Villa Campanario ha la forma di una lingua, in cui ogni gusto (e ogni casa) ha il suo posto, secondo una mappa dei sapori. Una mappa obsoleta, quella di Boring, smentita già negli anni ‘70 ma che è rimasta in voga ancora per lungo tempo nonostante le evidenze scientifiche. Il fondatore e proprietario della villa è l’accademico Semitiel, antropologo e autore del libro nel libro Umami, un saggio sul rapporto tra il quinto sapore, l’umami appunto, e il cibo preispanico. E proprio la relazione tra Umami e il suo speculare metaletterario dà una chiave di lettura per questo romanzo, che ritorna sul passato e al contempo prende le distanze da esso:
«Non so se è il lutto o l’anno sabbatico, ma scrivendo ora ho iniziato a intravedere la fragilità del sistema di riferimenti in base al quale prima ho scritto così tanto.»
Cinque anni, dal 2004 al 2000, vengono raccontati dalle voci di cinque personaggi diversi, succedendosi a ritroso come la corolla di tulipano si avvolge su se stessa. Ogni capitolo aggiunge una nuova traccia che va a delineare i contorni di un futuro che ci è già stato raccontato, fino ad arrivare al cuore delle storie, all’origine del dramma che si sta consumando nella piccola comunità. Ciascuno dei personaggi può intuire il dolore dell’altro e però non può parteciparne completamente, poiché tale dolore si consuma sempre all’interno di ciascun nucleo familiare, ed è significativo che vi sia una soglia fisica che gli abitanti del comprensorio devono attraversare per accedere a casa propria:
«Tutti quelli che vivono qui devono saltare il batacchio della campana (una protuberanza metallica che spunta da terra) per entrare e uscire dalle loro case.»
Tra le voci narranti compaiono non soltanto quelle dei personaggi viventi, ma anche quelle di personaggi che non ci sono più, a rimarcare che gli assenti abitano Villa Campanario tanto quanto i presenti, e che la morte non solo aleggia sopra la comunità, ma ne impregna il quotidiano. «Per me, tu sei morta sempre ieri» pronuncia il dottor Semitiel dialogando con la defunta moglie Noelia, e allo stesso modo la composizione dei capitoli del libro mette in scena proprio questo, un perpetuo dialogo di ciascuno con il passato, un passato che non è possibile mettere da parte.
Una struttura funzionale, quindi, oltre che originale, in grado di intensificare la dimensione drammatica di questo bellissimo romanzo, raccontato con una lingua altrettanto personale. Se infatti la costruzione della trama la scopriamo e comprendiamo via via che le pagine scorrono l’una dopo l’altra, la potenza della lingua e delle parole scelte e pronunciate da ciascun personaggio ci porta già dalle prime righe nell’esperienza intima, concreta:
«Intorno al tavolo c’è solo cemento grigio, grigio sporco, e una fila di fioriere piene di terra secca, resti di arbusti, sottovasi rotti. È un cortile urbano, incolore. Il poco verde che c’è, è muschio. Se c’è qualcosa di rosso, sarà ruggine»
Ognuno dei protagonisti ha bisogno di trovare parole nuove per esprimere il proprio mondo interiore. Così Marina inventa nuovi nomi per i colori, in modo da incorporarvi la percezione cromatica:
«Rosta è il rosa chiaro che resta sotto una crosta quando si stacca, hai presente?[…] Verdatto è il colore del discorso ecologico: il verde ricatto.»
Noelia ha invece bisogno di coniare il termine Figlitudine per descrivere la propria condizione, dapprima scelta e poi subita, di figlia e basta, condizione sulla quale si plasmano la vita e le relazioni di lei e del marito così come le vite di chi ha figli si plasmano intorno a questi.
E in effetti, la vita di tutti gli inquilini di Villa Campanario ruota intorno al rapporto madre e figlia, con un repertorio di personagge, figlie senza madri e madri senza figlie, un repertorio ricco per valore più che per numero, che mostra la dimensione più dura e conflittuale di tale rapporto, limitante anche negli aspetti apparentemente più dolci e teneri.
Jufresa riesce a descrivere con una grazia struggente la vita in questa villa, regalandoci uno spettro di sapori che raramente si trovano mescolati con tale sapienza.
Laia Jufresa, Umami, SUR 2017, pp. 247, € 16,50, trad. Giulia Zavagna
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