di Davide Mana
Una delle facende più snervanti, per la cricca politically correct che si picca di guidare i destini politico-finanziari di questo mondo post-post-moderno in cui il passato industrial-coloniale è una vergogna innominabile e i bambini cinesi che cuciono scarpe Reebok sono un incentivo allo sviluppo, è l’atteggiamento dannatamente inglese che gli inglesi mantengono inflessibilmente riguardo al proprio passato coloniale, e in particolare riguardo al Raj, la dominazione britannica in India.
È come se la Perfida Albione, nazione notoriamente refrattaria al politically correct, così come al sistema metrico decimale e all’idea che ci possano essere cento centesimi in una moneta, avesse deciso che in fondo non è il caso di vergognarsi poi tanto di ciò che accadde in india, diciamo dal 1740 al 1947.
Anzi, si direbbe che la partita sia stata decisamente ben giocata, e oltretutto fuori casa.
A differenza degli americani, che in Vietnam sostengono di aver pareggiato, o dei francesi, che in Indocina hanno fatto sospendere la partita per pioggia, gli inglesi, insomma, pare abbiano deciso di vergognarsi solo dei lati vergognosi del proprio passato, senza andare a nascondere tutto indifferentemente sotto due mani di densa vernice tanto pubblicamente pietistica quanto cinicamente studiata.
E in effetti, un po’ di revisionismo potrebbe giovare all’opinione generale sugli inglesi in India, che noi tutti vediamo sempre un po’ troppo filtrata dai vecchi film made in Hollywood con Sabù.
È necessaria una certa prospettiva, benvenuta boccata d’aria nell’atmosfera resa stantia in un panorama culturale in cui anche l’ovvio deve essere taciuto, pena una inammissibile infrazione alla correttezza politica.
Gli inglesi tale prospettiva la praticano da quasi quarant’anni, da quando George Allen pubblicò Plain Tales from the Raj intervistando i sopravvissuti al colonialismo, che si rivelarono gente tranquilla, che aveva sempre avuto un rapporto di grande rispetto verso gli indiani; gente fermamente convinta di aver fatto un buon lavoro, molto imbarazzata per certi atteggiamenti che col passare degli anni si sarebbero poi rivelati fallaci.
Non Erroll Flynn, ma semplicemente Decent fellows – tipi a posto.
La storia dei tipi a posto coloniali, che non erano orchi, erano solo persone convinte di possedere una cultura migliore, ha portato sugli scaffali degli appassionati di storiografia alcuni dei più ponderosi volumi stampati negli ultimi decenni (che si tratti dell’Hopkirk di The Great Game, del Lawrence James di Raj: The Making and unmaking of British India o dell’Allen dell’ingannevolmente esile Soldier Sahibs), oltre ad alcune perle assolute della narrativa storica, sulle quali giganteggia il ciclo di Flashman, certo il miglior corpus di romanzi storici mai scritti, che invano Frassinelli e TeaDue hanno tentato di vendere al pubblico italiano.
Ora, per chi fosse stanco di rivedersi in Tv stanche repliche di film americani sull’India britannica, Neri Pozza pubblica nei tascabili, a soli trent’anni dall’uscita in Gran Bretagna, L’assedio di Krishnapur secondo volume di quella Trilogia dell’Impero scritta da J. G. Farrell, che già si era affacciata sui nostri scaffali col precedente Tumulti (Neri Pozza 2003).
Il romanzo (che vinse il Booker Prize nel 1973) prende le mosse dagli eventi nella Rivolta dei Sepoys, che gli inglesi testardamente si ostinano a chiamare Indian Mutiny e gli indiani, senza troppe giustificazioni, Prima Guerra di Indipendenza – uno degli eventi più sanguinosi e misteriosi della storia del XIX secolo.
La Krishnapur del titolo è una località di comodo popolata di inglesi tanto stereotipati quanto credibili, per i quali l’interruzione della routine quotidiana causata dalla rivolta è inizialmente un fastidio,successivamente un orrore.Assediati nella Residency, centro amministrativo e sociale non più così rassicurante, i nostri eroi rimangono dannatamente inglesi fino alla fine, conservando le proprie idiosincrasie, i propri tic, le proprie ferree convinzioni.Il tutto con una notevole aderenza storica – e anzi, se vogliamo proprio muovere una critica a Farrell, dobbiamo notare come egli si sia astenuto dal replicare nel microcosmo di Krishnapur alcuni degli eventi più ridicolmente inconcepibili ma assolutamente reali accaduti durante la Rivolta.
Una commedia nera, quindi, con assediati affamati circondati non solo da rivoltosi feroci, ma anche e soprattutto da un folto pubblico di locali, equipaggiati con molto britannici cestini da pic-nic, seduti all’ombra in attesa che si scateni la mattanza finale.
Si ride molto, leggendo L’assedio di Krishnapur, e qua e là si rabbrividisce alla crudezza della rivolta.
I giudizi morali sono, molto correttamente, sospesi.E se da una parte Farrell non esita a satireggiare tutta la grande retorica dell’Impero nel ritrarre questi dominatori spauriti e sull’orlo di una crisi di nervi, dall’altra non manca di sottolineare come proprio il pragmatismo e la ferrea aderenza a un codice di comportamento tanto fuori posto da scivolare nel ridicolo, costituirono in tempi di crisi il principale sostegno di uomini e donne che erano lontani da casa, soli e circondati da nemici inferociti.
Che la ferocia dei nemici fosse probabilmente giustificata, è innegabile.
Che la partita risultante venne giocata al meglio da entrambe le squadre in campo è un’ammissione che non rende nessuno migliore o peggiore.
E se è male ridurre tutto a una mera rappresentazione, a una partita, quando morirono a migliaia, forse è comunque una scelta preferibile alle stupide recriminazioni, o a una vuota aspersione di ceneri su capi che non si chinano.
Le vicende dell’impero cartografate da Farrell prima della sua inattesa e vagamente ridicola morte (travolto da una mareggiata anomala mentre pescava), proseguono con The Singapore Grip (1978), che ci auguriamo Neri Pozza non ci faccia aspettare altri trent’anni.
James Gordon Farrell
L’Assedio di Krishnapur
Neri Pozza, pp. 397, € 8.50
ed. or. 1973, trad. Vincenzo Mingiardi