Lawrence Wright, è giornalista e autore di saggi e reportage, tra cui una lunga e documentata inchiesta su Scientology pubblicata su The New Yorker (il settimanale a cui collabora fin dal 1992) che ha portato nel 2011 autore e testata nel mirino della setta. Quella che segue è una recensione pubblicata nel 1999 e tengo a precisare che il mio giudizio sull’autore è circoscritto esclusivamente al testo in oggetto.
Lawrence Wright, autore di altri saggi di argomento scientifico, è un giornalista (attualmente fa parte dello staff del New Yorker) e raccoglie dati e opinioni altrui, presentandoli al pubblico in maniera scorrevole e documentata. L’editore Garzanti, che ha pubblicato il suo nuovo saggio Gemelli, deve ritenerlo già sufficientemente noto al pubblico italiano, così gli dedica esattamente nove righe del risvolto di copertina. (righe che ho pescato, quasi identiche, nel sito Amazon.com).
Naturalmente un buon divulgatore è proprio il genere di autore che mi auguro di incontrare quando leggo, quindi ho affrontato la prima parte del libro senza pregiudizi, nemmeno quando ho capito che Wright pendeva, per così dire, più verso il campo dei deterministi che non verso l’ambientismo, al quale io, cosa volete, sono più affezionata. Niente di male, un buon testo può contribuire a sgombrare il campo da remore soltanto ideologiche, a chiarire meglio i termini – anche disciplinari, oltreché sociali – della questione. Per onestà non arrivo a dichiarare che avrei fatto il grande salto di campo, ma ero disponibilissima ad ascoltare.
L’ho fatto, e a lettura ultimata ho riesumato una definizione che in politica (dove di solito viene usata) non sento da un bel pezzo, forse perché l’assuefazione non richiede più etichette: questo è il libro più «cerchiobottista» che abbia letto da anni. Devo ammettere, però, che Wright alterna colpi al cerchio e alla botte con signorilità e soave efficienza, citando un gran numero di studi, maneggiando con abilità una mole cospicuadi dati e traendone conclusioni con invidiabile sicurezza, riuscendo a dare un’impressione superficiale di obiettività.
L’argomento del saggio è, come dicevo, dei più avvincenti: attraverso lo studio di ciò che rende uguali e/o differenti i gemelli, molti studiosi stanno cercando, in realtà, di comprendere quanto del nostro Io sia dovuto al patrimonio genetico e quanto all’ambiente. Gli studi, quelli di oggi come quelli di ieri, confrontano determinate caratteristiche nei gemelli identici (ossia omozigoti, cioè frutto di un unico uovo fecondato divisosi poi una o più volte durante i primi stadi dello sviluppo) che quindi hanno lo stesso patrimonio genetico – esattamente come dei cloni – e nei gemelli fraterni, frutto di fecondazioni separate ma contemporanee e quindi, come i semplici fratelli, hanno in comune circa il 50% dei geni. Se la personalità di ognuno di noi fosse soprattutto dovuta all’ambiente, nulla renderebbe i gemelli identici mediamente più simili fra loro dei gemelli fraterni o di semplici fratelli. Se, al contrario, la personalità fosse influenzata soprattutto dai geni, allora le somiglianze tra gemelli identici dovrebbero risultare molto maggiori che non tra fratelli. Naturalmente, occorre separare le due variabili, DNA e ambiente: dire che due gemelli hanno un carattere molto simile non dimostra nulla, se i due condividono sia il DNA sia l’ambiente familiare. Ecco, allora, che diventano preziosi i casi limite fortuiti di gemelli identici separati in tenera età e allevati da famiglie diverse, meglio se differenti per censo, tradizioni, visione del mondo. Tali occasioni sono così irresistibili che Wright riporta il caso di ricercatori che hanno, per così dire, aiutato un po’ la fortuna, consigliando l’adozione separata, per poi continuare a studiare i bambini.
L’idea dei gemelli separati non è nuova, dite? Eh sì, avete ragione: più o meno è dall’inizio del secolo che la scienza occidentale si gingilla con questa «speranza» che poggia su un equivoco, quello di poter definire in maniera univoca categorie vaghe e fondamentali per la nostra umanità come «intelligenza», «personalità», «carattere». Accanto a studiosi seri se ne sono occupati personaggi che è poco definire controversi, come Cyril Burt (autore di uno studio che dimostrava in maniera lampante come il QI dei gemelli fosse pressoché identico, e che poi risultò una clamorosa frode) e persino Mengele (con il taglio criminale che sappiamo e che non deve screditare le ricerche corrette degli altri ricercatori).
Il fatto è che a cominciare dagli anni Ottanta, dopo un periodo di quarantena (erano un po’ troppo contigui all’eugenetica e ai discorsi discriminatori sulle razze), questi temi sono tornati in voga, parallelamente – nota Wright – al declino dei fautori delle politiche assistenziali e il trionfo dell’ultraliberismo. Il tallone di Achille di questi studi (difetto che Wright non cita mai, glissando elegantemente) è la pretesa di saper misurare univocamente caratteristiche difficili persino da definire come il QI, innanzitutto, e poi qualità del carattere come estroversione, tendenza alla depressione, creatività… Quali parametri scegliere per valutarle?
Sul QI i ricercatori possono attingere a molto materiale collaudato, oltre che da Burt, da Godard e altri che contribuirono a dichiarare gli immigrati indesiderati negli USA (slavi, ebrei, italiani negli anni Venti) poco più che idioti, e da tutti gli psicologi arruolati in quella follia numerologica che fu la somministrazione dell‘Army test (che «stabilì» il famoso scarto di 15 punti nel QI a sfavore dei neri). Ma gli studi più recenti prendono in considerazione ben altro: elettrizzati dall’opportunità di utilizzare un gran numero di «campioni», gruppi come quello guidato dal prof. Bouchard della University of Minnesota hanno rivoltato letteralmente la vita dei gemelli separati, ponendo loro centinaia di domande, misure, test, questionari, fino a valutare l’ereditabilità di tratti come la disponibilità, la coscienziosità, lo stato nevrotico e l’apertura mentale per i quali «Bouchard riscontrò un’ereditabilità complessiva pari a 0,41 [ossia 41%]», qualunque cosa significhi. «Altri ricercatori trovarono [corsivo mio] che l’ereditabilità del radicalismo era 0,65, e quella della determinazione 0.54; per l’autoritarismo la stima era 0.62. Le influenze genetiche sull’interesse per il lavoro, d’altra parte, erano un po’ meno ereditabili». E questo, immagino, nonostante la determinazione a guadagnare dei datori di lavoro autoritari!
Fermarsi a questo punto è un vero peccato, no? Infatti sono state registrate anche inspiegabili coincidenze come ad esempio la scelta da parte dei gemelli identici di mogli con il medesimo nome, la preferenza verso nomi uguali, o almeno simili, per i figli e per i cani (scusate l’accostamento, la colpa non è mia ma dei gemelli).
Avete scelto un compagno/a di nome Jim o Beth? Vi piace costruire mobiletti di legno per la casa delle bambole, amate le panchine da giardino? Amate le macchine con il motore elaborato e odiate il baseball? È la voce del sangue, anzi dei geni, almeno nell’Ohio. Se vi pare che la metta giù un po’ facile controllate a p. 45.
A questo punto qualche lettore fazioso potrebbe cominciare a scuotere la testa, ma avrebbe torto. Bouchard si rende perfettamente conto che l’ambiente e il caso potrebbero spiegare parte di queste coincidenze, che probabilmente riguardano un gran numero di americani di provincia, e che per chiarire la questione necessitano ancora numerosi anni di lavoro e molti fondi. Fortunatamente la sua equipe almeno dei fondi non deve preoccuparsi, ci assicura Wright: ne riceve di cospicui dalla Pioneer Fund di New York, una fondazione «che tradizionalmente appoggia progetti a sostegno della segregazione razziale».
Ma via, non siate diffidenti! Davvero vi chiedete se tali finanziatori non si aspettino risultati di un certo tipo?
Inutile sperare di riassumere anche solo in parte la mole impressionante di percentuali schierata da Wright, né avrebbe senso discutere dei dati ottenuti e della loro credibilità statistica. Ciò che io intendo discutere è invece la metodologia seguita dall’autore, ovvero il progetto del saggio: presentare in forma divulgativa ma attendibile i rapporti tra le entità del sottotitolo: geni, ambiente, identità personale.
Mi sembra chiaro che questo genere di trattazioni debba poggiare su due garanzie: la prima è un’esposizione obiettiva o perlomeno una chiara enunciazione del punto di vista dell’autore. Si tratta di un patto implicito con il lettore che purtroppo Wright non onora fino in fondo: senza mai dichiararsi determinista, Wright minimizza gli studi che dimostrano tesi contrastanti, insinua che l’obiettività di studiosi come Kamin (che tra l’altro smascherò la frode di Burt) e Rose sia almeno offuscata dalle loro opinioni politiche progressiste e canta il de profundis alle posizioni ambientiste:
Mentre le opinioni degli ambientisti perdono favore, le politiche che erano state costruite sulle loro convinzioni si sgretolano. Molto semplicemente, non hanno prodotto nulla da contrapporre agli studi sui gemelli e sui bambini adottati.
Amen. Il suo modo di presentare gli argomenti segue uno schema preciso: ad un ampio spazio dedicato agli studi e alle tesi dei deterministi (questa mia etichetta ha lo scopo di semplificare, non di banalizzare), segue un breve accenno alle obiezioni sollevate da altri studiosi, che non era decentemente possibile ignorare visto il livello delle polemiche innescate. Segue la risposta dei deterministi, ai quali l’autore regala sempre il vantaggio dell’ultima parola.
La seconda garanzia di cui scrivevo, oltre all’obiettività, o almeno a una chiara presa di posizione, è più sfumata, ma non meno importante: si tratta di fornire al lettore alcune ragionevoli certezze. Innanzitutto che i «campioni» utilizzati siano stati scelti in maniera corretta: da indagini di altri studiosi risulta che alcune coppie di gemelli si siano riunite anche anni prima dell’inizio dello studio (con l’opportunità di discutere e confrontare le esperienze passate), oppure che i gemelli studiati siano stati allevati da rami della medesima famiglia, frequentandosi persino durante gli anni di separazione. In secondo luogo che i valori ottenuti rappresentino grandezze misurabili (come misuro il radicalismo di qualcuno? Chiedendogli quanto è radicale?) e non influenzate da altri effetti: se «misurando» la propensione al divorzio dei figli di genitori divorziati scopro che è insolitamente alta, come posso ascriverla con sicurezza alla genetica e non a un ambiente familiare perturbato nei primi anni di vita?
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Stephen J. Gould |
Vista la posta in gioco, poiché i dubbi avanzati sulla correttezza metodologica degli studi recenti sono numerosi e tali da gettare ben più che un’ombra sulla loro attendibilità, era doveroso da parte di Wright documentarsi più a fondo, dare maggior spazio alle obiezioni e presentare i lavori dei deterministi per ciò che sono: interpretazioni possibili di dati tuttora in esame e non di rado controversi. In situazioni simili, un divulgatore dovrebbe poter contare o su competenze personali tali da permettergli di esaminare a fondo le fonti (era il caso, per esempio, di S. J. Gould) o su quelle di esperti in qualche modo super partes.
Altra questione non secondaria: secondo Wright (e secondo le sue fonti) una delle conseguenze degli studi sui gemelli separati è un drastico ridimensionamento dell’importanza dell’ambiente familiare nel formare la personalità del bambino e dell’adolescente. Simili discorsi sono alla base anche di altri saggi, come quello di Judith Rich Harris, Non è colpa dei genitori (Mondadori 1999). Per chiarirsi le idee vale forse la pena di leggere la bella recensione al libro della Harris scritta da Howard Gardner sulla «Rivista dei Libri».
Lawrence Wright
Gemelli: i geni, l’ambiente e il mistero dell’identità
Garzanti 1999 – ed. orig. 1997 – pp. 176, € 16.53
Trad. L. Montixi Comoglio
Tre libri che varrebbe la pena leggere:
Stephen J. Gould
Intelligenza e pregiudizio.
Contro i fondamenti scientifici del razzismo
Il Saggiatore tascabili, 2008, € 11.00
S. Rose, R. Lewontin, L. Kamin
Il gene e la sua mente
Biologia, ideologia e natura umana
Mondadori, biblioteca della EST, 1983
Purtroppo ormai esaurito
Howard Gardner
Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza
Feltrinelli, 2010, 16.00
Qui un’intervista a Gardner