Crescere accade a tutti, poi si sopravvive. Ma il passaggio dall’infanziaall’età adulta non è facile, e il più delle volte nemmeno felice. Occorre imparare a conoscere e ad accettare se stessi e i propri limiti, a capire che a volte i compromessi non sono rese ma una mediazione onorevole a sé e gli altri… ma soprattutto occorre comprendere che «quegli altri», gli adulti, non sono e non possono essere i «grandi» che conoscono tutte le risposte e possono evitare ai figli da ogni dolore. Di loro è bene diffidare: spesso sono ottusi, talvolta molto pericolosi, capaci di incarnare il male da cui dovrebbero difendere i più piccoli. Ma il più delle volte sono semplicemente tanto occupati a sopravvivere e a dare ai figli i mezzi per farlo da non aver tempo per nient’altro. E questo forse, è il peggio di tutto, come dimostrano tre vicende, viste con occhi adolescenti o di bambini che non rimarranno tali a lungo. Libri scritti tra il 1953 e il 2007, che raccontano di un’America lontana dalle grandi città, di una provincia chiusa e bigotta, convinta che i bambini siano soltanto copie più fragili e ottuse degli adulti che dovranno diventare, dove soltanto pochi riescono a comprendere, a vedere davvero. E quei pochi o non sono adulti o, se lo sono, non appartengano all’universo bianco e maschile, come la nonna di Adam, il «negro» di Billy Bob e l’anziana Rachel che ha imparato a tener testa perfino agli abilissimi mediatori di bestiame, inflessibili nel curare i loro affari…
La vita segreta dei corvi, (titolo originale One for Sorrow, che allude a una filastrocca) racconta del quindicenne Adam che vive nella Rust Belt 1, in una cittadina di provincia in Ohio. un ragazzino solitario, studioso, bravo in atletica che proviene da una famiglia con pochi mezzi e la reputazione di essere un po’ strana: suo padre è un carpentiere rozzo e di poche parole, spesso senza lavoro, la madre è confinata su una sedia a rotelle a causa di un incidente d’auto provocato da Lucy, una vicina, che per «rimediare» lascia il marito e si stabilisce da loro, in sostanza è un’impicciona che li parassita emotivamente. Il fratello di Adam è un diciassettenne scoppiato, che fuma canne e studia poco a scuola ma storna da sé l’attenzione mettendo continuamente Adam nei guai:
Andy però non è mai stato bravo a fare i collegamenti. Non ha mai visto i segni, i fantasmi e le ombre. In realtà era un ragazzo cieco e sordo. Sfortunatamente non era muto, e viveva nella stessa casa con me.
Lo scenario della vicenda – che visto con gli occhi di Adam spesso vira in atmosfere fantastiche e crepuscolari – è costituito da piccole cittadine del Mid-West, disseminate di vecchie fabbriche abbandonate, abitate da poveracci che tirano a campare e da un piccola borghesia chiusa e un po’ bigotta, un mondo chiuso, soffocante e malinconico.
La vita di Adam, già provata da varie disgrazie, viene sconvolta dall’assassinio di un compagno di scuola, Jamie Marks, un ragazzino molto intelligente ma disadattato e chiuso, in buoni rapporti soltanto con Adam e con Gracie, la ragazza che ha trovato il suo corpo e che ha in comune con Adam una sorta di seconda vista.
La relazione con Jamie, che con il ragazzino vivo era una semplice conoscenza non ancora divenuta amicizia, con la morte si trasforma in un vincolo insinuante e ineludibile, Jamie è fantasma infreddolito che cerca in Adam conforto e calore vitale. In sua compagnia Adam impara a entrare e uscire da un mondo sospeso, uno spazio morto nel quale attendono i fantasmi che non si sono sentiti di attraversare il tunnel che porta dall’altra parte. Jamie è uno di loro, sempre alla ricerca di calore, vivo soltanto fino a che ha ricordi da bruciare per scaldarsi o fino a che Adam sarà disposto a regalargli i suoi.
Christopher Barzak |
La relazione parassita, gentilmente e disperatamente vampirica, tra Adam e Jamie, colorata di omoerotismo adolescenziale, si contrappone a quella più «normale» tra Adam e Gracie, che potrebbe essere letta come la prefigurazione di un futuro adulto, mentre Jamie rappresenta un passato più autoreferenziale. Giustamente, però, la storia di Barzak è volutamente ambigua e Adam sembra non poter fare a meno né dell’uno né dell’altra, rimanendo per buona parte del libro sospeso tra una vita sempre più fantasmatica, vissuta in una copia parallela e più sbiadita, opaca ed entropica della nostra realtà, in un paesaggio scandito da vecchi edifici industriali dismessi e da binari ferroviari semidimenticati. La scelta che ha di fronte il ragazzo pare essere tra la maturità e una eterna adolescenza da fantasma – più sensibile ma più fragile ai venti della vita. Ma questa è soltanto una delle possibili letture, che mi piace immaginare tutte contemporanee e affiancate, tutte ugualmente «vere» nel senso più profondo della letteratura fantastica.
E in fondo, come pensa Adam, come anch’io penso guardandomi indietro: «la disperazione più grande era non sapere a volte, anzi spesso, se ero migliore adesso di allora». Fortunatamente noi adulti ce lo chiediamo soltanto qualche volta. Fortunatamente spesso abbiamo il buon senso di non rispondere.
La critica anglosassone ha sottolineato i riferimenti e le eventuali somiglianze al giovane Holden, guidata da una vaga somiglianza di stile e da un riferimento dell’autore: proprio il romanzo di Salinger Adam legge nei giorni trascorsi a casa di Gracie dopo la fuga da casa. Indubbiamente entrambi i testi rispecchiano il passaggio tumultuoso a difficile dall’infanzia alla vita adulta, ma, per quanto mi riguarda, le somiglianze finiscono qui. Il romanzo di debutto di Barzak (già autore di numerosissimi racconti) è una piacevole sorpresa proprio per la sua diversità: una rappresentazione dell’adolescenza come alienazione e perdita di punti di riferimento, come l’esplorazione dolorosa di un altro mondo, incomprensibile e fatto d’ombre, pauroso e pericoloso ma anche seducente e capace di avvincere come una vecchia sirena.
Per saperne di più sull’autore, un sua intervista in occasione della nomination ai Nebula Awards 2011.
Qui giacciono un manipolo di uomini e una bestia, protagonisti di un romanzetto da quattro soldi.
Joe R. Lansdale, Il carro magico.
Il carro magico di Joe R. Lansdale è un romanzo che inizia come uno juvenilia, prosegue al ritmo di una farsa surreale e termina come una tragedia greca.
Il romanzo, pubblicato nel 2001, si svolge nel 1909 in un Far West ormai decadente e metareale, dove le gesta di pistoleri come Wild Bill Hickock, ormai prive di senso, sono diventate prima leggenda popolare e poi, rapidamente, produzione narrativa seriale per aspiranti pistoleri alfabetizzati. Idealizzati tanto da essere descritti come divinità greche, i vari «eroi» da romanzo nutrono non le fantasie sessuali di ragazzette in piena tempesta ormonale ma la mente esaltata di giovinastri che vorrebbero imitarli, superarli, diventare il dito più veloce del West.
Protagonisti della vicenda un trio di personaggi mal assortiti che attraversano il Texas su un grande carro da spettacolo. Il diciassettenne Buster, narratore della vicenda, è stato letteralmente sradicato dal villaggio dove viveva da un tornado di incredibile violenza che gli ha sterminato la famiglia e distrutto casa e campi; Billy Bob, divoratore di romanzetti sui pistoleri, spara come Wild Bill Hickock e si spaccia per suo figlio, sfruttando la propria abilità e la bella presenza per campare; Albert è un nero ex sergente dell’esercito degli Stati Uniti e nipote di schiavi. Billy Bob e il «suo» negro, girano gli stati meridionali campando di spettacoli itineranti a base di esibizioni con la pistola, lotte tra il pubblico e il loro scimmione e spaccio di finti elisir medicinali. Nonostante il profondo razzismo, Billy Bob prova per Albert qualcosa che non ha nulla a che fare con l’amicizia, di più vicino a un rispetto riluttante e rancoroso, che Buster avverte senza riuscire a dargli un nome.
Joe Lansdale |
Capitati un giorno in uno dei tanti villaggi, i tre si preparano al solito spettacolo serale, oppressi però da un pericolo che li perseguita da quando Billy Bob si è impadronito della presunta salma di Wild Bill, ingannando una sorta di stregone indiano. Il villaggio è il condensato di tutte le pessime caratteristiche del classico posto di frontiera: facinorosa e razzista, la popolazione maschile (quella femminile non compare mai) è esaltata dalle esibizioni di un altro pistolero, proprio uno degli eroi dei libercoli di Billy Bob. L’inevitabile incontro tra i due dal grilletto facile finirà con una serie di sparatorie che Lansdale accumula giocando abilmente al rilancio e imprimendo alla storia un andamento a vite che sfocerà in tragedia.
Diversamente dal romanzo d’avventura e di formazione che potrebbe apparire, Il carro magico è una riflessione sulla spettacolarizzazione della violenza e della volgarità che ha molti punti di contatto con quella che avvelena la nostra quotidianità. Ciò che più colpisce nel libro è proprio la reazione della gente del posto, il bisogno di raccogliersi intorno non a un eroe ma a un personaggio di spettacolo, capace di calamitare costantemente l’attenzione, a un «pessimo soggetto» di cui sparlare e, nello stesso tempo da riverire. Il ruolo dell’eroe è contraddittorio, oltre che pericoloso: Lui deve essere autoritario ma non autorevole, meglio se si dimostra un po’ misero, un po’ simile agli incensatori. La stronzaggine è assolutamente necessaria, come il razzismo verso i neri, l’incazzatura facile e immotivata, la violenza nei confronti dei deboli. Infine, l’eroe deve sempre essere in azione: una deve farne e dieci pensarne, altrimenti la noia e l’indifferenza prenderanno il sopravvento. Se l’eroe locale non è più all’altezza, naturalmente va sostituito, il ruolo è fondamentale ma le persone sono intercambiabili. Il nuovo personaggio resterà in carica fino all’arrivo di qualcuno più cinico e rozzo di lui.
Seguire qualcuno molto simile a uno sgradevole vicino di casa, uno del quale invidiare la furbizia ma non stimare la condotta, non migliore di noi ma con il coraggio, la faccia di tolla, di compiere azioni eticamente criticabili che anche noi vorremmo compiere, uno che si pone al di sopra della legge…
Bisogno di assistere continuamente a un reality, nel quale altri più esibizionisti e temerari, ma soprattutto più stupidi e bastardi si comportano come ognuno vorrebbe comportarsi, se fosse sicuro di passarla liscia… Parliamo del Far West del 1909 o dell’Italia del 2008?
Ed è inutile illudersi: anche la popolazione femminile non mostra la conclamata stupidità di quella maschile e se qualcuno alla fine si salva, non ci sono speranze: nel Far West del 1909 le donne contano ancora troppo poco per potersi esibire e la morte, comunque, colpisce a caso, colpevoli e innocenti, come il povero scimmione.
Nato in West Virginia nel 1919, Davis Grubb, dopo aver pubblicato numerosi racconti brevi sulle maggiori riviste degli anni Quaranta, scrisse il suo romanzo più famoso, questo The night of the hunter, una novella nera che mescola il tema dell’indigenza durante gli anni della Depressione (che la madre aveva vissuto di prima mano) con quello del male inflitto agli innocenti, soprattutto ai bambini. Il romanzo, pubblicato nel 1953 divenne un instant bestseller ed è ora considerato un classico minore della letteratura americana; ne venne tratto un film, ormai diventato anch’esso un classico, diretto da Charles Laughton, con Robert Mitchum nella parte del predicatore Powell e Shelley Winter in quella della vedova Harper. Un altro suo romanzo, Fools’ Parade del 1969, divenne un film con James Stewart, altre storie furono adattate per la TV da Alfred Hitchcock. Grubb morì nel 1980 a New York. Autore di racconti horror e di fantascienza, fu soprattutto maestro dell’American Gothic, genere letterario di marca sudista frequentato da William Faulkner, Flannery O’Connor, William Gaddis, James Lee Burke e, guarda caso, proprio Joe Lansdale.
La morte corre sul fiume (pubblicato in Italia anche come La notte del cacciatore e Il terrore corre sul fiume) si svolge nella profonda Bible Belt 2americana, a Moundsville in West Virginia. Il romanzo si apre con una scena drammatica: Willa Harper, giovane madre di due bimbi, si prepara per l’ultimo colloquio con il marito condannato a morte per rapina e omicidio. Sono gli anni peggiori della Depressione del 1929, e Ben Harper, lavoratore del consorzio agrario per una misera paga, che fatica a offrire pranzo e cena alla sua famiglia con la misera paga del locale consorzio agrario, tenta una rapina in banca. Rapinatore inesperto e spinto dalla povertà, Ben viene preso dal panico all’imprevista reazione degli impiegati e uccide due persone. Poi, inseguito dalla polizia si rifugia a casa e viene arrestato davanti agli occhi dei bambini, dopo aver affidato loro il bottino facendosi promettere il silenzio, anche con la madre. I bambini non fiatano, la piccola Pearl, quattro anni, perché non ha nemmeno compreso la situazione, John, di dieci per devozione verso il padre. Così il bottino non si trova e Ben, testardamente non parla, nemmeno per salvarsi la testa, resistendo a ogni lusinga del compagno di cella, Ben Harry Powell detto il predicatore, che insiste giorno e notte per farsi rivelare il nascondiglio. Nemmeno sul patibolo Ben tradisce il segreto ma Harry non si rassegna: ciò che non ha ottenuto da ben, disperato e a suo modo un duro, potrà di sicuro saperlo dalla giovane vedova… Sessuofobo dal coltello facile, disposto a tutto per trovare quei soldi, Powell si mette in caccia; ha già ucciso altre donne e non si fermerà per ottenere ciò che è convinto che il Cielo gli abbia destinato.
Anima nera travestita da figlio di Dio, Powell si serve di un’oratoria potente e disadorna che fa subito colpo sulla comunità ignorante e potenzialmente fanatica nella quale vive Willa, riuscendo a incantare gli adulti e la piccola Pearl. John è costretto a fronteggiarlo da solo per tenere fede alla promessa fatta a Ben.
Interpretato nel film di Laughton da un grande Robert Mitchum, il Predicatore è un personaggio estremo, inarrestabile e ambiguamente fascinoso che, insieme alla presenza nascosta del bottino, fa emergere con la sua presenza tutte le contraddizioni della comunità: l’avidità di qualcuno, le pericolose buone intenzioni di altri, felici che la povera Willa trovi un altro marito per sostituire quel poco di buono di Ben e riprendere il suo ruolo «normale» di madre-moglie.
La contagiosità del fanatismo latente, l’inesauribile capacità degli esseri umani di vedere soltanto ciò che vogliono, la convinzione che i bambini sono soltanto copie imperfette e più deboli degli adulti, la fiducia immediatamente riposta in qualcuno disposto a pensare per gli altri… Davis Grubb sa illuminare ogni dettaglio dell’atmosfera soffocante e stantia della Bible Belt con una luce fredda e crepuscolare e accumulare tensione nelle scene notturne vissute con lo sguardo dei bambini che sanno ancora troppo poco ma «sentono» più limpidamente degli adulti obnubilati dalle loro convinzioni.
Ma La morte corre sul fiume è anche un romanzo realista, che descrive a nitide pennellate l’America della Depressione, raccontandone aspetti che noi europei meno conosciamo, come la povertà crescente che colpisce non soltanto i ceti bassi delle grandi città ma anche i lavoratori delle campagne, che faticano a mettere insieme pranzo e cena e devono fronteggiare, talora offrendo cibo e talora cacciandoli via un esercito di poveracci in fuga dalle città, e un numero inimmaginabile di bambini affamati e privi di adulti di riferimento. Nonostante la sfortuna e la caccia feroce che dà loro il predicatore, John e Pearl sono fortunati perché incontreranno Rachel che non giudica, parla poco, ascolta molto e sta con gli occhi bene aperti…
Un grande libro che, nonostante il tema dell’infanzia povera e tradita dagli adulti, riesce miracolosamente a non scivolare nel patetico; un romanzo gotico che vive di scene notturne – quando il buio inganna la mente, ingigantisce il pericolo ma anche nasconde John e Pearl agli occhi del predicatore e di quotidianità soffocanti, piene di servitori di Dio accecati dalle buone intenzioni, troppo occupati a difendersi dal male per riuscire a provare umana solidarietà.
Qui il trailer del bellissimo film tratto dal romanzo, diretto da Charles Laughton e interpretato da Robert Mitchum, Shelley Winters e Peter Graves.
1da Rust, ruggine, e Belt, fascia. Indica l’area a nord est degli Stati Uniti e comprende anche gli stati medioatlantici e la parte settentrionale del Midwest. Le attività economiche della regione formavano una parte significativa dell’industria pesante e dei settori manifatturieri americani; il collasso delle acciaierie e la conseguente ristrutturazione industriale ha poi provocato la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, forzando la produzione industriale della Rust Belt a diversificarsi o a decadere.
2Il termine Bible Belt, coniato nel 1924 dal giornalista americano H.L. Mencken, indica una vasta area provinciale del sud del paese nella quale, pur con notevoli differenze, il protestantesimo evangelico è ancora un tratto culturale dominante che influenza notevolmente la vita politica, l’educazione scolastica e la percezione della scienza.
Christopher Barzak
La vita segreta dei corvi
Elliot, ed. 2008,
pp. 350, € 18,50
Trad. C. Nubile
Joe R. Lansdale
Il carro magico
Fanucci editore, ed. 2008,
pp. 176, € 14,00
Trad. S. Pezzani
Davis Grubb
La morte corre sul fiume
Adelphi, 2007,
pp. 259, € 18,00
Trad. G. Oneto
da LN-LibriNuovi n. 47 – ottobre 2008