Grazie a Silvia Treves per la puntualità e la sagacia del suo giudizio. Al quale mi sentirei soltanto in dovere di aggiungere una chiosa che, se anche non perfettamente concorde con l’opinione espressa dall’autrice della recensione, spero possa essere almeno recepita come testimonianza diretta, quale che sia, di una lettura ‘di prima mano’ del libro in questione.
Quando l’editore italiano mi affidò la curatela di Satan: a Biography pensai a tutta prima, quantunque fossi giunto appena alla metà della mia traduzione1, che un saggio del genere non avrebbe potuto che sancire l’ennesima “scoperta dell’acqua calda”. Ed è un’impressione che, a onor del vero, non mi ha ancora abbandonato del tutto. L’idea di Satana – o meglio: di un satan – sostanzialmente identificabile, sotto il profilo teo-antropologico, con una ‘funzione devoluta’ – quella ‘giudicante’ e ‘correttiva’ – del divino non è affatto ignota ai cultori di esegesi biblica; e se Kelly intendeva ribadire tale verità lo ha fatto per via di volgarizzamento2, trivializzando ad uso dei non specialisti una nozione che è da tempo moneta corrente nell’ambito degli studi di scienze religiose. E, così facendo, ha corso però il rischio – al quale alludevo nella mia breve nota prefatoria all’edizione italiana – di ridurre in pratica il suo Portrait of Satan (as Demi-God?) alla descrizione di una mera maschera, trasformando la ‘biografia’ in apologo, o in moralità, o in masque, appunto.
Questo il motivo per cui, al modo di chi è stato spettatore della messinscena da dietro le quinte, edotto dei trucchi e degli espedienti posti in opera, non posso dirmi del tutto d’accordo con Treves circa il prevalente interesse delle prime 230 pagine del testo kellyano, abbacinate e rimbombanti di quel che si vorrebbe un coup de théâtre, ma che è in effetti – non c’è deus, o daemon ex machina atto alla bisogna: il gioco mostra la corda… – cosa fin troppo risaputa fra gli ‘addetti ai lavori’; a meno, naturalmente, di calcare un poco il pedale sulla precisazione successiva, che con molta opportunità sottolinea come tale interesse possa essere avvertito – e non solo ‘anche’, ma ‘soprattutto’, direi – da lettori laici3.
Credo però – e qui mi sia consentito di apertamente dissentire dall’opinione espressa da Treves – sia il resto del volume, ossia le successive circa centoquindici pagine4, pur se alquanto frettolosamente abborracciate rispetto ai capitoli precedenti, a contenere in nuce la segreta e complessa e, per molti versi, labirintica biografia di colui che già un grand rhétoriqueur della Gallia merovingica qualificava di larveus hostis “elusivo avversario”, e a domandare perciò il maggior contributo di attenzione (critica, beninteso) da parte del lettore. D’altra parte, stando a quanto asserito dallo stesso Kelly, è chiaro come la figura di Satana acquisisca un profilo storicamente – e politicamente, giusta Defoe – più risentito soltanto in età postbiblica quando, abbandonata con la legalistica rappresentazione del din hash-shamayim – il tribunale celeste in cui il satan assume la funzione di ‘pubblico ministero’ – ogni problematica velleità di garantismo teologico, conveniente a preservare l’unicità sovrana di una divinità nelle cui mani si concentrano luce e tenebra, vita e morte, perennemente compensate in periclitante equilibrio, la personalità del Diavolo comincia a manifestarsi in modo più netto e sfogato attraverso la continua riscrittura del palinsesto di una tragedia teologica e cosmica – che può anche essere, volendo, il “dramma” misterioso e “infelicissimo” di cui parlava l’’ineffabile’ papa Montini – che attraverso i secoli continuerà ad attingere liberamente spunti e stimoli dualistico-manichei, pur senza esserne integralmente condizionata5. Stando a quel che penso si possa onestamente dedurre da una lettura necessariamente scrupolosa di Kelly, pare innegabile che Satana, in definitiva, appaia più figlio della modernità (della sensibilità e dell’inquietudine moderne, anche senza arrivare all’età romantica) che dei primordi scritturali, i quali non documentano, non possono documentare che la storia prenatale – o, per così dire, la preesistenza fetale – del Diavolo. Perciò mi sarei aspettato, e soprattutto da un filologo moderno quale è il Kelly più che dal teologo ‘eccentrico’, e in particolare dallo studioso di letteratura medioevale e rinascimentale, un’attenzione maggiore alla vera narrazione biografica del personaggio, una storia che registra i suoi momenti salienti in concomitanza, verrebbe fatto di pensare, con la comparsa di alcuni tratti caratteriali per sempre ‘fissati’ entro fisionomie spiccate e ben identificabili: quella del Satana miltoniano, innanzi tutto, pur senza dimenticarne più remote avvisaglie (Kelly ne riconosce una, in particolare, che mi pare tuttora mirabile per concisione e poesia: il Diavolo dell’adespoto poema anglosassone noto come Genesi B, ossia lo spirito che desidererebbe, benché incatenato nell’abisso, “le mani armare di nuovo, e poi fuori / di qui, in un’ora d’inverno” prendersi la sua impossibile rivincita sul Cielo6).

Hery Ansgar Kelly
Mi corre però l’obbligo, a questo punto e in questa sede, di nulla sottacere neppure de minimis, chiedendo venia per un’intemperanza che confesso candidamente, benché motivata, se non giustificata, dall’oggettiva carenza di recenti traduzioni – utilizzabili, intendo: non pedestri né infedeli (evito qui a ragion veduta di parlare del Perduto einaudiano, dovuto all’altrimenti ottimo Sanesi) – dai grandi classici stranieri: per questo, un poco polemicamente, ho scelto di adoperare per i passi riportati dal Paradise Lost il primottocentesco volgarizzamento di Lazzaro Papi (orecchiato anche nella resa, del tutto imputabile a chi scrive, delle successive citazioni dal Paradise Regained). Possibile che un paese nel quale i buoni anglisti (e i buoni traduttori dall’inglese) non mancano di certo non disponga ancora, fra le altre cose, di un coerente Corpus Miltonianum – e si parla, a prescindere da ogni valutazione critica, di uno dei giganti della letteratura di tutti i tempi – volto in quella che dovrebbe essere ancora la lingua patria? L’evidenza del fatto non cessa di stupire.
Massimo Scorsone è stato il traduttore e il curatore del volume «Satana, una biografia»
edito da UTET.
1 Traduzione, sia detto per inciso, cui mi sono sforzato per senso del dovere di conservare – quasi – tutte le grossolanità rimproverate, e a ragione, ahimè!, da Peter Conrad in un sussiegoso articolo – leggibile alla pagina web http://www.guardian.co.uk/theobserver/2006/aug/27/society – apparso due anni fa sull’”Observer” (Better the devil you know, Sunday 27 August 2006, p. 21) allo stile talora ‘diabolicamente’ sciatto del testo del Kelly (ma quanta responsabilità avrà avuto l’editor della Cambridge University Press in tale deliberato adeguamento dell’arduo soggetto “to the thick-headed idiom of his auditors”? Me lo domando tuttora, pur senza sentire il bisogno di esibire il surcilioso disdegno dell’Oxford man).
2 Ulteriormente volgarizzando, voglio dire, rispetto al suo precedente La morte di Satana, pubblicato quarant’anni fa in Italia da Bompiani nella bella, e pressoché dimenticata, collana di testi teologici diretta da Paolo De Benedetti.
3 O addirittura da lettori di ‘formazione marxista’, che oggi si sarebbe forse tentati di accomunare nella desuetudine ai lettori di ‘formazione demonologica’… Ma questa non è che una troppo facile freddura, di cui faccio immediata ammenda.
4 Quantunque, per la verità, paiano solamente l’abbozzo di un libro che ha forse da essere ancora scritto, malgrado il precedente della rigorosamente letteraria fenomenologia praziana. Si quis habet aures audiendi, audiat: mi auguro che il caro amico Franco Pezzini trovi il tempo di leggere queste poche righe.
5 Spunti «ereticali» secondo la tradizionale prospettiva cristiana – in tale modo ho inteso l’ambigua menzione offertane dal Kelly, che parrebbe semplicemente sintetizzare a grandi linee la visione schleiermacheriana – , ma significativi, in realtà, di una ‘trasfusione’ di concetti ignoti al contesto originario del problema; cfr. H.A. Kelly, Satana, cit., p. 329, n. 4 (nota mia).
6 Il testo del frammento viene integralmente citato a p. 261 del volume.
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