Roberto Maiocchi
Gli scienziati del duce
(Carocci)
«Allora, siamo intesi: si lavora per l’autarchia!»
(Benito Mussolini, in visita alla nuova sede del CNR, 12 giugno 1938).
A partire dalla fine del 1937 la comunità scientifica italiana venne pesantemente condizionata da due elementi pressanti e strettamente legati: autarchia e guerra, autarchia per sostenere l’economia di guerra. Come dimostra Gli scienziati del Duce di Roberto Maiocchi (autore anche di Scienza italiana e razzismo fascista), la scelta autarchica influenzò la ricerca di base italiana pubblica e privata, le sue applicazioni tecnologiche e la produzione industriale. L’ombra di quegli avvenimenti e di quelle scelte grava ancora oggi sulla situazione scientifica italiana.
Dopo l’Unità, che riunì territori fino ad allora autonomi anche dal punto di vista culturale e accademico, la scienza italiana si ritrovò preda di spinte accentratrici e tendenze autonomiste, forti sentimenti individualistici, scarsa disponibilità a collaborare e penuria di fondi. Fortemente empirista, l’ambiente scientifico accordava scarsa importanza alle formulazioni teoriche e alla riflessione metodologica ed epistemologica, così fu lentissima e incompleta la penetrazione di nuove idee, dalla termodinamica alla teoria elettromagnetica di Maxwell, dalla chimica-fisica di Gibbs alla teoria cinetica, dalla relatività alla genetica.
A parte Medicina, a farla da padroni erano i matematici, in credito verso lo Stato sia per i meriti acquisiti partecipando al Risorgimento sia per il loro ruolo di primo piano a livello europeo. Diversa la situazione per la Chimica e la Fisica e ancor meno per le discipline tecnologiche, emarginate dalla cultura italiana umanistica e teorica. Se l’Istruzione trascurava le esigenze dei nuovi settori industriali, la struttura produttiva italiana si concentrava su settori tecnologicamente vecchi basati sullo sfruttamento della mano d’opera anziché sull’innovazione tecnologica; nemmeno nei gruppi industriali più avanzati prevalse l’opinione che la scienza fosse una risorsa fondamentale per la produzione. Soltanto gli imprenditori del settore chimico cercarono di ottenere maggiori investimenti nella ricerca, ma rimasero inascoltati. Così, nei decenni successivi all’Unità, la ricerca italiana visse separata dalla produzione e scontando un paio di secoli di ritardo su quella internazionale.
La prima svolta significativa si verificò con la grande Guerra, quando anche l’Italia, come tutti i paesi coinvolti nel conflitto, comprese che la scienza doveva fronteggiare nuovi urgenti problemi teorici e prendere contatti con il mondo industriale. Il nostro Paese, che dipendeva brutalmente dall’estero per tante produzioni, cercò di rendersi autonomo dando vita a una sorta di «nazionalismo tecnico-scientifico» che ebbe gran peso nello sviluppo dell’ideale autarchico del Ventennio.
Dopo il tracollo del 1929 la tendenza internazionale a ripiegare verso i mercati interni diede nuovo ossigeno a questa concezione che favoriva le scienze applicative e poneva come scopo della ricerca non più il bene dell’umanità ma, più modestamente, quello del Paese. Negli anni successivi il Partito Nazionale Fascista avrebbe favorito, almeno a parole, questo punto di vista con politiche corporativiste, autarchiche, imperiali.
Contribuirono alla svolta anche le sanzioni economiche annunciate alla fine del 1935 dall’Europa contro l’Italia, alle quali il governo rispose con l’epopea fascista della lotta italiana contro le senescenti democrazie occidentali. Le sanzioni durarono in tutto sette mesi ma bastarono a coinvolgere in maniera non più superficiale la scienza italiana nelle vicende economiche e politiche del paese e permisero al regime di raggiungere il punto più alto del consenso e della mobilitazione sociale. I problemi autarchici del 1936 riguardarono, come il saggio di Maiocchi dimostra in capitoli estremamente ricchi di documentazione e bibliografia, settori chiave come il chimico, il siderurgico, il tessile, la produzione di combustibili, di elettricità, di carta, di gomma e prodotti strategici come gli esplosivi. Per affrontarli venne messo in atto – almeno nelle intenzioni – un riorientamento di molti programmi scientifici esistenti e il CNR acquisì una gran mole di informazioni sullo stato delle ricerche nel Paese. Purtroppo gli sforzi (mal coordinati) di documentazione e programmazione delle varie commissioni non mai sufficientemente appoggiati dal governo che non garantì un impegno economico e politico adeguato.
Il 23 marzo 1936 Mussolini annunciò una svolta nella politica autarchica: in futuro l’autarchia non sarebbe più stata una semplice risposta difensiva alle sanzioni ma un progetto di offesa e di potenziamento della nazione. Nuovi fondi vennero promessi e in parte assegnati al CNR e altri ne giunsero dall’industria privata.
Per reperire materie prime il regime agì con spregiudicatezza, scegliendo i responsabili delle «missioni» di esplorazione delle risorse coloniali fra i tecnici di valore e non fra i fedelissimi del regime. Lo dimostra la vicenda di Henry Molinari, valente chimico anarchico e di famiglia socialista, tenuto costantemente d’occhio dalla polizia di regime, eppure nominato esperto del CNR e direttore della missione chimica di esplorazione per le risorse in AOI. Nonostante la propria avversione per il fascismo, che continuò sino alla fine del Ventennio, Molinari fu un fervente autarchico e, come tanti altri colleghi, considerò l’autarchia una chance per lo sviluppo di una scienza nazionale e come prospettiva eticamente accettabile di crescita del prestigio e della potenza della Nazione. Per consenso al regime, per convinzione patriottica o per opportunismo, i singoli scienziati ebbero un ruolo molto importante di propaganda capillare dell’ideale autarchico, fornendogli una copertura di razionalità scientifica.
Con i preparativi per la guerra l’ideologia del nazionalismo tecnico-scientifico divenne un atteggiamento bellicoso e arrogante e i nostri maggiori scienziati si trasformarono in tribuni, sostenitori delle scelte politiche governative e ufficiali zelanti di un esercito di ricercatori. Il progetto autarchico divenne totalitario, indirizzando tutta l’attività produttiva italiana in funzione bellica. La lotta contro gli sprechi affiancò la politica autarchica: tutti i settori economici, milioni di italiani e, in prima linea, il mondo scientifico furono coinvolti, vennero studiati moderni metodi di organizzazione industriale, si esaltò il risparmio energetico, il riciclaggio di tutti i materiali possibili, dai rottami alla carta da macero, e si giunse alla prescrizione surreale di «moderati digiuni» alla popolazione e al divieto per gli autocarri di viaggiare scarichi. Le casalinghe vennero precettate previa sensibilizzazione al problema degli sprechi con una mostra permanente patrocinata da Maria José di Piemonte. Vien da chiedersi se la nostra odierna scarsa disponibilità verso le raccolte differenziate e il riciclaggio non affondi le radici anche in un lontano scetticismo venato di fronda al regime… Fin dalla fine del 1937, nominando Badoglio presidente del CNR al posto di Marconi, morto a luglio, Mussolini tentò di costruire un asse preferenziale scienziati-militari, ma ogni sforzo fu vano: le Forze Armate non ebbero mai molta considerazione per il CNR e il CNR mancò sempre, per ragioni strutturali e di scarsa capacità organizzativa, di informazioni e di capacità di coordinare e indirizzare la ricerca nazionale.
L’ampio materiale d’archivio del saggio, lucidamente organizzato e commentato da Maiocchi, dimostra chiaramente come dapprima l’ideale autarchico avesse notevoli possibilità di stabilire un feedback rafforzativo con la scienza, promettendo al paese una grande avventura scientifica e quell’entrata nella modernità alla quale altri paesi occidentali si erano già affacciati da tempo. Ma con il passare del tempo, accanto a sinceri fautori di un’autarchia modernista, si schierarono opportunisti e collaborazionisti del regime che – perfino all’inizio del 1940, quand’era ormai fuori di dubbio come l’Italia non fosse in grado di affrontare una guerra – dichiaravano ancora il loro assenso, nascondendo la verità e diffondendo sui mezzi di informazione immagini del Paese assurdamente rassicuranti.
Alla fine della guerra sarebbe stato doveroso e necessario valutare senza falsa coscienza l’operato degli scienziati schierati a fianco del regime fino all’ultimo. Questo non si fece, per convenienza politica e in nome di una superficiale rappacificazione del paese; le radici della scienza italiana del Novecento non furono messe in discussione e, come accadde altrove, la sporcizia venne rapidamente fatta sparire sotto i lindi tappeti della nuova concordia nazionale. A rimetterci furono le discipline scientifiche e quei ricercatori, spesso di notevole valore, che – perché ebrei e/o perché schierati contro il fascismo – scelsero l’esilio, lasciando i loro posti ai “leali” servitori del regime.
tratto da LN-LibriNuovi 29 – primavera 2004