forse.
    Si parla di New Italian Epic. La definizione, se ho capito bene, l’ha tirata fuori il collettivo Wu Ming e, tra gli altri, è piaciuta molto anche a Lucarelli. L’avventura coloniale italiana come nuova frontiera. Come una ricerca fatta di libri e di romanzi che da parte mia e da quella di altri colleghi cerca di raccogliere il fascino della frontiera, della sfida con un nuovo Far West, dixit.
    Probabilmente sono riduttivo, ma, a parte la mia scarsa simpatia per l’epica della frontiera (soprattutto quando diventa genocidio), fatico a cogliere tale magia. Vero (e paradossale) che l’avventura coloniale fu anche avventura popolare – anch’io (come molti) posso citare un lontano parente «partito per l’Africa», un mio prozio partito a fare il camionista in Etiopia e tornato in Italia soltanto dopo la guerra, e per motivi di forza maggiore – ma pervasa di quel mefitico nazionalismo becero e straccione che ha funestato gran parte della storia italiana del secolo passato.
    Se invece scopo della Nuova Epica Italiana è tentare di ricomporre i frammenti della nostra identità nazionale a beneficio dei tempi grami nei quali viviamo sarebbe forse bene partire da qualche altra parte. Dalle Brigate Internazionali in Spagna, tanto per dire. O addirittura dai legionari fiumani e del loro curioso e troppo spesso dimenticato esperimento di stato libertario.
    Ma lasciamo perdere le epiche e ritorniamo al romanzo di Lucarelli.

    Carlo Lucarelli

    È quello che si definisce comunemente un «romanzo corale», popolato da un gruppo di personaggi che il destino conduce a Massaua nell’imminenza della battaglia di Adua. L’incombere della battaglia e del suo esito infausto svolge ottimamente la funzione di creare attesa e distacco, rendendo azioni e pensieri dei personaggi un drammatico ballo sul ponte del Titanic. La coloritura fatalmente malinconica di desideri, velleità e propositi rende necessariamente anche più alieno e poco familiare quel pezzetto di costa africana sospeso tra l’Arabia e e l’Africa Nera. Gli italiani – come tutti i colonialisti a tutte le latitudini – appaiono così un’enclave dispersa e, in ultima analisi, esiliata. Naufraghi, nonostante la prosopopea e un razzismo latente che emerge a tratti nitido. Il caldo della colonia africana – che Lucarelli sottolinea costantemente – rende più acuti i desideri e le passioni, più urgenti i sogni ma, nel contempo, stanca, indebolisce, svuota. La sconfitta di Adua e il massacro si rivelano così l’unico possibile esito dello smarrimento e della confusione che via via prende tutti i personaggi.
    Il lettore può porsi alcune domande, a questo punto.
    Una prima potrebbe riguardare la scelta di un tempo e di un luogo non storicamente anonimi. La seconda l’aver inserito personaggi accomunati – con l’esclusione di Sciortino, nato pastore e destinato a ritornare tale sia pure in tutt’altro luogo – da quello che verrebbe voglia di chiamare «cupio dissolvi», ovvero sentimento di morte. Un sentimento e un sentore tanto evidente da creare nel lettore automatismi nelle attese.
    «Tanto finisce male», si conclude stoicamente.
    «Finisce male» qualsiasi cosa: un amore, una passione colpevole, un sogno, un’ansia di libertà. Tutto deliberatamente e fatalmente in malora.

    È forse questo il principale – anche se non unico – difetto del libro. Una tetraggine calcolata, un ripetersi e un ripetere al lettore: «tanto è tutto inutile», «tanto è tutto già scritto, già deciso, già vissuto». Ed è forse questa la risposta alla possibile prima domanda del lettore: «perché un luogo e un tempo così inanonimi?».
    Separare le vite dalla Storia, narrarle a partire dall’esito piuttosto nel loro farsi quotidiano risulta qui espediente efficace ma che prosciuga completamente il romanzo rendendolo secco e rigido, gelido nonostante i 50° all’ombra. Le scene drammatiche si susseguono senza più provocare trasalimenti e partecipazione emotiva. «Ah, è morto»: si prende nota e si continua in attesa del massacro finale che darà finalmente un senso a tutto quanto è finora avvenuto.
    Giusta attesa.
    Il massacro finale è comunque un vero pezzo di bravura, un narrare potente e nervoso di assalti a cavallo, sparo di fucilerie, disperazione, terrore, confusione e follia degno di Salgari (di nuovo, sarà casuale?). Che valga la pena di leggere trecento pagine di confusi eventi e di rassegnata attesa per trenta di superba narrativa di guerra è una decisione che spetta al lettore. Personalmente comunque non mi lamento per essere giunto al termine e ringrazio Lucarelli.
    Immaginando di averlo qui, comunque, gli chiederei il motivo – se ne esiste uno – dell’uso contemporaneo, ovvero all’interno del medesimo paragrafo, del passato remoto e del presente. Qui siamo all’artigianato della scrittura e, volendo, un autore (di scarpe) ha tutto il diritto di fabbricarne con il tacco sulle punte. Ma non è strano chiedergliene il motivo. Il cambio di tempo a distanza di tre righe: «egli disse… ed esce», ha come risultato sicuro quello di far sobbalzare il lettore. Sobbalza oggi, sobbalza domani si finisce con l’abituarsi, ma resta una sensazione di disturbo in fondo alla mente, un prurito che non è facile dimenticare. E non mi resta che chiedere di nuovo «Perché?». Alternare paragrafi al passato remoto e al presente ha una funzione ben collaudata in narrativa, ma alternare i tempi senza un motivo evidente serve soltanto a rendere il lettore ancor più separato e freddo nei confronti della vicenda. Era questo lo scopo desiderato e cercato? È possibile. «Mica vorrete divertirvi?», chiede Lucarelli al lettore e vien voglia di rispondergli: «Chi, noi? Ma per carità».
    Strano libro, in definitiva.

    Frutto di un lavoro di documentazione appassionato e scrupoloso, tanto appassionato a scrupoloso da rievocare in diversi momenti il gusto salgariano (di nuovo?) dell’esotico sotto forma di sostantivo, breve frase o appellativo rigorosamente declinato nell’idioma locale o in quello al quale il personaggio appartiene. Una specie di garanzia nei confronti del lettore che «si fa sul serio», che – nel caso di Salgari – non si tratta metaforicamente di amico portuale con salvietta arrotolata sulla testa ma di vero indù o malese.
    Lucarelli non è però Salgari e dà ogni tanto la sensazione di eccedere nello scrupolo (o nell’esibizione) traducendo sostantivi a raffica nei tre o quattro diversi linguaggi in uso in Eritrea, terra di confine e di passaggio. Si apprezza tanto scrupolo, come no, ma si ha comunque la sensazione di non fare un solo reale passo avanti nella conoscenza del luogo. È vero che non era questo lo scopo del romanzo, ma, in definitiva, sono proprio i nativi eritrei ed etiopi, rappresentati con il ritegno politically correct del western americano anni Settanta, a risultare gli elementi più trascurati e inafferrati di questo pezzetto di storia Italiana.
    New Italian Epic, in questa coniugazione depurata dei veri protagonisti, rischia così di scivolare fatalmente nell’alveo del sogno esotico alla Paolo Conte (…cerco un po’ d’Africa in cortile, tra l’oleandro e il baobab…) o della riedizione amatoriale di un albo Nerbini di Cino e Franco nella jungla.
    Ma è ancora presto, per dire. Aspettiamo e vediamo.
    Anzi, aspettammo e vediamo.

    Carlo Lucarelli
    L’ottava vibrazione
    Einaudi Stile Libero, 2008

    pp. 462, € 19,00

    Idem
    Einaudi Super ET, 2010
    pp. 462, € 13,50

      

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