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    In primo piano · TerraNova

    Le mille e una notte

    • di Claudia Cautillo
    • Novembre 2, 2018 a 7:01 pm

    L’enorme fortuna letteraria de Le mille e una notte – antichissima raccolta di racconti di origine indiana, persiana, irachena ed egiziana – data a partire dalla prima traduzione in francese che ne fece il grande orientalista ed archeologo Antoine Galland, iniziando il nascente Illuminismo europeo al variegato universo della favola orientale. Ma la prima versione presentata alla corte del Re Sole tra il 1704 e il 1717, sia pure senza intenzione di tradire lo spirito del manoscritto originale, certamente non si può neanche dire vi brillasse per particolare aderenza. Perché, anche se scartata oggi ogni ipotesi di manipolazioni e aggiunte da parte di Galland, tuttavia l’esotico viaggiatore – al fine di rendere accettabile alle esigenze estetiche e morali dell’Europa dei lumi quell’incredibile tesoro narrativo capitatogli tra le mani – si vide costretto giocoforza ad edulcorarne i passi più scabrosi, nonché a snellirne i versi poetici così di frequente intercalati nella tradizione della prosa araba, badando dunque molto più alla materia che alla forma.

    Da allora ai giorni nostri è stato un susseguirsi ininterrotto di imitazioni, traduzioni e sillogi di questo caleidoscopico palinsesto del fascino d’oriente, a buon diritto entrato a far parte della storia della letteratura mondiale. Ma perché tanto successo? Eppure, a tutta prima, Le mille e una notte appaiono soprattutto per essere un’opera composita e di diseguale valore, scritta com’è da una varietà di anonimi autori e rimaneggiatori lungo il corso di diversi secoli (circa dall’XI al XIV), certamente scintillante di un’inesauribile vena fantastica, ma nella quale ad episodi eccellenti se ne affiancano altri piuttosto mediocri, se non addirittura grossolani.

    Per sovrapprezzo, il carattere popolare e fiabesco che emerge nelle sue oltre milleduecento pagine, fitti dell’audace realismo e dell’umorismo pungente delle avventurose storie di guerra e d’amore, dei proverbi, i motti, gli aneddoti piccanti e una diffusa atmosfera lubrica, è stato spesso banalmente frainteso – causa anche una certa facile speculazione editoriale – facendolo passare per un classico della letteratura pornografica oppure, quando espurgato degli elementi licenziosi, ridotto a mera raccolta di favole per l’infanzia. Ma il suo equivoco universo magico e picaresco, denso di Ginn, vergini sagge, ladri, schiavi, mercanti senza scrupoli, borsaioli, sbirri corrotti, beduini, visir, amuleti e incantesimi, è molto più di un semplice amalgama di tutto ciò, per quanto riuscito e affascinante agli occhi dell’immaginario occidentale. È piuttosto e prima di tutto la storia di una sfida – quella di raccontare per salvarsi la vita – dunque, in quanto tale, perfetta metafora di tutte le letterature del mondo: la narrazione come scudo e riscatto contro la morte, la fantasia e l’immaginazione come mezzi per traguardarla e vivere in eterno. Il punto di partenza e il perno attraverso il quale ruota l’intero, pirotecnico edificio de Le mille e una notte è, di fatto, proprio questo, ed è esattamente qui che si trova il fulcro della sua grandezza.

    Shahrazazàd nell’interpretazione di N Kayurova

    Infatti già dalla storia-cornice che racchiude tutte le altre, inaugurandole, sappiamo come la giovane sposa del re, Shahrazàd, sia costretta ogni notte ad ingegnarsi di raccontargliene una, così avvincente da far decidere al crudele sovrano di rinviarne di alba in alba la decapitazione, avido di conoscere il seguito della favola. Dunque un rischio ben al di là del semplice piacere di trascorrere il tempo, quello dell’astuta ragazza, che agendo per sé e per salvare da analogo destino le future spose del vendicativo Shahriyàr lo intrattiene per mille notti con le sue novelle, ottenendone infine la grazia e l’amore (non senza avergli anche dato tre figli maschi in tre anni, potremmo polemicamente aggiungere, ma questo è un altro discorso). Shahrazàd dunque emblema della letteratura e insieme inventrice del principio stesso della narrazione, quello del racconto interrotto che crea la suspense e l’attesa, eterno fondamento di ogni fiction letteraria, cinematografica o teatrale, della cui magia ipnotica siamo ben consapevoli noi moderni spettatori di sequel televisivi, o avidi divoratori di fumetti a puntate.

    Altra raffigurazione moderna di Shaharazàd

    Del resto, chi può dire quando finisca una storia? Ognuna ne genera sempre un’altra e un’altra ancora, come in un infinito gioco di scatole cinesi perché, si sa, le storie hanno vita lunga e si trasmettono di generazione in generazione e di cultura in cultura, e ciò accade in quanto una società senza letteratura, cioè senza immaginazione, in cui non c’è niente da dire perché non ci sono problemi né sfide né sogni, un mondo che di fatto avesse risolto ogni conflitto, semplicemente non è possibile. Forse lo sarà un giorno, ma allora ci saremmo già mutati in angeli o dèi, forse dèmoni, certo è che non saremmo più umani perché, finché lo siamo, rechiamo inciso nel nostro DNA l’ineludibile bisogno di ascoltare, scrivere, leggere e raccontare storie.

    Le mille e una notte, Einaudi, 1997, 2 voll., XXXVII-2599 p., ill., € 150,00, trad. Francesco Gabrieli

    Le mille e una notte, Einaudi Tascabili. Biblioteca, 2017, 4 voll., € 50,00, trad. Francesco Gabrieli

    Disponibile anche in altre diverse edizioni con altre curatele (Feltrinelli, Donzelli,ecc.)

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