Sospeso tra ricostruzione storica, biografia minuziosa, riflessione teologica e romanzo il Regno è un testo singolare, ma apparentemente non insolito nella produzione dell’autore che si muove spesso al confine tra questi generi, basti pensare a Limonov, un libro che ho molto amato ma che non ho ancora avuto il coraggio di recensire, o a Io sono vivo e voi siete morti, biografia di Philip K. Dick, o a L’avversario, un notevole romanzo-verità nel quale lo scrittore ricostruisce, dialogando con lui e intervistando amici e conoscenti, la vita e i pensieri di Jean-Claude Romand, un uomo« normale» divenuto assassino della moglie e dei due figli.
In realtà Il Regno è un’opera stupefacente perfino per Carrère e farci i conti (ma anche semplicemente terminare di leggerlo) richiede ai lettori la giusta disposizione d’animo, ginnastica mentale, un bel ripasso sulla storia del cristianesimo e soprattutto la disponibilità a prendere posizione – e contemporaneamente a sospendere il giudizio – su questioni di fede religiosa, un tema che molti considerano privato e delicato da affrontare anche fra buoni conoscenti.
Quanto segue è il mio tentativo di venire a patti con Il Regno, un parere da lettore amante della Storia e delle storie, e un parere da non-credente (come dicevo, il testo quasi impone una presa di posizione).
È un libro sorprendente, che comincia come una sorta di confessione, prosegue come un’inchiesta sulle origini del cristianesimo e termina con un commovente interrogativo, che per mezzo dell’argomento di questo libro, riguarda la fedeltà al Signore, Anche se non è più questione di fede [trad. mia dal francese].
Così inizia la recensione – puntuale e dissenziente ma abbastanza generosa – di Padre Pierre Debergé1, noto biblista.
In realtà, trattandosi di un libro di Emmanuel Carrère, Il Regno è anche molto altro, in particolare una riflessione, lunga più di 400 pagine, di Carrère su se stesso, un parlarsi addosso – mai banale ma molto ben orchestrato – prima sulla propria crisi religiosa, poi su una conversione al cattolicesimo che sfiora l’ossessione, poi sul ritorno allo scetticismo tra rimpianto e sollievo. Di uno così, che parla di santi ed evangelisti per raccontare di sé e viceversa, vien da pensare: «anche se è bravo un terzo di quanto pensa di essere, la lettura potrebbe valere la pena». Il che è abbastanza vero.
Il tema centrale del libro è il significato della fede cristiana e Carrère lo affronta da tutti i lati, anche molto personali, tirando in ballo il suo atteggiamento verso la famiglia, le conversazioni a sfondo religioso con la madrina Jacqueline e con l’amico Hervé, una di quelle persone che «leggono Platone e i mistici, diventando dei cosiddetti “esseri religiosi” – senza rapporti con nessuna Chiesa, nel caso di Hervé» che per me è una delle figure più interessanti del libro, mescolando la sua vicenda personale con un saggio sull’origine del Cristianesimo e le biografie – scritte un po’ da storico e molto da narratore – di due figure peculiari come Paolo di Tarso e Luca l’evangelista. Ciò che rende Il Regno così particolare, e forse per alcuni lettori, detestabile, è proprio l’intreccio tra ricostruzione storica, confessione personale e invenzione letteraria: «Luca, come io lo immagino», ribadisce più volte. Dallo sfondo emergono Pietro, Giacomo e Giovanni, Flavio Giuseppe, un Cristo dalle infinite sfaccettature e moltissimi altri.
Spiegando la natura ibrida de Il Regno, Carrère afferma:
C’è una sorta di mémoire autobiografico, un’indagine storica e si può dire enfaticamente, una meditazione sul cristianesimo2 [trad. mia dal francese].
La prima parte del libro è intitolata La Crisi e documenta la trasformazione dell’autore da laico scettico in cattolico ossessivo frequentatore quotidiano i funzioni religiose e compilatore di lunghi commenti sul vangelo di Giovanni. Egli dipinge se stesso come un intellettuale intelligente ma superficiale, amante delle luci della ribalta, edonista, sempre al corrente delle serie TV più trendy e mai lontano da manifestazioni culturali, giurie e festival, qualcuno che vorrebbe – ma sa di non esserne capace – scrivere il romanzo del secolo, un narcisista talmente impegnato a contemplare e mettere in mostra se stesso da dimenticare le persone che ama. A causa di letture concomitanti, ho pensato a Karl Ove Knausgård, autore de La morte del padre, altro scrittore che si impegna con spasmodica arroganza nel mettere in piazza se stesso, la compagna del momento e la famiglia: molte belle pagine ma troppa, davvero eccessiva, prossimità. Va detto a suo onore, Carrère è non solo più simpatico ma anche più tollerante e i lettori faticano molto meno a identificarsi nei suoi dubbi e malesseri.
Gradualmente egli supera la crisi e trova altrove la forza che sino a poco prima gli offriva soltanto la fede. Restano però il bisogno di spiegare a se stesso il proprio percorso religioso e il disincanto successivo, l’impressione che la fede non possa più contenere l’ansia la vita scivoli via «senza che io mantenga le promesse di un talento ormai svaporato», l’accettazione di una mancanza che ora sa di non poter colmare nemmeno affidandosi a Cristo:
Sono diventato quello che avevo così tanta paura di diventare. Uno scettico. Un agnostico – nemmeno abbastanza credente da esser ateo.
Le altre trecento pagine de Il Regno, non avrebbero potuto essere scritte dal Carrère di un tempo e sono il tentativo apprezzabile di rispondere a questi nuovi bisogni:
Il cammino che in passato ho compiuto da credente, lo compirò oggi da romanziere? Da storico? […] Diciamo da investigatore.
L’indagine si svolge all’epoca di Paolo e Luca, due personaggi di «seconda generazione» rispetto a Cristo, che non lo conobbero mai e ce ne danno una visione personale, basandosi su documentazioni precedenti, in particolare sul vangelo di Marco e su un testo ora perduto, indicato come Q (dal tedesco Quelle, fonte). Inoltre Paolo e Luca rompono, secondo Carrère, con la chiesa dominante e vincolata alle regole di Gerusalemme, incarnata da Giacomo.
Secondo la ricostruzione di Carrère, Luca non è un cristiano, ma un «greco attratto dalla religione degli ebrei», come molti suoi contemporanei, proprio come – suggerisce l’autore – molti di noi attualmente considerano il buddhismo: «una religione al tempo stesso più umana e più raffinata, con quel sovrappiù di spiritualità che mancava al paganesimo morente». L’incontro casuale di Paolo e Luca in una sinagoga della Troade cambierà il corso del cristianesimo. Il Luca che Carrère ci presenta e nel quale si rispecchia trasformandolo in un alter ego («so che mi sto proiettando») è un intellettuale sensibile alla bellezza delle storie, che scrive in un greco colto e scorrevole, e verso il quale l’autore prova un trasporto dovuto alla passione comune per la narrativa. Luca ha l’ambizione di raccontare la vita di Gesù da storico, ma è soprattutto un narratore che sottolinea la misericordia, la dolcezza e la bontà di Gesù, la condanna delle ricchezze, il valore della povertà, e che richiama continuamente l’azione dello Spirito Santo, tutti elementi che trovano ampio spazio anche negli Atti degli apostoli.
L’opinione, molto controversa, di Carrère è che Luca abbia reinventato Gesù a somiglianza di Paolo: il Gesù che noi conosciamo sarebbe una creazione di Luca, ritagliata in buona parte sulla figura di Paolo.
Non entro nel merito della questione e suggerisco di leggere la recensione di Padre Debergé per comprendere le divergenze tra il punto di vista di Carrère e quello di un biblista. Per quanto riguarda il piano storico molti recensori gli contestano l’aver troppo accettato il punto di vista di Renan su Gesù e l’aver descritto il mondo greco-romano da un punto di vista cristiano-centrico, cioè come estremamente secolarizzato, corrotto e scettico (valga per tutti la divertente descrizione ciceroniana degli aruspici che si guardano ridendo); altri sottolineano la visione singolarmente «maschile» di una società antica nella quale le donne trovano posto solo come vergini virtuose, spose o corpi voluttuosi (ma su questo punto non saprei dargli torto: le molte celebri e celebrate eccezioni temo non costituissero la regola). Lascia semmai perplessi che anche nel presente di Carrère il libro proponga o mistiche scatenate come zia Jacqueline o immagini pornografiche come la ragazza lungamente spiata sul PC o amate figure marginali.
Il libro si snoda su più livelli temporali (l’adesso di Carrère, il suo passato, l’allora di Paolo e Luca), su piani pubblici (quello avvincente – e poco noto a molti possibili lettori – di Gerusalemme prima e dopo la caduta, quello del vasto mondo greco-romano del primo secolo dopo Cristo) e privati (quelli fittizi dei due personaggi, e quelli reali di Carrère e della sua famiglia); la vita interiore solo immaginata di Luca e quella autonarrata dell’autore si intrecciano e si riflettono e quest’ultimo aspetto spiazza molti lettori che, forse, avrebbero preferito non diventare tanto intimi con Carrère; ma tant’è: questo bisogno – che va ben oltre la volontà di mettersi in gioco – di esibire il proprio sé in pubblico è la vera cifra di molte sue opere, quelle non strettamente delimitate dalle regole della narrativa. Prendere o lasciare.
Vale la pena di «prendere»? Direi di sì, anche se recensire il libro è stato molto più difficile che leggerlo e se la confusione di personaggi, di fonti e di notizie biografiche è cominciata nella mia mente non appena ho chiuso il volume.
Però, lettori, state in guardia: io sono andata a scuola dalle monache e, come accade spesso a chi ha maturato un misticismo che prescinde dalla fede, entrando in un chiostro e annusando incenso mi sento a casa mia.

Emmanuel Carrére
1.
2.
http://www.lesinrocks.com/2014/09/01/livres/le-royaume-crise-de-foi-emmanuel-carrere-11520032/
Emmanuel Carrère: Il Regno, Adelphi «Fabula», 2015, pp. 428, € 22,00, Traduzione di Francesco Bergamasco
Idem, Adelphi «gli Adelphi», 2016, p. 428 € 14.00
Idem, Adelphi ebook, 2015, € 7,99
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