«Io sono un uomo di cui non c’è niente da raccontare […] simile al tratto falso incollato all’inizio di un nastro magnetico: per quanto ci si affanni nessuno riuscirà mai a registrarvi sopra neppure il suono più insignificante».
A descriversi lucidamente è Hermann Karnau, personaggio di fantasia al quale Beyer presta il nome di una guardia del corpo del Führer. Nella finzione letteraria, Karnau è un ingegnere del suono al servizio di Göbbels, un solipsista che considera il nastro magnetico come unica interfaccia possibile con il mondo, il solo strumento di indagine della complessità umana, altrimenti intollerabile.
Karnau coltiva l’ambizione estrema di costruire una mappa di tutti i suoni umani, non soltanto voci, ma emissioni inconsapevoli e incontrollate: sospiri, esitazioni, soffi, gemiti, rantoli. E sa che chi vuol giungere a tanto deve lavorare in solitudine, senza fermarsi di fronte a niente, «con pazienza infinita, senza ritegno».
Karnau non è un nazista – è anzi critico sull’ideologia del Reich – e non è un sadico, semmai un monomaniaco che persegue il suo delirante obiettivo senza fermarsi di fronte a nulla, convinto che conoscendo ogni potenzialità della propria voce si possa avere il controllo delle parole pronunciate e quindi dei pensieri:
«Deve pur essere possibile assumere il controllo della propria voce, di questo organo che ogni estraneo può udire, di questa via di collegamento tra l’interno e l’esterno che rivela, come nessun altro moto interiore, i tratti di una personalità».
Per realizzare la sua mappa, Karnau è disposto a denunciare con noncuranza i nemici del Reich, ad assistere, senza prendervi parte, agli interrogatori violenti dei prigionieri, a modificare chirurgicamente l’apparato vocale di decine di cavie umane infliggendo loro atroci sofferenze fisiche e psicologiche. Un solo peccato la coscienza gli vieta di compiere: registrare le voci dei sei figli che Göbbels gli ha affidato per breve tempo e verso i quali, bambino mai diventato adulto, prova l’unica forma di lealtà di cui è capace.
Il racconto della Berlino in guerra, degli anni trionfali e poi della vittoria che sfugge, dei bombardamenti, della rovina incombente e, infine, degli ultimi giorni trascorsi nel bunker con Hitler e i gerarchi sconvolti o fatalisti, è condotto a due voci: quella di Karnau e quella di Helga, la primogenita di Göbbels, che ha otto anni quando conosce il tecnico e dodici quando, insieme alle sorelle e al fratellino, viene avvelenata dai genitori poi suicidi.
La lettura delle riflessioni infantili e serissime di Helga, dei suoi rapporti con i familiari produce un effetto di straniamento e insieme di chiarificazione. I discorsi veementi del padre, che martellano gli ascoltatori attraverso i cento altoparlanti approntati dai tecnici, si riducono alle esternazioni banali e di corto respiro di un piccolo borghese ubriaco di sé; la famiglia ariana perfetta, testimoniata sui quotidiani da mille fotografie, semplicemente non esiste: i bambini vivono in un mondo autosufficiente sul quale i genitori e gli amici di famiglia – dai Göring a Hitler – proiettano ombre inquietanti; come tutti i bambini, anche i piccoli Göbbels giocano, e i loro giochi sono la deformazione grottesca del mondo degli adulti, come la marcia dei sordomuti, durante le parate o il gioco di papà, che consiste nel dettare lettere, censurare film, pronunciare discorsi costruiti con frasi ascoltate mille volte e prive di significato.
Anche visto dal punto di vista assurdo del ladro di voci Karnau, il Terzo Reich si rivela per quel che veramente è stato: la vita quotidiana scandita dalla propaganda che garantisce la continuità del nazismo «grazie al sostanziale miglioramento della qualità acustica dei raduni di massa», i deliri chirurgici dei medici delle SS favorevoli al progetto di Karnau, le ultime farneticazioni di Hitler, che si nutre soltanto più di cioccolato al latte, la vita irreale nel bunker, sempre illuminata dalle luci artificiali.
Uno degli elementi di fascino del libro è l’affidare alle emissioni vocali ogni rappresentazione del mondo, dalle voci spezzate delle vittime al progressivo mutismo degli abitanti del bunker nelle ore della disfatta:
«quando uno ha paura non riesce neanche a parlare […] chi ancora riesce ad articolare lunghe frasi […] non ha capito che per noi la fine è vicina».
Ma il romanzo di Beyer tocca corde più profonde, suggerendoci somiglianze sorprendenti (la prigionia asettica di Helga e dei fratellini ricorda quella di Anna Frank) e domande inquietanti sull’orgoglio smisurato dei loro genitori, fermamente convinti che la «vita degna di essere vissuta» dei figli finisse con sogno nazista da loro condiviso. Inevitabile anche terribile domanda opposta: la cultura occidentale del XX secolo, imperniata come fu sulla gerarchia delle razze e sulla fiducia nell’eugenetica, disvalori comuni sia ai nazisti sia ai vincitori della guerra, avrebbe saputo garantire ai figli innocenti dei Göbbels una vita piena o li avrebbe inchiodati alla condanna del loro nome?
Un libro affascinante, che esplora un delirio rigoroso senza ricorrere effetti e ridondanze. Una lettura che stimola molte riflessioni d’attualità.
Il romanzo ha ispirato all’artista austriaca Ulli Lust una graphic novel intitolata Flughunde, come il romanzo.
Marcel Beyer, Pipistrelli, Einaudi Coralli 1997, [Ed. orig. 1995], pp. 256, trad. G. Oneto, edizione fuori catalogo, recuperabile unicamente in forma di usato o presso il Sistema Bibliotecario Nazionale.
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