Nel febbraio del 1989 apparve su LN la recensione a Il pendolo di Foucault di Umberto Eco. Riletta a distanza di (molti) anni mi è sembrata, con le dovute correzioni, tagli, aggiunte e interventi sul testo, tuttora pubblicabile. Insieme alla recensione «seria» uscì anche una recensione meno seria che partiva dal dato di fatto di non aver letto il libro e che riportiamo in calce a questa. Buona lettura e buon divertimento.
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Comincerò col dire che Eco mi era simpatico e dato che non sono – per mia fortuna – un critico letterario, non ho alcun interesse nel denigrarlo, né alcune livore nei suoi confronti, tanto più tenendo conto dell’insegnamento di Chilone di Sparta: de mortuis nihil nisi bonum. Aggiungo che:
1] mi sono divertito a leggere Il nome della rosa, come probabilmente Eco si è divertito a scriverlo. Vi ho trovato pagine piacevoli, scritte da un professionista, alcune volte anche belle e significative.
2] Non condivido la visione romantica dell’arte per cui l’Opera è meritevole solo se creata sotto la spinta di ispirazioni travolgenti e inarrestabili e vale la pena di scrivere solo se si è almeno Tolstoi alle prese con Guerra e Pace. Un vero professionismo, un artigianato di buon livello in un mondo di eterni dilettanti di belle speranze sembra già auspicabile.
3] Trovo risibili le critiche ai romanzi «scritti al computer», come se fosse il computer e non l’autore a scriverli. Sicuramente esistono testi scritti basati su canovacci semplicissimi e intercambiabili, ricombinati ogni volta mediante il computer – esistono persino programmi che si dedicano a questa attività – ma la scelta dell’idea iniziale, della combinazione e delle parole è, evidentemente, un compito da scrittore.
Tutto ciò detto per sgombrare il campo da eventuali equivoci, il libro non mi ha convinto: è un tentativo apprezzabile ma non riuscito, un’occasione persa.
L’idea di base del romanzo non è nuova anche se sicuramente suggestiva: non esistono la Realtà e la Verità, quindi una realtà e una verità qualunque e soggettiva valgono quanto tutte le altre, ovvero nulla. Ognuno di noi può costruirne a proprio uso e consumo, perché si annoia, perché è disperato, perché vuole avere fede: troverà non uno ma molti disponibili a crederci, addirittura a reinterpretare la propria esistenza alla luce di tale «rivelazione». Solo che Eco non è Borges (tanto per fare un nome) e i suoi giochi di specchi, i rimandi continui per i quali un personaggio è intercambiabile con un altro all’infinito e tutti giocano il loro ruolo, indistinguibili dal loro vicino di casa o al loro peggiore nemico risultano un po’ troppo schematici e rigidi per convincere il lettore.
All’insana passione che spinge i personaggi del libro a inventare una realtà fittizia che si rivolterà contro di loro, fa da contraltare il saldo buon senso della moglie del narratore: dove il marito vede misteri da da risolvere, coincidenze inspiegabili, messaggi segreti, torbidi enigmi, lei reagisce con facili e prosaiche spiegazione che, probabilmente, sono vere; all’ermetica costruzione cerebrale del consorte la donna è portata a utilizzare un sano pragmatismo: la verità e il significato della vita sono nelle nostre scelte quotidiane, nello scegliere di fare un figlio e amarlo. Parole sante, come ammetterà troppo tardi il protagonista. Eppure questa incapacità di pensare in grande, sia pure delle solenni castronerie, questo rifiuto di dar vita ai proprio incubi, questo richiamo alle cose buone della vita: cibo buono, pancine e braccini (del bimbo), organini sessuali sessuali allegri per un amore sereno, fanno cascare le braccia: meglio la follia del protagonista di questa saggezza pedestre, incarnata – com’è ovvio – dalla solita Donna che, per antonomasia, ha una comunicazione privilegiata con l’utero del mondo. Sembra, in questa contrapposizione tra fantasia e buon senso, che non vi sia altra possibilità che creare massimi sistemi o vivere nell’acquaio della cucina.
Ma, una volta detto della «filosofia» che regge Il pendolo di Foucault, passiamo alla sua organizzazione interna.
Come sempre succede nelle opere in cui tutto prepara alla rivelazione finale, detta rivelazione si mostra, alla fine, molto meno affascinante di quanto sembrava promettere. I cospiratori del romanzo – mi tengo sulle generali per chi non avesse letto il libro – non devono essere astutissimi per forza, ma qui si rivelano dei fenomenali c…, tanto che si ha la sensazione che il finale, più che evidenziare l’inesistenza della realtà, avvalori l’esistenza dell’imbecillità. Per comunicare l’impressione che il mondo poggi sul nulla e sull’inconoscibile sarebbero stati necessari dei villain un po’ meno da burletta.
Il testo non è «difficile» come hanno sostenuto i più svariati personaggi mediatici – tra i quali l’immancabile Francesco Alberoni –, semmai le scelte di Eco sono troppo evidenti, il gioco troppo scoperto, l’ingranaggio farraginoso; non è necessario essere esperti studiosi della Cabbalah per coglierne il contenuto, esattamente come non si richiedeva un’ampia cultura sulla vita e la letteratura medievale e sulla vita monastica per apprezzare Il nome della rosa. Inoltre Eco, per metà del libro, ci mostra l’insipienza di chi interpreta ogni testo, anche la lista della spesa, come il velo che copre un significato ben più profondo, a sua volta materializzazione di realtà inimmaginabili, che rimandano a… ecc. Se avete voglia – e tempo – di giocare a questo gioco, fate pure, ma tenete presente che Umberto Eco è stato un attento studioso dei generi letterari e forse non è riuscito a resistere alla tentazione di prendere benevolmente in giro i suoi lettori.
Il livello del libro resta comunque ineguale: ai momenti nei quali evoca con mano felice ricordi dell’adolescenza, spassose descrizioni dei «diabolici», autori di incredibili manoscritti in cui «loro» – i Templari, i Demoni, i Savi sconosciuti, le Entità Superiori, gli Immortali – si rivelano a noi, se ne alternano altri con lunghe descrizioni gratuite delle esperienze brasiliane del narratore e del suo amore infelice per una donna isterica e rompiscatole. E anche lo stile sembra curiosamente inadatto: avrebbe potuto essere secco e distaccato comunicando lo straniamento dei protegonisti da una realtà sempre più incomprensibile o, magari, allucinato, spezzato e soggettivo per dare in presa diretta la sensazione della marea dell’assurdo che inevitabilmente travolgerà il mondo, viceversa lo stile è piano, talvolta rotondo e soddisfatto di sé, e non riesce a coinvolgere il lettore, lasciandolo troppo spesso consapevole del fatto che sta leggendo un’interessante esercitazione di scrittura senza alcun rapporto con la narrativa.
In ogni caso vorrei sottolineare un aspetto del libro che non ha meritato l’attenzione che meritava. Nei due romanzi di Eco al centro dell’ingranaggio letterario c’è un metodo di approssimazione al reale. Ne Il nome della rosa il procedimento è basato sulla costruzione di ipotesi e di osservazioni e deduzioni che, basandosi esclusivamente su quelle, possono condurre alla verità e indubbiamente funziona, anche se la razionalità di Frate Guglielmo da Baskerville non potrà arrestare l’Inquisizione o impedire la distruzione della biblioteca, ne Il pendolo di Foucault il procedere scientifico viene viceversa rifiutato, scegliendo un metodo di indagine per simboli, «ermetico». Il vero nocciolo dei due romanzi pare tuttavia essere il medesimo: come raggiungere una (non LA) verità attraverso un metodo. È un tema insolito nel panorama letterario italiano, ricco di suggestioni puramente emotive, che sicuramente Eco non ha saputo (o voluto) cogliere e che lo rendono estraneo, poco comprensibile e poco gradito a che, scrittori, critici e lettori, è più sensibile a emozioni volatili e di breve durata e ha poca dimestichezza con un rigoroso metodo di procedere – e il dubbio si rafforza pensando alla banalità di certa letteratura e alla piaggeria che regna nel mondo della letteratura.
Resta la constatazione di come Eco ami rivolgersi essenzialmente a chi è in grado di cogliere i numerosi riferimenti contenuti nei propri testi, riproponendo sotto altra forma l’idiosincrasia e l’intolleranza per l’idiozia corrente, sia pure corretti da un pizzico di humour, un lascito comunque importante, che dovremmo ricordare nei momenti nei quali decidiamo che il resto del mondo non merita la nostra sofferenza.
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani Grandi Tascabili 2014, pp. 704, € 13,00
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Recensione a un libro non letto:
Il pendolo di Foucault consta di 509 pagine stampate, alcune delle quali non interamente, più altre venti pagine non numerate per un totale di 529 pagine, più quattro pagine della copertina: 533 pagine, meno le 20 pagine bianche che segnano fine ed inizio dei capitoli, in tutto 513 pagine da leggere. 513 è un numero divisibile per 3 e per 9, entrambi numeri mistici che rappresentano la Trinità e la sacra moltiplicazione di essa per sé medesima. Oltre a questo 5+1+3 dà ancora 9, ovvero, nella cultura cinese, il numero del Drago, simbolo di magia e di potere. Ancora: 513 : 3 dà 171, numero palindromo in cui la prima e l’ultima cifra sono uguali ed esprimono un ciclo eterno di morte e di rinascita nell’unità, mentre il numero 7, di valore biblico quant’altri mai (le Tribù di Israele, i Magnifici 7, le 7 età dell’uomo ecc.) rappresenta il valore etico invariabile della Creazione. Oltre a questo, dividendo 171 per 3, poi ancora per 3, poi ancora per 3 si ottiene 19, un numero primo, divisibile esclusivamente per se stesso e per 1. Non è nemmeno il caso di notare il valore mistico di una simile cifra. A questo punto abbiamo compreso il motivo di tante parole nel libro di Eco: si trattava di raggiungere la mistica e fatale cifra 513… E qui la mente si arresta, folgorata dalla Rivelazione e si inchina di fronte all’ingegno di una mente superiore: Il pendolo di Foucault era inevitabile come l’origine e la fine dell’Universo.
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani 1988, pp. 509
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