Mi è già capitato di parlare in queste pagine di Mark Leyner, autore che non si può certo definire di sf, ma che con la fantascienza ha un evidente rapporto di familiarità. Leyner, come Noon, Marshall, Womack, Stephenson e altri, costituisce un esempio di post-cyberpunk (che belle le etichette, come permettono di sbrigare quattro, cinque scrittori con un’unica parola…). Già, ma cosa vuol dire post-cyberpunk? Per farla breve significa che voi prendete tutto quanto c’è di marcio, assurdo, deviante, allucinante nel romanzo pulp, aggiungete alcune delle suggestioni più trash della sf classica (l’invasione aliena, i marchingegni ultratecnologici, la spersonalizzazione e il controllo inconscio da parte di extraterrestri ripugnanti, possibilmente dotati di esoscheletro), mutuate alcuni temi tipici del Cyberpunk ( il corpo protesizzato, la percezione distorta, la microtecnologia invasiva e onnipresente); volgete il tutto al presente, ne fate una storia sbilenca, ultraletteraria nei riferimenti ma quotidiana nel linguaggio e nei temi e avrete il vostro post-cyberpunk, ovvero il delirio di un Kerouac robotico. Per spiegare in modo acconcio lo stile e la forma di Leyner faccio ricorso a un articolo uscito su La Repubblica a firma M.D., contemporaneo del libro:
La densa scrittura leyneriana, più vicina alla poesia che alla prosa, è una pioggia di metafore che abolisce la trama e i personaggi, per giocare simultaneamente con diversi codici. «Sono cresciuto in un ambiente cittadino e ho visto che in uno spazio piccolissimo esiste ogni tipo di linguaggio», spiegava Leyner alcuni anni fa in un’intervista rilasciata a Fernanda Pivano. «Così, quando ho cominciato a pensare a che genere di scrittore avrei voluto essere, decisi di usare tutti i diversi linguaggi – della tecnologia, dell’amore, della politica, della pubblicità – per ottenere un tipo di scrittura completamente nuova, che mostrasse come i linguaggi non sono forse così diversi l’uno dall’altro».
Debbo dire che il precedente Leyner, Mio cugino il gastroenterologo, possedeva una freschezza e una capacità di sorprendere che in questo Ehi tu, baby, decisamente più ricercato, latita. Quando si vive di giochi di prestigio è normale puntare a far volare sempre più piatti, cerchi e bastoni. Diciamo che qui Leyner fa volare un numero prodigioso di oggetti ma che l’esibizione comincia a dare lievi segni di stanchezza. Ma non lasciatevi troppo fuorviare dal mio parere: le invenzioni paradossali e le inversioni di senso dei testi di Leyner sono un meraviglioso attentato ai vostri cervelli, un salutare corto circuito per il vostro lessico e la vostra visione del mondo. Insomma, non perdetelo.
Nota: la traduzione del romanzo (romanzo?) è di Anna Rusconi. Ho una sola parola da dirle: BRAVA!
Mark Leyner, Ehi tu, baby, Frassinelli 1997, pp. 180, trad. Anna Rusconi
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