Canto di pietra, di Iain Banks (Guanda), non è un romanzo di fantascienza – manca la M. di Menzies tra il nome e il cognome – ma un racconto fantastico travestito da romanzo di ucronia. L’Io narrante, Abel, un nobile inglese proprietario di un piccolo castello e di alcune tenute, vive ai giorni nostri ma nell’Universo accanto, durante una lunga guerra combattuta da truppe ormai senza bandiera, senza generali, senza ideali, soldati irregolari e non più eserciti, che serbano una parvenza di organizzazione militare ma nessuna memoria delle ragioni del conflitto e dell’identità del nemico. Lottano per sé, per la sopravvivenza delle loro piccole formazioni, opposti a nemici occasionali che uccidono e cercano bottino nei medesimi villaggi e sui medesimi campi dove loro stessi avrebbero voluto giungere per primi.
È proprio una di queste unità autosufficienti, che solo la disciplina militare distingue da una banda di tagliagole, a prendere in ostaggio Abel e la sua compagna Morgan, impedendo loro di mettersi in salvo. Guidati dalla Luogotenente (grado probabilmente tradotto in maniera troppo letterale, ma che rende bene il ruolo ambiguo del personaggio) i “soldati” si installano nel castello, dapprima rispettandolo, tenuti saldamente in pugno dal loro capo, poi sempre meno disposti a rendere omaggio a un nome vecchio di secoli e alla ricchezza familiare. Tra la Luogotenente, una donna con un destino banale che la guerra ha promosso ad un gioco più rischioso ed esaltante, e i suoi ospiti, pieni di cultura e di annoiato senso artistico, comincia una partita nella quale due contendenti, il comandante e Abel, si disputano – senza mai ammetterlo – Morgan, affascinante e inafferrabile creatura, tutta esteriorità eppure sempre distante da entrambi. «Quando pensa ad alta voce è molto silenziosa» così Abel la descrive alla Luogotenente, che finge di scandalizzarsi, la mente già persa dietro i passi di Morgan.
La guerra, nell’accezione peggiore e più misera – uccisioni, ruberie, violenze che più nulla hanno a che fare con i motivi mai dichiarati del conflitto – incalza. Un’unità nemica prende a cannonate le mura del castello e ne incendia un’ala; la Luogotenente trascina i suoi in una scaramuccia vincente, dalla quale tutti tornano esaltati. La festa che segue sarà fatale al castello e ai suoi proprietari: gli uomini ubriachi distruggeranno gli arredi, la Luogotenente segnerà un punto contro Abel che trascinerà i protagonisti alla rovina.

Iain Banks
Banks ha scelto di far narrare tutta la storia da Abel a Morgan, il perno dei suoi desideri, complice in un legame che va ben oltre quello tra un uomo e una donna, vittima insieme a lui di un ostracismo sociale accettato e cercato con irriducibile orgoglio. Di Morgan conosciamo soltanto ciò che ne pensa e ne dice Abel, eppure il personaggio cambia sotto i nostri occhi, nel corso della narrazione, così come Abel, che da compagno indulgente di una donna superficiale diventa lo strano, lunare carnefice di una creatura consenziente che mai si concede sino in fondo. La Luogotenente, opportunista leale solo verso i suoi uomini, che condivide in pieno la logica dell’universo maschile ed è sedotta senza amore dalla femminilità estranea ed elusiva di Morgan, è un personaggio seducente, all’inizio difficile da amare, ma infine meno detestabile dei suoi ricchi, annoiati ospiti, che resistono alla tempesta del tempo più per salvare la forma che per convinzione.
Scritto con rarefatta concentrazione, intessuto di ricordi, immagini nitide, tempi lenti scanditi da piccoli gesti condotti caparbiamente sino in fondo, è un libro che punta in alto e si chiude rilanciando alla grande, con il passo di una dance macabre. La grandezza del romanzo – o il limite, se preferite le storie che lasciano qualche messaggio – è di non fornire ragioni e consolazione: i tre personaggi si fronteggiano senza motivi, la loro fine è frutto del caso, la loro sorte ininfluente.
Iain Banks, Canto di pietra, Guanda 1999, TEA 2000, pp. 223, trad. M. Birattari, disponibile esclusivamente in forma di usato (purtroppo): QUI
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